Mosè: la storia di un uomo che libera il suo popolo

Siamo in Egitto, tredici secoli prima della nascita di Gesù. Mosè è un ragazzo adottato che vive alla corte dei faraoni. Il suo nome Moshé già racconta qualcosa della sua storia: nato da una donna ebrea della tribù di Levi, fu “salvato dalle acque” dalla figlia del faraone che lo recuperò da un giuncheto nel Nilo. All’epoca, gli ebrei erano schiavi degli Egizi, i quali li obbligavano a ritmi di lavoro disumani. Per timore che la loro popolazione crescesse, il Faraone emanò un provvedimento di controllo delle nascite secondo cui tutti i figli maschi degli ebrei dovevano essere uccisi non appena nati. Per questo motivo la madre decise di lasciarlo alla misericordia Dio, e abbandonarlo nel fiume su una cesta resa impermeabile: se Dio lo avesse voluto in vita, lo avrebbe salvato.

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Van Rijn Rembrandt, Mosè con le tavole della legge (1659)

San Gregorio di Nissa commenta questo evento dicendo che fu la libertà a fare da levatrice a Mosé (cfr. Vita di Mosé, II, 3-5). La sua salvezza gli viene dall’acqua, per merito di una donna che lo ha salvato e che diventa sua madre. Ma in questo evento miracoloso ritroviamo l’intera condizione umana: la specificità dell’uomo è quella di essere creato libero, affidato a se stesso, e tutto ciò che egli sarà è frutto in buona misura della sua decisione. È anche in questa sua capacità di autodeterminazione che egli è immagine di Dio, quasi padre e figlio di se stesso. Questa libertà, con cui anche tu e io veniamo al mondo, non è solo un concetto teorico, ma si inserisce in una storia e nella storia di tutti: siamo liberi, nel tempo, di diventare noi stessi e di essere coinvolti da Dio nella costruzione del nostro destino.

Questo episodio singolare della vita di Mosè è praticamente un presagio della missione per cui Dio lo ha pensato e creato: liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù. Quasi a dire: il destino di ogni liberatore passa da un’esperienza di liberazione. Ed è solo nella libertà che costruisci quegli aspetti di te stesso che ti permettono di essere pienamente libero nel corpo e nello spirito. Afferma san Gregorio di Nissa nella Vita di Mosè: «È compito esclusivo della libertà generare quella forte creatura che è la virtù, nutrirla con alimenti adatti e provvedere che venga salvata dalle acque senza che abbia a subire danni».

Nella vita di Mosè vediamo che la libertà è il destino che Dio vuole per tutti gli uomini. Questa cosa la capiamo se ricordiamo una profezia che molti anni dopo fece Mosè e che lega la sua vita alla venuta di un grande profeta dalla tribù di Levi (Deuteronomio 18,15-22). La tradizione intravede nella stessa vita di Mosè molti segni che indicano la figura di Gesù di Nazaret: Mosè viene salvato dall’acqua, il battesimo nell’acqua è segno di salvezza del cristiano; Mosè viene tratto dall’acqua da una donna e diventa suo figlio perché donatole da Dio, Gesù nasce da una donna per opera di Dio; Mosè diventerà liberatore del suo popolo dalla schiavitù d’Egitto facendo attraversare le acque nella Pasqua portando il popolo verso la terra promessa, Gesù libererà ogni uomo dal peccato attraversando passione, morte in croce e risurrezione, donando una vita nuova e riportando il mondo al Padre. Insomma, potremmo continuare a lungo, ma già da questi pochi tratti intuiamo perché per i cristiani, fin dall’antichità, sia tanto importante saper leggere il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, e l’Antico Testamento alla luce del Nuovo: «Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, mentre l’Antico è svelato nel Nuovo», diceva Agostino (Quaestiones in Heptateucum 2,73).

Ma torniamo a Mosè. Non si diventa un “liberatore” dalla mattina alla sera. E neppure basta auto-qualificarsi tale. Occorre poter crescere nella libertà: chi meglio di uno schiavo può capirlo? Nella vita di Mosè, il tema della libertà coinvolge la sua intera esistenza, orientata totalmente al serviziodel popolo che, su comandamento di Dio, è chiamato a liberare. È avendo questi sentimenti nell’anima che Mosè giunge davanti alla spettacolare manifestazione di Dio – teofania, come la definiscono i biblisti – sul monte Oreb. In occasione di una sua catechesi del mercoledì, Papa Francesco offre un bel ritratto di Mosè in questo periodo della sua vita:

«Quando Dio lo chiama, Mosè è umanamente “un fallito”. Il libro dell’Esodo ce lo raffigura nella terra di Madian come un fuggiasco. Da giovane aveva provato pietà per la sua gente, e si era anche schierato in difesa degli oppressi. Ma presto scopre che, nonostante i buoni propositi, dalle sue mani non sgorga giustizia, semmai violenza. Ecco frantumarsi i sogni di gloria: Mosè non è più un funzionario promettente, destinato ad una rapida carriera, ma uno che si è giocato le opportunità, e ora pascola un gregge che non è nemmeno suo. Ed è proprio nel silenzio del deserto di Madian che Dio convoca Mosè alla rivelazione del roveto ardente: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Esodo 3,6) (Francesco, Udienza Generale, 17 agosto 2020).

