Il rapporto tra uomo e natura

Salvatore Nicolosi
2002

L'uomo e la natura. Gettato o progettato a vivere nella e con la natura?

Il rapporto con la «natura», come «ambiente» del nostro vivere nel mondo, è uno di quei «legami» esistenziali, da cui ciascun uomo si trova vincolato prima ancora di averne coscienza, e in cui è «costretto» a rimanere, giacché offrono la «materia» di tutte le serie della sua esperienza del mondo.

Vivere nel mondo, con il mondo e per il mondo, è una «necessità», che precede temporalmente l'esercizio della nostra libertà; è una di quelle situazioni in cui ci troviamo «gettati» senza saperlo e senza volerlo. Esse sono, insieme, la condizione ed il limite del nostro essere liberi.
In questo rapporto di ferreo condizionamento reciproco tra libertà e necessità si svolge tutta la vita dell'uomo. Il nostro essere «razionali», e perciò «liberi», è inscindibilmente collegato alla nostra condizione di «terrenità», in una complessità di rapporti temporali e spaziali, che costituiscono il terreno dell'esercizio della nostra libertà e segnano i confini della nostra finitudine.
Se è vero che, come affermava Sartre, «siamo condannati ad esser liberi», questa condanna, non umiliante ma gloriosa ed esaltante, ha una delle sue forme più interessanti, lungo tutto il corso delle vicende storiche, proprio nel rapporto con il mondo in cui nasciamo, in cui viviamo ed in cui moriamo, ma in cui anche, per il nostro essere liberi, siamo «sovrani».
Di questa interconnessione tra libertà e necessità, tra agire e patire dell'uomo, una delle testimonianze più suggestive si trova nella pagina con cui ha inizio l'opera di Blondel su L'Action.
«Sì o no, la vita umana ha un senso, e l'uomo una destinazione? Agisco, ma senza neppur sapere che cosa è l'azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere esattamente né chi sono e neppure se sono ... Sarei dunque condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all'eternità! Come e con quale diritto, se non l'ho né saputo né voluto ?» [1].
Prima ancora, quindi, di essere condannati alla libertà, siamo «condannati alla vita», e «dobbiamo», lo vogliamo o no, vivere «in questo mondo» che non abbiamo scelto noi.
Non abbiamo deciso da noi «se» vivere, «dove» vivere, «come» vivere. Ma, una volta «gettati» nel mondo della vita, non possiamo rinunziare a vivere, non possiamo rinunziare ad essere liberi, in questo mondo e per questo mondo.

  

La storia dell'uomo come narrazione del suo rapporto con il mondo

Di questo mondo, che è per l'uomo sia uno «spettacolo» da ammirare e da capire – secondo la profonda «esegesi» aristotelica dell'origine della conoscenza umana – sia «spazio teatrale» nel quale presentarci per interpretare il nostro ruolo di attori – secondo la suggestiva intuizione di Calderón de la Barca – l'uomo si è interrogato sin dall'inizio del suo trovarsi «dentro» di esso, cercando di capire le leggi che ne regolano i meccanismi, per riuscire, in definitiva, a capire se stesso, come parte del mondo e come artefice principale delle trasformazioni che si operano in esso.
Le tappe della civiltà dell'uomo sono appunto le tappe del suo rapporto «attivo e trasformante» con il mondo, e, soprattutto, del suo rapporto con gli altri uomini, anch'essi destinati ad essere partecipi delle vicende del mondo.
La storia dell'uomo è, in gran parte, storia del suo rapporto con "il mondo", cioè con l'ambiente in cui si svolge la sua vita e la sua ricerca del progresso.
Il succedersi delle diverse tappe di questo rapporto e di questa conquista progressiva costituisce uno dei capitoli più suggestivi della storia umana, in particolare della stona della scienza e della tecnica, intese come strumenti per l'edificazione del "regno dell'uomo", secondo la suggestiva formula «inventata» da Francesco Bacone.
La storia dell'appropriazione dell'ambiente da parte dell'uomo comprende, come è ovvio, diversi capitoli, collegati tra loro e il modo sincronico e in modo diacronico.
Uno di questi capitoli è costituito dalla «lettura» che l'uomo ha fatto delle vicende della sua storia, «ripensandole» alla luce delle sue concezioni religiose.
La «lettura religiosa» del rapporto uomo-mondo non esclude, ovviamente, altri tipi e altre forme di lettura, anzi si pone in rapporto di complementarietà con le altre «letture» in particolare con quella «tecnico-scientifica», con quella «economica», con quella «politica», con quella «filosofica». I vari tipi di lettura si integrano a vicenda, offrendo ciascuno un contributo indispensabile al tentativo di decifrare la complessità, sincronica e diacronica, delle vicende della storia e dei molteplici rapporti degli uomini fra di loro e col mondo circostante. La ragione umana non possiede l’intuizione creatrice dell’intelletto divino, e perciò il suo conoscere è, inevitabilmente, parziale e «parcellizzato».

   

