I dati della crisi, che continuano ad alimentare i nostri dibattiti e le nostre preoccupazioni, sono come spie che dicono, tutti assieme e concordemente, che la 'macchina del capitalismo' ha dei problemi, alcuni molto seri. Una spia di colore rosso fuoco si è accesa ormai da tempo, e sarebbe ora di fermarsi per fare qualche intervento serio al motore: è la spia del lavoro. Eppure in un momento alto della nostra storia politica e civile, lo abbiamo posto come pietra angolare della legge fondamentale degli italiani.Sono molti i significati del primo articolo della nostra Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». In ogni patto, le prime parole che si pronunciano sono quelle più dense di contenuti simbolici e ideali. Si sarebbero potute scrivere in quel posto speciale altre parole alte, come libertà, giustizia, uguaglianza o persino fraternità; invece in quell’incipit del patto fondativo della nuova società italiana fu inserita la parola lavoro. Una parola umile ma forte, associata da sempre alla fatica e al sudore, e persino considerata nell’antichità come attività confacente allo schiavo, perché troppo infima: «Ignobili e abietti, poi, sono i guadagni di tutti quei mercenari che vendono, non l’opera della mente, ma il lavoro del braccio... Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bottega » (Cicerone, De Officiis). Parole pesanti, che certamente erano parte della formazione classica di molti di quei padri costituenti, che però furono capaci di guardare soprattutto alla loro gente e così, pace per Cicerone o Aristotele, videro la tanta nobiltà che c’era «nelle botteghe». E così scrissero la parola lavoro come il primo sostantivo dell’Italia post-fascista – una scelta doppiamente coraggiosa, se si pensa alla retorica del lavoro che aveva caratterizzato il Ventennio. Nella semantica di quel lavoro c’era la vicenda storica dell’Italia contemporanea, dove la democrazia stava avanzando proprio grazie al grande movimento di lavoratori, uomini e (poche) donne, che divennero veramente cittadini quando, abbandonando lo status di servi in una campagna ancora per tanti versi sostanzialmente feudale, divennero lavoratori nelle fabbriche, nelle officine, nelle scuole, negli uffici e nelle cooperative.Non tutto il lavoro fonda la Repubblica, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi. Ma nelle parole dell’articolo 1, c’era e c’è anche l’esperienza di tanti che per amore della democrazia e dei suoi valori, il lavoro l’avevano perso, perché combattuti ed emarginati dal fascismo. Il primo strumento che ogni potere anti-democratico ha per togliere la dignità e la libertà è cancellare il lavoro. Furono tanti, troppi, gli italiani e gli europei che dovettero chiudere fabbriche, tipografie, uffici, cattedre, per non piegarsi alle richieste anti-democratiche e illiberali del regime. Molti di quegli uomini furono poi tra i padri costituenti, e in quella originale e felice formulazione del primo articolo, cercarono di raccontare anche queste storie di amore civile. E nel far questo hanno creato la più bella equazione della nostra storia repubblicana, quella che pone l’eguaglianza tra democrazia e lavoro: la Repubblica è democratica perché fondata sul lavoro, altrimenti la Repubblica si fonda su rendite e privilegi, e quindi non è democratica. Non è facile, oggi, leggere seriamente quell’articolo, e al contempo restare passivi in una Italia e in una Europa che, da una parte, lasciano troppi milioni di persone fuori dalla "città del lavoro", e dall’altra fanno troppo poco di fronte a nuove forme di schiavitù e servitù. Quell’articolo quindi, ci può offrire una chiave di lettura potente per comprendere meglio che cosa sta effettivamente accadendo.Ci dovrebbe far capire che la lotta alla disoccupazione deve avere lo stesso posto che occupa il lavoro nella nostra Costituzione: il primo. Non si può barattare il lavoro con i profitti né, tantomeno, con le rendite, perché quando il lavoro della persona umana è negato è in profonda crisi prima di tutto la democrazia. C’è poi un secondo messaggio molto attuale che ci arriva dall’articolo 1 e dalle sue semantiche (oggi, forse, troppo lontane): lavorare non è l’esperienza del servo e dello schiavo. Una tesi che ci chiama a una profonda riflessione quando constatiamo che il capitalismo senza regole e senza misura sta creando nuove forme di schiavitù e di servitù nei livelli più alti e più bassi del mondo del lavoro.Delle dilaganti e anche inedite forme di schiavitù-servitù di operai e precari nel mondo si parla abbastanza; si parla invece troppo poco delle nuove forme di schiavitù di coloro che vengono considerati privilegiati: dirigenti e impiegati di medio e alto livello nelle grandi imprese multinazionali, che vengono pagati assai bene nei "nuovi mercati", ma che di fatto rinunciano più o meno consapevolmente, a crescenti fette di libertà, di tempo, di festa, di famiglia... La rossa spia del lavoro continua allora a lampeggiare: prendiamola tutti più sul serio, fermiamoci, per poi ripartire nella giusta direzione.
Articolo pubblicato su Avvenire, 4 novembre 2012.