Un roveto che arde gli parla con la voce di Dio: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. … il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» (Esodo 3,7-10). Mosè è pronto ad abbracciare la sua missione, ma non lo sa. Anzi, crede di non essere capace, ma Dio lo rassicura: io sarò con te (Esodo 3,11-12). Mosè dubiterà varie volte ancora, nonostante Dio gli mostri ogni volta la sua assistenza: egli deve imparare a fidarsi di Dio e delle persone che gli vengono messe a fianco.

Dopo le proverbiali piaghe d’Egitto, il faraone sarà costretto a lasciar partire il popolo d’Israele, salvo poi pentirsi e dirigersi al suo inseguimento. Mosè apre la strada al popolo, partito di tutta fretta la sera precedente dopo aver consumato un menu dettato dallo stesso Dio e chiedendogli di ricordare e ripetere per sempre ogni anno quello che avrebbero fatto in quella notte (Esodo 12): Pesach, la Pasqua ebraica. Con l’esercito egiziano alle calcagna, Mosè si trova davanti al Mar Rosso: con l’assistenza del Signore Dio, stende le mani sulle acque aprendo uno spettacolare “passaggio” attraverso cui il popolo d’Israele giunge in salvo all’altra riva. Dio rallenta i carri degli egiziani e dopo che Mosè ha steso di nuovo le mani, il mare si richiude travolgendo l’esercito del faraone con i carri e i cavalli. Un evento memorabile che verrà ricordato ogni anno tra il venerdì e lo shabbat, il sabato, tra il giorno 14 e il 15 del mese di Nisan. Il venerdì pomeriggio vengono sacrificati gli agnelli per tutto il popolo, dalla notte del sabato alla domenica mattina tutto il mondo si ferma: è la Pasqua del Signore! (Esodo 12,10). Tredici secoli dopo, il 14 del mese di Nisan, Gesù di Nazaret morirà in quelle stesse ore, sacrificato sulla croce come un agnello il venerdì, compiendo la redenzione nel tempo dello shabbat, e donando la vita all’umanità nell’annuncio della Risurrezione di domenica.

Dopo la traversata del Mar Rosso, Mosè accompagnerà il suo popolo per quarant’anni nel deserto. Per guidare il suo popolo verso la libertà,dovrà letteralmente passare di tutto: l’ostilità del faraone, un’infinità di nemici da combattere, l’incomprensione e l’ingratitudine del suo popolo verso di lui e verso il Dio che lo ha liberato. Solo se vale la pena vivere per questa libertà, vale anche la pena affrontare l’ingratitudine e l’incomprensione delle persone che vuoi liberare. La libertà ti viene donata, ma sei tu che devi afferrarla. Le avversità possono essere superate se sei convinto fino in fondo di dover lottare per la libertà, ma anche, e soprattutto, se hai la certezza che senza quella libertà che ti è stata promessa non vale la pena vivere. Né tu, né tutti gli altri. Perché questa libertà è parte di un disegno più grande, di cui l’umanità è parte.

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Marc Chagall, Mosè davanti al roveto ardente (1966)

Nel deserto, Mosè impara infatti una cosa importantissima. Impara a pregare per il suo popolo che combatte per la libertà. Durate una preghiera estenuante, a favore di tutti, impara che le sue mani, protese verso il cielo, si stancano. Hanno bisogno di essere sostenute da altri (Esodo 17,11-12). Impara a parlare con Dio “faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (Esodo 33,11). Nel deserto, il popolo impara a gestire la propria libertà, creando le prime istituzioni ma attraversando anche numerosi periodi di crisi, fra cui quello drammatico della caduta nell’idolatria. Finché Dio preparerà per loro le tavole della legge (cioè, i dieci comandamenti), che saranno accolte dal popolo dopo una debita preparazione. In questo lunghissimo viaggio, grazie all’assistenza di Dio, Mosè matura come uomo, come profeta, come padre del popolo che egli ha liberato.

Il viaggio nel deserto prosegue per quarant’anni, finché il popolo giunge nella terra di Canaan, dove poi si sarebbe stabilito.Mosè, ormai anziano, sale su un monte da cui il Signore gli mostrerà la terra promessa: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: “Io la darò alla tua discendenza”. Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!» (Deuteronomio 34,4).

Mosè morirà in quel luogo, dopo aver nominato come successore Giosuè. Il viaggio verso la libertà, si conclude con la consegna di questa al suo beneficiario, il popolo, forse perché la libertà non è tale se la possiedi solo per te o per la gente che ti sta simpatica. La libertà non è solo un possesso personale: chi davvero è libero ha il coraggio di dare la sua vita per il bene degli altri.