Le più antiche narrazioni della presenza dell'uomo nel mondo

 Del vasto capitolo della lettura religiosa sul rapporto dell'uomo con l'ambiente ci limiteremo, in questa sede, a considerare solo qualche «paragrafo», scegliendo alcuni testi, che riteniamo «esemplari», nella vasta letteratura religiosa della nostra cultura occidentale.
Tralasciando le testimonianze, anche se di estremo mteresse, dei millenni della «preistoria», prenderemo come punto di partenza le prime testimonianze della letteratura ellenica e di quella ebraico-cristiana.
Le prime testimonianze di ampio respiro del pensiero greco sull'origine e sulla struttura del cosmo si trovano negli scritti omerici e post-omerici – Iliade, Odissea, Inni omerici – e, ancor più, negli scritti di Esiodo – Le Opere e i Giorni, e, soprattutto, la Teogonia.
Quanto alla letteratura religiosa della tradizione ebraico-cristiana, ci limiteremo ad una lettura dei capitoli iniziali della Genesi.
Due visioni diverse del mondo e della storia si confrontano negli scritti della fase aurorale della cultura greca e della cultura ebraica.
Anche se si volessero ricondurre i due gruppi di opere, con una lettura «comtiana», alla fase teologica, cioè fantastica e mitologica, le due Weltanschauungen, di cui la Teogonia e la Genesi sono le espressioni più grandiose, appaiono come profondamente diverse l'una dall'altra.
Nella cosmogonia ellenica, esposta nell'opera esiodea, l'universo nella sua totalità trae origine dalla materia eterna, dalla quale, come da realtà primordiale, hanno origine anche gli dèi. Se il paganesimo è la concezione religiosa che non riesce a liberarsi dalla presenza onnipotente della materia, allora l'opera esiodea può considerarsi come il capolavoro del paganesimo greco.
Nella tradizione ebraico-cristiana, invece, la visione del mondo viene «rivoluzionata» rispetto a quella del «paganesimo» classico.
Nelle pagine bibliche non è la Terra a produrre, anzi a generare, gli Dei e gli uomini, ma è Dio, che è Spirito, a «produrre» il cielo e la terra, con una sua parola onnipotente.
La Genesi mosaica è il capolavoro della cosmogonia, intesa come opera esclusiva di uno Spirito eterno ed onnipotente.

 

Due tipi di teogonie e cosmogonie: o eternità della materia o eternità dello spirito

 Le due dottrine, che racchiudono le opposte teogonie e cosmogonie, rimandano, rispettivamente, alla dottrina dell'eternità della materia e a quella dell'eternità dello Spirito.
Tra questi due poli oscillano tutte le dottrine teogoniche e cosmogoniche della storia delle religioni e della stessa storia della filosofia. La dottrina dell'eternità della materia – ­­e, di conseguenza, della sua «primordialità» e dell'autonomia della sua attività ­­– riaffiora in tutte le varianti del materialismo, fino a quella, ancora rozza e volgare, del rigido meccanismo settecentesco, e, poi, a quella «dialettica e storica» di Marx, con i suoi discepoli i suoi interpreti.
Il materialismo si ripresenterà lungo i secoli come rinascente «tentazione» di fronte ad ogni forma di spiritualismo religioso; e, viceversa, la dottrina della temporalità e della eteronomia dell'universo materiale costituirà l'istanza critica, mai abbastanza esorcizzata, e l’obiezione mai pienamente risolta di ogni forma di materialismo che voglia essere coerente e totalizzante.
In questa sede prescindiamo da ogni tentativo di determinare la priorità cronologica delle due diverse tradizioni cosmogoniche, e, ancor più, di porre il problema di un eventuale rapporto tra le due culture di cui esse sono espressione.
Ci interessa, invece, mettere in evidenza come, sin dalle origini della nostra cultura, si presentano due Weltanschauungen che presuppongono due diverse Lebensanschauungen. Tutto ciò porta ad ammettere che ci si trova di fronte a due diversi centri di prospettiva, nei quali l'homo sapiens, lungo i secoli, di volta in volta si è collocato, allorché si è chiesto il «che», il «come», e il «che cosa» degli oggetti che si presentavano alla sua esperienza.
La visione di ciò che è immediatamente esperibile rinvia ad un «inizio» o a un «principio» –arché – che sfugge alla nostra esperienza diretta, o perché ormai è lontano nel tempo, o perché è diverso nella struttura essenziale rispetto a ciò che è percepibile «qui ed ora». Non è solo la concezione «spiritualista» a porre l'esigenza di una realtà non sperimentabile, a fondamento dell'oggetto sperimentato; anche un materialismo rigoroso ed esclusivo si vede sfuggire la possibilità del controllo sperimentale, allorché si interroga sul «principio» – sia come «inizio» che come «sostanza» – di ciò che si offre immediatamente alla nostra percezione.

 

Teogonia e cosmogonia nella cultura greca: la materia come realtà primordiale

La «letteratura delle origini» ci ha trasmesso due cosmogonie, o, se vogliamo, due «correnti cosmogoniche», che potremmo definire l'una «pagana» e l'altra «ebreo-cristiana». Potremmo usare una terminologia un po' diversa, ma, ovviamente, con più larga approssimazione, definendo l'una materialista e l'altra spiritualista. Entrambe propongono una concezione sostanzialmente unitaria dell'universo, anche se lo sviluppo storico del paganesimo, con la sua forte accentuazione politeistica, può sembrare, a prima vista, inconciliabile col carattere unitario da noi attribuito al suo sistema cosmogonico.
La differenza essenziale fra le due visioni del mondo sta nella «posizione» che assume la materia nell'ambito dell'armonia dell'universo: nella concezione «pagana» la materia è la realtà primordiale, da cui tutti gli esseri, non esclusi gli Dèi, hanno origine; nella concezione ebraico-cristiana la materia è «prodotta» – prescindiamo qui dalla problematica sulla creazione ex nihilo – dalla volontà e dalla parola onnipotente di un Essere spirituale, da cui il cielo e la terra traggono origine.
Il testo esiodeo afferma in modo inequivocabile che tutti gli Dèi sono stati generati da Gea, la Terra.

«Ed esse (scil. le Muse) spargendo
l’ambrosia voce, prima l’origine cantano dei Numi,
cui generò da prima la Terra col Cielo profondo;
così nacquer gli Dei, che largiscono agli uomini i beni»
[2].

Gli esseri primigeni, nel racconto esiodeo, sono quattro: Caos, Terra, Tartaro, Amore.

 «E nacque…il Caos primissimo; e dopo, la Terra
dall’ampio seno, sede perenne, sicura di tutti
gli Dei, ch’hanno in possesso le cime nevose d’Olimpo,
e, della terra dall’ampie contrade nei baratri, il buio
Tartaro; e Amore, ch’è fra tutti i Celesti il più bello»
[3].

