Libertà e Verità

Papa Giovanni Paolo II

Nell’agosto del 1993 Giovanni Paolo II pubblica un’enciclica dal titolo “Lo splendore della verità”, con lo scopo di illustrare i fondamenti biblici, filosofici e teologici della morale cristiana. Il documento espone il significato antropologico della libertà e della coscienza, spiegandone i rapporti con la verità. In questo brano vengono poste in luce due concezioni erronee della libertà, presenti nell’epoca moderna e contemporanea. La prima attribuisce alla libertà un valore assoluto e supremo, ponendola come criterio di verità del proprio comportamento. La seconda invece la nega del tutto, basandosi su una visione riduzionista e materialista della persona umana, ritenuta soggetto solo di pulsioni e di condizionamenti biologici e sociali, ma non di agire libero e responsabile. La libertà implica giustamente autonomia, ma esistono due tipi di autonomia: quella legittima delle attività terrene e quella, invece, di chi ritiene l’attività umana auto-fondata, e dunque priva di responsabilità di fronte a un Creatore. In realtà, ricorda l’enciclica Veritatis splendor, citando la costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, “la creatura senza il Creatore svanisce [...] Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa” (n. 36).

31. I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell'uomo.

Non c'è dubbio che il nostro tempo ha acquisito una percezione particolarmente viva della libertà. «In questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona umana», come costatava già la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa.[1] Da qui l'esigenza che «gli uomini nell'agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere». [2] In particolare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto della coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme. [3]

Così, il senso più acuto della dignità della persona umana e della sua unicità, come anche del rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce certamente un'acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno adeguate, di cui alcune però si discostano dalla verità sull'uomo come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere corrette o purificate alla luce della fede. [4]

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M. I. Rupnik, mosaico della Pentecoste nella Chiesa di San Gorazd a Nitra

32. In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti ad esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di «accordo con se stessi», tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.

Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea stessa di natura umana.

Queste differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.

33. Parallelamente all'esaltazione della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di «scienze umane», hanno giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza, come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà stessa della libertà umana.

Si devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale.

34. «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». La domanda morale, alla quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca al suo centro, perché non si dà morale senza libertà: «L'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà». [5] Ma quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri contemporanei che «tanto tengono» alla libertà e che la «cercano ardentemente» ma che «spesso la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male», presenta la «vera» libertà: «La vera libertà è nell'uomo segno altissimo dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio" (cf Sir 15,14), così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione». [6] Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. [7] In tal senso il Card. J. H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri». [8]

Alcune tendenze della teologia morale odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste ora ricordate, interpretano in modo nuovo il rapporto della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità.

Se vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). 

[…]

38. Dio volle lasciare l'uomo «in mano al suo consiglio» (Sir 15,14). Riprendendo le parole del Siracide, il Concilio Vaticano II così spiega la «vera libertà» che nell'uomo è «segno altissimo dell'immagine divina»: «Dio volle lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio", così che egli cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con l'adesione a Lui, alla piena e beata perfezione». [9] Queste parole indicano la meravigliosa profondità della partecipazione alla signoria divina, cui l'uomo è stato chiamato: indicano che il dominio dell'uomo si estende, in un certo senso, sull'uomo stesso. È questo un aspetto costantemente accentuato nella riflessione teologica sulla libertà umana, interpretata nei termini di una forma di regalità. Scrive, ad esempio, san Gregorio Nisseno: «L'animo manifesta la sua regalità ed eccellenza... nel suo essere senza padrone e libero, governandosi autocraticamente con il suo volere. Di chi altro questo è proprio, se non del re?... Così la natura umana, creata per essere padrona delle altre creature, per la somiglianza con il sovrano dell'universo fu stabilita come una viva immagine, partecipe della dignità e del nome dell'Archetipo». [10]

Già il governare il mondo costituisce per l'uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna la sua libertà in obbedienza al Creatore: «Riempite la terra; soggiogatela» (Gn 1,28). Sotto questo aspetto al singolo uomo, come pure alla comunità umana, spetta una giusta autonomia, alla quale la Costituzione conciliare Gaudium et spes dedica una speciale attenzione. È l'autonomia delle realtà terrene, che significa che «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare». [11]

39. Non solo il mondo però, ma anche l'uomo stesso è stato affidato alla sua propria cura e responsabilità. Dio l'ha lasciato «in mano al suo consiglio» (Sir 15,14), perché cercasse il suo Creatore e giungesse liberamente alla perfezione. Giungere significa edificare personalmente in sé tale perfezione. Infatti, come governando il mondo l'uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così compiendo atti moralmente buoni l'uomo conferma, sviluppa e consolida in se stesso la somiglianza di Dio.

Il Concilio, tuttavia, chiede vigilanza di fronte a un falso concetto dell'autonomia delle realtà terrene, quello di ritenere che «le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore». [12] Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto di autonomia produce effetti particolarmente dannosi, assumendo in ultima istanza un carattere ateo: «La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa». [13]

 

[1] Concilio Vaticano II, Dignitatis humanae, n. 1.
[2] Ibidem.
[3] Cf. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis (4 marzo 1979), n. 17:  Discorso ai partecipanti al V Colloquio Internazionale di Studi Giuridici (10 marzo 1984), n. 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruz. su libertà cristiana e liberazione Libertatis conscientia (22 marzo 1986), n. 19.

[4] Cf Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 11.
[5] Ibidem, n. 17.
[6] Ibidem.
[7] Cf Dignitatis humanae, n. 2.

[8] J.H. Newman, A Letter Addressed to His Grace the Duke of Norfolk: Certain Difficulties Felt by Anglicans in Catholic Teaching (Uniform Edition: Longman, Green and Company, London 1868-1881), vol. 2, p. 250.
[9] Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 17.
[10] Gregorio di Nissa, De hominis opificio, c. 4: PG 44, 135-136.
[11] Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 36.
[12] Ibidem
[13] Ibidem

Per consultare la versione integrale del Documento:

https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_06081993_veritatis-splendor.html

L'opera riprodotta nella fotografia è stata realizzata dall’Atelier d’Arte e Architettura del Centro Aletti (www.centroaletti.com)