La genealogia dei molti Dei dell’Olimpo esiodeo è lunga e complicata. Ci limiteremo solo ad un rapido accenno sintetico, per mettere in luce il carattere «materialistico», o, se vogliamo, «terrestre», che dà un’impronta inconfondibile alla concezione esiodea dell'origine di tutte le cose.
Urano – si legge nella Teogonia – genera diversi figli da Gea – la Terra – ma, per timore di venire spodestato da essi, li imprigiona nelle profondità degli abissi, per renderli inoffensivi. La madre Gea-Terra, però, incita i figli alla riscossa; uno di essi, Crono, sconfigge e mutila il padre, ne assume il potere, e prende in sposa la sorella Rea.
Crono, però, adotta verso i propri figli lo stesso metodo tirannico di suo padre Urano: a mano a mano che nascono, li divora, inghiottendoli e conservandoli, perché immortali, nel capace ventre. Uno di essi, però, con l’aiuto della madre, sfugge alla ferocia del padre, e una volta cresciuto, lo affronta, lo sconfigge, lo costringe a rivomitare i figli, e libera dai ceppi in cui erano stati incatenati anche i figli di Urano.
Tutti gli Dei, allora, per gratitudine verso il loro liberatore, lo acclamano unico Signore. Da quel momento, si instaura un nuovo, e spesso difficile, rapporti di Zeus con gli Dèi da lui liberati, nonché con loro discendenti: comincia così la storia dei Titani, degli Eroi, degli uomini.
Dal racconto, che prosegue nelle pagine esiodee, non è facile ricavare una narrazione coerente, «storicamente» plausibile, delle vicende avvolte tra le nebbie suggestive del mito.
Da parte nostra, non intendiamo addentrarci nel tentativo di chiarire sia pure qualcuno degli aspetti più interessanti della cultura ellenica nel periodo in cui, secondo la formula efficace ma piena di insidie ermeneutiche, avviene nel mondo greco il passaggio dal mythos al logos.
Vorremmo soltanto mettere in evidenza un elemento, che ci sembra essenziale e discriminante, dei racconti, esiodei e postesiodei, in cui affondano le radici della antica religiosità pagana, e che, in linguaggio molto diverso, ma dentro una visione del mondo non molto diversa, riappare ad ogni Renaissance, in tante diverse forme, della concezione materialistica.

   

La materia elemento divino: realtà primordiale eterna e indistruttibile

Le forme che, nel loro «nascere», assumono tutti gli esseri che vengono all'esistenza, dalla notte dei tempi fino al presente, secondo questi racconti, procedono lungo una via «all'in sù»: dalla materia primordiale nascono gli Dèi, i Titani, gli uomini. In linguaggio moderno, diremmo, in modo approssimativo, che dalla realtà «materiale» traggono origine gli esseri «razionali», e che, in definitiva, la materia precede lo spirito. La natura, in questa cosmogonia, è di per sé «divina», anzi è addirittura la Madre degli Dèi. Dalla sua massa, immensa ed informe, traggono esistenza e vita il Chaos, il Tartaro, la Terra, l'Amore: da queste quattro divinità, a loro volta, procedono dapprima tutti gli altri Dèi, nella cui corte domina Zeus, e poi i Titani, gli Eroi, gli uomini.
Questo processo di generazioni successive, all'interno di una realtà origina.ria che è di per sé divina, sta alla base della visione «pagana» – absit iniuria verbo – del mondo. Tutto è sacro, perché tutto ha origine, immediata o mediata, dalla Madre Terra.
Pure quando il pensiero greco inizierà la grande «avventura» del passaggio dal mythos al logos, il carattetere sacro dell'universo sarà ribadito anche da uno dei padri del razionalismo ellenico, Talete, il quale scriverà che il mondo è «pieno di Dèi».
Sorvoliamo sulle diverse interpretazioni che di questa frase, e di altre ad essa analoghe, sono state tentate. Ci interessa mettere in evidenza l'atmosfera religiosa nella quale sono «collocati» i racconti teogonici e cosmogonici.
Questi racconti sono frutto di quella «meraviglia» che, secondo Aristotele, si prova di fronte alle cose che ci «si presentano» [4].
L'uomo, dinanzi ad un mondo che «trova» e «scopre», riconoscendolo come «indipendente» ed «indistruttibile», prova un sentimento di ammirazione incantata, ma anche di sgomento di fronte alla grandezza sconfinata e misteriosa dell'ambiente in cui si ritrova «condannato a vivere».
L'universo, con le sue leggi e i suoi meccanismi a lui ancora ignoti, gli appare come la manifestazione del Chaos originario, dentro il quale si agita un principio di ordine. Il carattere di indistruttibilità del mondo porta l'uomo a pensarlo come eterno, senza un inizio e senza una fine nel tempo. Dal Chaos tenebroso e dalla Terra luminosa tutto e tutti hanno avuto origine e portano impresso il segno della loro discendenza divina. Questa visione poetica della natura, con le sue contraddizioni, in cui convivono contrasti violenti di lotte feroci e scene idilliache di favole incantate, «rinasce» nella nostra cultura ogni volta che esplode la reazione verso un mondo meccanizzato, il quale avrebbe perduto il suo carattere di sacralità e, con esso il suo carattere di umanità.

 

Il primo sacrilegio e l'inizio del progresso: Prometeo ruba il fuoco agli dei

La nostalgia di molti poeti – basterà citare il Leopardi - per le favole antiche esprime il bisogno di recuperare la meraviglia poetica della fase aurorale della nostra cultura.
Ma il carattere misterioso dell'indefinito aggregarsi delle varie forme degli esseri, spinge l'uomo alla ricerca della leggi che governano l’ordine del mondo. E questa ricerca, secondo i racconti mitologici, porterà al primo sacrilegio: il furto del fuoco, cioè la violazione della forza misteriosa rimasta in geloso possesso degli Dèi, della quale gli uomini vogliono entrare in possesso, per essere anche loro dei dominatori del mondo.
Con il furto di Prometeo, uno dei Titani che porta agli uomini l'energia segreta del fuoco, comincia il cammino della scienza, intesa come tentativo di svelare il segreto delle forze che agiscono nel mondo, e come volontà di partecipare alla potenza degli Dèi nel governo del cosmo. Il mito di Prometeo ci sembra paradigmatico per comprendere la «frattura» che si verifica dentro la cultura sacrale del mondo della mitologia.
Le forze che causano i fenomeni del mondo visibile sono, nella mentalità primitiva, misteriose, perché gli Dèi le tengono «nascoste» agli uomini. Tra queste forze il fuoco occupa un posto privilegiato, giacché il fuoco è principio di movimento, di energia e di vita. Nel fuoco sono racchiusi i «misteri» del nostro operare sulle cose del mondo. Possedere il fuoco e farne uno strumento di trasformazione «programmata» del cosmo significa partecipare alla potenza degli Dèi, ed appropriarsi, almeno in parte, del proprio destino.
Il possesso del fuoco trasforma l'uomo da «parte» della natura e da «schiavo» del meccanismo delle sue leggi, a «signore», sia pur «dimezzato», degli eventi naturali. La conoscenza dei meccanismi segreti della natura e l'uso delle forze occulte di essa fanno dell'uomo un «concorrente» degli Dèi, un concorrente la cui presenza disturbatrice non era né prevista né gradita dagli Dèi, sempre in lotta fra di loro per la conquista del potere sul mondo.
Il tema della gelosia degli Dèi verso gli uomini sarà sempre uno dei temi ricorrenti nella cultura ellenica, e troverà poi una geniale applicazione nella rivoluzionaria «filosofia della storia» di Erodoto.
I temi del carattere sacro della natura e della «concorrenza», sacrilega o non, degli uomini per il dominio del mondo segneranno le tappe della cultura ellenica, e troveranno la loro espressione più grandiosa nei miti, presenti con la loro misteriosa suggestione, anche nei dialoghi metafisici di Platone.

   

La cosmogonia biblica: la Parola di Dio crea il caos originario

Diametralmente opposta alla cosmogonia del paganesimo ellenico è la cosmogonia della tradizione ebraico-cristiana. Il testo bIblico non contiene, ovviamente, una «teogonia», giacché Dio non ha inizio ma è eterno, non è materiale bensì puro spirito, non ha origine da nessun altro essere, giacché è Lui il principio unico di tutte le cose.
Il libro della Genesi, il primo della Bibbia, si apre con l'annunzio della venuta all'esistenza di tutto l'universo, chiamato dal nulla all'essere dalla Parola onnipotente di Dio eterno.
«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen, 1, 1-2).
Questi due versetti hanno molte analogie con la cosmogonia esiodea, ma l'anima delle parole bibliche è in evidente antitesi con il testo classico della mitologia ellenica.
Trascurando le molte e complesse questioni teologiche e filosofiche sulla esegesi dei primi versetti della Genesi – non ultima quella sulla traduzione in termini attuali del verbo bereshit del testo ebraico – ci limitiamo a mettere in evidenza un elemento essenziale di discriminazione. Il Caos che nel testo esiodeo è la «matrice» prima degli Dè e del mondo, nel testo mosaico è il «prodotto» del primo gesto ad extra dell' onnipotenza di Dio, il quale chiama le cose all' esistenza.

   

I sei giorni della creazione: l'uomo capolavoro di Dio

Il testo mosaico continua poi con la descrizione dell'origine della luce e della separazione della luce dalle tenebre, con la descrizione dell'origine del firmamento e della separazione del cielo dalla terra, ancora ricoperta dalle acque.
Il racconto dell' opera di Dio nei diversi giorni della creazione prosegue nei possenti versetti della Genesi, e si conclude con la «creazione» dell'uomo.

«Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò » (Gen, 1, 27).

Non seguiremo pedissequamente le diverse fasi, secondo i diversi «giorni», della creazione del mondo.
È importante, tuttavia, osservare che tutte le cose, nel loro esistere e nella loro mirabile diversità da cui è costituito l'ordine del cosmo, sono opera di Dio.
Dio è spirito; la materia, come totalità degli esseri finiti, non è l'essere originario, bensì il prodotto della parola creatrice di Dio.
Tutte le cose, prodotte nei sei giorni della creazione, formano un ordine meraviglioso, di cui Dio stesso si compiace, giacché, come si legge nel testo mosaico, alla sera del quarto, del quinto e del sesto giorno la narrazione si conclude con le parole «Dio vide che era cosa buona» (Gen, 1, 18).
Alla fine del sesto giorno l’espressione è enfatizzata con l'avverbio molto: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona!» (Gen, 1, 31).
Conclusa l'opera creatrice – che il testo biblico definisce lavoro – Dio benedice la prima coppia umana, dicendo:

«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra» (Gen, 1, 28).

Con queste parole, il racconto mosaico mette in evidenza, anzitutto, la «dipendenza creaturale» di tutti gli esseri, compreso l’uomo, dall' azione creatrice di Dio, liberando la religione da ogni residuo di paganesimo, come dipendenza essenziale della natura, giacché la natura, nella sua totalità e nella molteplità indefinita di tutte le sue forme, è «figlia» di Dio.
Inoltre, le parole che l'autore della Genesi mette in bocca a Dio affermano e consacrano la supremazia dell'uomo sulla natura e, di conseguenza, la centralità dell'uomo nel cosmo, in quanto egli è stato creato «ad immagine di Dio». Nelle sue «narici» Dio stesso ha soffiato «un alito di vita», facendone un essere vivente (Gen, 2, 7).
È importante, per la comprensione del «posto» assegnato nel mondo all'uomo, leggere il versetto conclusivo del racconto della creazione.
«Dio, nel settimo giorno, portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro» (Gen, 2, 2).

 

Il riposo di Dio dopo il sesto giorno: l'opera del settimo giorno affidata al lavoro umano

Una volta creato Adamo, «il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen, 2, 15).
Con questa decisione Dio costituisce Adamo come continuatore della sua opera creatrice ordinatrice del mondo. Durante il riposo di Dio, il compito di custodire e di curare la bellezza dell'Eden – che è in certo senso, il giardino del mondo – tocca all'uomo, il quale, in tal modo, è chiamato a continuare il «lavoro» di Dio, nel lungo cammino della storia.
In questo versetto è racchiusa in nuce la dottrina del settimo giorno, tanto cara alla teologia medievale.
Se tutta la storia viene guardata alla luce della dottrina di stampo plotiniano, dell'exitus-reditus, il compito principale di realizzare questo «ritorno al Principio» viene assegnato al «lavoro» dell'uomo.
Conclusa, dopo «sei giorni», l'attività creatrice, l'Onnipotente si riposa. Ma questo riposo non è inerzia o stanchezza di Dio, non è disinteresse per il creato, bensì atteggiamento di fiducia deÌ Creatore verso l'uomo, capolavoro della creazione.
L'uomo è chiamato ad essere «vicario» e «collaboratore» di Dio, di cui deve continuare, lungo il corso del tempo, «il lavoro», per realizzare l’ideale divino di bellezza, a cui l'universo creato deve conformarsi.
Il settimo giorno abbraccia tutta la storia umana, la quale coinvolge insieme l’uomo e tutti gli esseri del creato, che sono sottomessi al suo dominio.
Nell'opera della rigenerazione, o, se vogliamo, della «palingenesi» dell’universo, guardato alla luce del dramma del peccato originale e della promessa di una redenzione, di cui si parla nelle pagine della Genesi, il mondo della natura e il mondo della storia umana sono solidali.
Il brano più significativo, a questo proposito, è quello della Epistola ai Romani, nel quale si afferma che tutta la natura geme come per i dolori del parto, in attesa del riscatto universale dalla condizione generale di peccato (Rom, 8, 22).
Teocentrismo ed antropocentrismo si intrecciano insieme in questa visione grandiosa della storia, intesa come la lunga stagione della lotta tra il bene ed il male, che si concluderà con il trionfo definitivo del bene, nel giorno dell' Apocalisse.
Teocentrismo ed antropocentrismo si intrecciano insieme con il cristocentrismo della Epistola ai Colossesi, nella quale s. Paolo pone a principio e fondamento della natura e della storia la persona di Cristo, Verbo di Dio, che sorregge tutto l'universo con la potenza della sua parola (Col. 1, 16-18).

 

Storia teocentrica e antropocentrica: la millenaria fatica del settimo giorno

Alla luce di una Weltanschauung religiosa tutta la natura viene finalizzata alla realizzazione della missione dell'uomo nel mondo. Tanto una concezione finalistica, quanto una concezione meccanicistica della natura, non può prescindere, per l'homo religiosus o, se vogliamo, per l'uomo come animal capax religionis, dal duplice riferimento, da una parte, all'origine dell’universo dalla parola onnipotente di Dio, e, dall'altra parte, alla conclusione escatologIca della storia nell'ambito di una civitas Dei, secondo la felice formula agostiniana.
È superfluo, in questa sede, ripercorrere le tappe della speculazione filosofica, per trovare i segni della presenza del sacro della natura e quelli dell'attesa della palingenesi da realizzarsi in cieli nuovi e in terre nuove. A partire dal Timeo di Platone fino al Principia Mathematica di Newton, la visione religiosa della cosmogonia e della cosmografia è presente in tante pagine, scritte non solo da grandi «mistici» – come Plotino, s. Agostino, Scoto Eriugena, Spinoza, Gioberti – ma anche da «razionalisti», come Cartesio, Newton, Voltaire, per citare solo alcuni dei nomi più noti.
La pagina più suggestiva, nella quale scienza, filosofia, teologia e poesia, si intrecciano in una sintesi che «sopravvive» nei secoli, pur dopo il tramonto della scienza di quel tempo, si trova nel primo canto del Paradiso dantesco.

«La gloria di Colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove» [5].

Tutto l'universo, nella concezione dantesca, è l'irraggiamento della gloria di Dio, la quale risplende dove più dove meno, secondo il grado di perfezione dei singoli esseri finiti.
E Beatrice spiega allo stupito alunno ed amico:

«Le cose tutte quante
hanno ordine fra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante ...
«Ne l'ordine ch'io sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar dell'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti» [6].

Tutte le cose dell'universo – insegna il «teologo medievale» Dante – recano in sé «l'orma» della potenza creatrice e conservatrice di Dio, e tutte navigano nel mare dell'essere, per vie diverse, lungo tappe diverse, per ricongiungersi, alla fme, dentro l'immenso porto dell’Essere che tutto ha creato e che tutto governa. La mèta sarà la palingenesi finale della storia nella metastoria, già in formazione nel fulgore della «Candida Rosa» [7].

 

La scienza come obbedienza e dominio dell'uomo nei confronti della natura

Il còmpito che l'uomo volle assumersi nei confronti dell'universo fisico, lungo i secoli di quella storia che noi oggi definiamo come antica e medievale, fu quello di «seguire la natura», secondo la formula cara ai Greci, o, se vogliamo privilegiare la formula di Francesco Bacone, di «obbedire alla natura».
 È rimasto famoso l'aforisma baconiano naturae non imperatur nisi parendo – «non si comanda alla natura se non obbedendo ad essa» [8].

Questo atteggiamento di «obbedienza» alla natura portò a privilegiare la tendenza «contemplativa» rispetto a quella «inventiva», la «scoperta» rispetto alla «invenzione».
Il mondo classico conobbe, infatti, una continua fioritura di scienze «contemplative», ai cui vertici troneggiavano la metafisica e la teologia.
L'atteggiamento di fronte alla natura era, sostanzialmente, quello del «rispetto» di un ordine già «disegnato», da scoprire e da riprodurre nelle cose.
Sull'orizzonte di questa cultura appariva, però, la figura di Prometeo, il temerario Titano che aveva «rubato» dall'Olimpo il fuoco con le sue energie misteriose, per farne dono agli uomini.
Nel mito di Prometeo si proiettava l'atteggiamento di quella forma di scienza, la quale vedeva come un furto «sacrilego» ogni sconvolgimento dell'ordine costituito delle cose, e riteneva che ogni trasformazione radicale comportasse una pericolosa rottura. La diffidenza nei confronti dell'uso generalizzato della scrittura e, in seguito, la diffidenza nell'accettare il passaggio dalla forma poetica alla forma prosaica dello scrivere, la diffusa identificazione dello scienziato con il «mago», conoscitore e custode geloso di nozioni «occulte», gravide di effetti straordinari, erano alcune delle componenti della mentalità comune [9].

 

La scienza prometeica e i confini del potere dell'uomo

Il mito, eternato nei versi danteschi, del vecchio Ulisse, che vuole navigare al di là dei confini fissati «per sempre», suona come una condanna di ogni tentativo di fare sacrilega «violenza» alla natura. Non plus ultra era il motto che segnava i limiti invalicabili per l'uomo.
Lo spirito prometeico, tuttavia, anima tutto il versante della scienza sperimentale, sorregge tutti gli sforzi ed ispira tutte le intuizioni innovatrici della scienza matematica e fisica, anche nel periodo della classicità. Il genio «inventivo» di Archimede, forse il genio «inventivo» più straordinario del mondo classico, illumina ancora oggi le vie, difficili ed accidentate, della ricerca del «nuovo», sia nell'àmbito della scienza pura sia in quello della scienza applicata.
Canone fondamentale dell'atteggiamento prometeico è che occorre obbedire alla natura, senza tentare di violentarla o di sconvolgerla, tenendo, tuttavia, presente che essa cerca di occultare le sue «forze», che solo individui straordinari potranno, di conseguenza, «svelare». La scienza, perciò, nel senso di padronanza delle nozioni essenziali per il progresso, rischia di essere patrimonio di pochi. Lo scienziato viene considerato come un «mago», perché conosce, solo lui, le forze che restano «misteriose» per la massa degli altri uomini.
Merito dello spirito prometeico è stato proprio quello di liberare progressivamente la scienza dal suo alone di mistero, per farne patrimonio di tutti. Come il Titano Prometeo, che fa dono agli uomini del fuoco «rubato» agli Dèi, cosÌ lo scienziato vuole trasmettere a tutti gli uomini i risultati delle sue scoperte e comunicare a tutti le sue intuizioni innovatrici e anticipatrici. La scienza prometeica confina progressivamente la magia al margine della vita sociale, promuovendo quella forma di scienza che farà, sempre più, tesoro del metodo sperimentale e costituirà uno dei capisaldi del mondo della modernità.
E ovvio che un simile atteggiamento presuppone una quantità di «postulati», quasi tutti inconfessati, che formano le strutture portanti dell'edificio del sapere. È impossibile elencarli tutti, e ci limiteremo a citarne solo uno: la convinzione che l'evidenza della testimonianza dei sensi sia criterio sicuro di verità.
Questa convinzione – ricordata con geniale ironia dal Manzoni, nel celebre monologo di don Ferrante sulla natura del «contagio» – non potrà resistere alla crisi provocata dalle invenzioni del telescopio e del microscopio, i due strumenti che, esplorando l'universo dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, sconvolgeranno le certezze di una scienza fondata, in definitiva, sul valore indiscusso dell'esperienza immediata [10].

   

La fine della scienza antica e la nascita dello spirito demiurgico

La fine della scienza «antica», come sistema delle evidenze immediate, giunge con l'età che va da Copernico a Newton.
Una volta sconvolte e rivoluzionate le certezze millenarie, consacrate dal senso comune, si apre la via ad un atteggiamento che ha il suo motto programmatico non più nella proibizione Non plus ultra, bensì nel comando «Plus ultra». Ed è sintomatico che queste parole furono incise, come «imperativo di governo», in alcune monete da Carlo V, il sovrano sul cui impero non tramontava mai il sole.
L'atteggiamento della scienza, profetizzata da Bacone e iniziata dal genio di Galileo, è essenzialmente «inventivo». Còmpito dello scienziato non è tanto quello di «salvare» la natura, nelle forme in cui essa ci si presenta, bensì di trasformarla, per farne il regno dell'uomo, secondo un disegno che lo scienziato «non trova», ma «inventa» e «impone» alla natura.
Allorché Bacone inserisce tra i punti programmatici della nuova scienza la «creazione di nuove specie», prefiggendosi persino di «prolungare la vita», la scienza prometeica comincia a cedere il passo alla scienza «demiurgica».
Si tratta di una rivoluzione sconvolgente, i cui effetti clamorosi sono apparsi evidenti solo nel nostro secolo, ma le cui radici si trovavano già nella svolta operata dalla scienza sin dagli anni della prima rivoluzione scientifica. Nel programma «profetico» di Bacone, nell'ardore della ricerca di Galileo, nella ricchezza delle invenzioni dei «padri» della scienza moderna – lo stesso Galileo, Torricelli, Cartesio, Pascal –c'è già, in nuce, la scienza demiurgica del nostro secolo, che crea in laboratorio dei nuovi elementi mai prodotti spontaneamente dalla natura, trapianta gli organi da un individuo all'altro, interviene sulle strutture ultime dell' essere vivente, investe persino i meccanismi della trasmissione della vita.
È superfluo ripercorrere le molte tappe di questo cammino della scienza ed elencare le innumerevoli trasformazioni rivoluzionarie, impensabili fino a pochi decenni or sono, che ormai fanno parte della nostra quotidianità.
Se il progresso scientifico si può definire come «il miracolo messo in commercio», possiamo dire che in quest'ultimo secolo – a partire dalle invenzioni del cinema, della radio, del fonografo, dei missili spaziali, della televisione, dei trapianti di organi – tutta la nostra vita si svolge tra cose che un secolo fa avrebbero fatto gridare al miracolo.
Lo scienziato – cioè l'uomo fattosi padrone delle forze della natura – è in grado ormai di trasformare radicalmente la vita sua e dei suoi contemporanei.

   

L'opera inventiva e trasformatrice dell'uomo: l'ottimismo messianico della scienza moderna

Una visione religiosa dell'universo, cioè una lettura creazionista, nel senso più ampio del termine, impone all'uomo di confrontarsi con il principio della responsabilità verso il creato, che è, in definitiva, il principio di una «corresponsabilità delegata» da Dio all'uomo al tramonto del sesto giorno della creazione.
Una visione teocentrica dell'universo implica un richiamo a questa corresponsabilità, per l'attuazione del disegno di Dio nel mondo creato.
Ma neppure una visione antropocentrica, a meno che non voglia essere angustamente egoista, può rifiutare il dovere della «responsabilità», giacché l'uomo non potrà sentirsi mai signore assoluto dell'universo, dato che sperimenta continuamente la sua finitudine.
La condizione di finitudine, quanto meno temporale e spaziale – per non parlare della finitudine della sua stessa razionalità – costringe l'uomo ad interrogarsi sul progetto originario «iscritto» nel cosmo, che a lui tocca, sia pur parzialmente, di realizzare.
Se, come insegnava genialmente il Vico, anche nel campo speculativo conosciamo – e perciò «possediamo» – veramente solo ciò che «facciamo» – e, di conseguenza, l'unico che abbia «scienza vera» del mondo è Dio – è ancor più innegabile che non possiamo «formare» e «plasmare» totalmente nessuna cosa, giacché non possiamo crearla.
Poiché produrre le cose secundum totam substantiam, cioè creare, è al di là delle nostre capacità, dovremo fare sempre i conti con la sordità della materia, che non risponde pienamente «all'intenzion dell'arte».
La natura, nel suo insieme e nelle sue parti, è distinta e diversa dall'uomo, ma è pur sempre un bene, cioè una fonte di ricchezza, per l'uomo. In certo senso, possiamo dire che la natura è un «bene umano», giacché è sottoposta all'azione trasformatrice dell'uomo in funzione del benessere dell'uomo.
Quest'opera trasformatrice, persino in una concezione «demiurgica» della scienza, non può mai essere «creatrice», anche se può mutare profondamente i rapporti tra le cose, determinare i comportamenti dei corpi «inanimati», influire in modo radicale sulle strutture e sui comportamenti degli esseri viventi e persino dell'uomo.

   

La natura come ambiente della libertà e strumento di elevazione dell'uomo

Uno spirito prometeico e, ancor più, uno spirito demiurgico, è naturalmente aperto ad una visione ottimistica del valore e del potere della scienza.
L'ottimismo del progresso, fondato sulle grandi conquiste della scienza sperimentale dopo la prima rivoluzione scientifica, ha animatonla visione illuministica del mondo. L'Enciclopedia francese, dovuta soprattutto all'opera geniale ed instancabile di Diderot, rimane forse ancor oggi come la sinfonia più grandiosa in onore della scienza e della tecnica.
Ma, accanto all'entusiasmo quasi messianico nei confronti del progresso, in molti spiriti pensosi è andata maturando una profonda diffidenza sul «valore morale» delle conquiste fatte in nome della scienza. Ed è sintomatico che il primo grande atto di accusa contro il progresso scientifico sia stato scritto nello stesso anno in cui usciva il Prospectus della Enciclopedia, nel 1750: si tratta del Discorso sulle scienze e sulle arti dell'ancora giovane e sconosciuto J.-J. Rousseau.
Sotto l'azione dell'uomo la natura non rimane pura natura e materia inanimata, ma entra a partecipare in modo misterioso alle vicende della storia dell'uomo. Il destino degli esseri umani, «razionali», e quello degli esseri della natura inanimata, «irrazionali», diventano solidali, perché, secondo la dottrina del «settimo giorno», l'uomo è chiamato a continuare nel tempo «il lavoro» di Dio, realizzando la sua vocazione di salvezza col suo «lavoro» nel mondo e per il mondo.
Il progetto di una natura inanimata, priva della presenza attiva dell'uomo, anche se ipoteticamente possibile, non solo è «speculativamente insignificante», ma è anche «storicamente» sempre meno possibile, giacché la storia dell'uomo sulla terra è segnata dalle tappe del suo appropriarsi progressivo delle cose, per farne strumenti del suo destino. Le cose inanimate entrano così a costituire, nel bene e nel male, gli strumenti della salvezza o della condanna dell'uomo.
«Appena un'energia, una materia, una struttura o una qualsiasi altra cosa emerge nel mondo dell'uomo, vi riceve un nuovo carattere. Non è più semplicemente natura, ma diviene elemento dell'ambiente umano, partecipa della libertà, ma anche della vulnerabilità, dell'uomo, ed acquista perciò molteplici possibilità, sia negative, sia positive» [11].
Non si poteva, meglio di quanto non faccia questo brano i Guardini, parafrasare il testo paolino sulla partecipazione della natura al «parto doloroso» del futuro di salvezza del genere umano.
La scienza e, ancor più, la tecnica come attività applicativa, non possono essere «neutrali», perché l'uomo, di cui esse condividono il destino, non può essere «neutrale» di fronte all'opzione fondamentale della sua vita nella scelta tra il bene e il male.
Occorre anzitutto abbandonare la pretesa di considerare il possesso delle cose come ius utendi et abutendi, soprattutto in una società che tende sempre più a trasformarsi in un «villaggio globale».
Un bene di cui si abusa – di cui, cioè, si fa uno spreco inutile per tutti – è una scintilla che si aggiunge all'incendio di odio che minaccia di distruggere i valori umani.

   

L'uomo signore del mondo creato, non però tiranno dispotico della natura 

La «signoria» dell'uomo sul mondo non può mai essere «assoluta», senza limiti e senza vincoli. Deve essere sempre una signoria «responsabile», e perciò «limitata» dal dovere di usare la libertà secondo ragione», con la disponibilità ad una «condivisione» dei beni. Il «dominio» dell'uomo nel mondo - di un uomo singolo o di una società di uomini – non può ignorare l'esistenza di altri «condomini» anche se lontani nello spazio, ma ugualmente inseriti nel rapporto vitale col mondo.
La conseguenza di questa considerazione «religiosa» dell'universo – considerazione che, tuttavia, anche un solido razionalismo «laico» potrebbe fare propria – è che la nostra presenza «nella» natura e la nostra azione «sulla» natura non può non avere una valenza «morale», se per moralità si intende il rispetto della gerarchia dei valori della vita.
Ogni violenza alla natura, in quanto ne distorce il fine di contribuire al bene dell'uomo, di ogni uomo, è un esercizio abusivo della propria libertà e un oltraggio alla libertà dell'altro.
Un atteggiamento egoista, che riguardi sia un singolo individuo, siaa una classe sociale, sia uno Stato, sia una confederazione di Stati è in definitiva, un atteggiamento «omicida». Ma è anche un atteggiamento «suicida», perché la lIbertà dell'altro è la condizione della mia libertà. Chi, infatti, distrugge la libertà dell'altro in definitiva distrugge il proprio essere come «persona libera», perché rinunzia a confrontarsi con altre «persone libere», per trasformare gli uomini in oggetti del suo «arbitrio».
Sin da quando, all'inizio dell'epoca moderna, il «mondo» non si identificò più con il continente europeo, per allargarsi ad altri continenti, l'unità e l'universalità dei problemi della economia, della scienza, della politica, divennero delle esigenze sempre più ineludibili.
La scienza annullando le distanze spaziali e temporali, ha imposto di annullare anche le barriere dei pregiudizi e delle preclusioni egoistiche, di rinunziare a tante forme consolidate di schiavizzazione delle classi e dei gruppi più deboli e più indifesi.
La dimensione intercontinentale dei problemI costnnge gli uomini a prendere atto della solidarietà e della interdipendenza degli individui, delle classi sociali, dei vari popoli, del diversi Stati.

 

L'uomo, salvando la natura, salva la propria dignità nella libertà

Nessun uomo, come singolo individuo o come comunità, è padrone assoluto dell'ambiente, perché nessun uomo ha «creato» il mondo, che è l'ambiente in cui egli è destinato a vivere ed operare.
L'ambiente non può mai essere ridotto a «strumento» del benessere esclusivo di una parte dell'umanità, perché nessun uomo puo dire del mondo «È tutto e solo mio».
Il compito dell'uomo «nel mondo» è quella di «salvare» il creato. E, poiché il creato non è una entità statica ma dinamica, compito dell'uomo è di «programmare» Il futuro di se e del suo ambiente, in modo che la natura sia il «domicilio» di tutti.
I pensatori «religiosi» hanno proposto delle formule suggestive per esprimere questo concetto.
Le formule di «salvezza del creato», «responsabIlna del creato», «creato come Eucaristia», sono tra le più pregnanti di significato religioso.
Ma perché non restino solo «parole», capaci di commuovere, ma non di trascinare all'azione concreta, occorre che siano tradotte nelle strutture di una politica, in cui sia forte la valenza etica.
La responsabilità del creato comporta il dovere di non asservire i beni della natura agli interessi esclusivi del proprio Stato, del proprio popolo, del proprio «gruppo». Non si può, ad esempio, disboscare la foresta africana, la giungla indiana, o le immense terre dell’Amazzonia senza riflettere sulla «ricaduta» di questi programmi nella qualità di vita degli uomini di altri Stati e di altri continenti.

Appunto perché il mondo tende a diventare un villaggio globale, i destini dei popoli si intrecciano e si condizionano a vicenda. Non si può curare l'interesse «di oggi» del proprio popolo, senza essere attenti agli interessi «di oggi» e «di domani» degli altri popoli, giacché dall'intrecciarsi di tutti questi interessi nascerà il futuro di noi e degli altri.
L'uomo può ancora chiamarsi il re dell'universo, ma la sua regalità deve essere non solo «collettiva», ma anche «corresponsabile».
Le guerre mondiali hanno messo in evidenza la necessità impellente e improrogabile della collaborazione, non solo sul piano politico e giuridico, ma anche tecnologico ed economico, di tutti gli Stati.
Poco importa che, nei fatti, dapprima la Società delle Nazioni sia fallita, e che l'O.N.U. sia travagliata da crisi periodiche. L'esigenza della globalizzazione e della collaborazione universale dei popoli e degli Stati resta sempre viva ed attuale.

 

L'ambivalenza del progresso tecnologico: tra salvezza universale e suicidio colettivo

L'ideale universalistico, presente nella politica euroasiatica sin dai tempi dell'ingresso da dominatori della storia degli Indoeuropei – dapprima i Persiani, a partire da Ciro il Grande, poi i Greci, con Alessandro Magno, poi i Romani, a partire da Cesare e da Augusto – si ripresenta, a scadenze quasi obbligate, nella storia del mondo. Le giustificazioni teoriche e le strutture politiche di questo universalismo cambiano di secolo in secolo, ma la sostanza del problema rimane identIca: l’esigenza di un ordine universale, che rispecchi, anche nelle strutture politiche ed economiche, l'unità del genere umano e la solidarietà del suo destino, a garanzia della salvezza e del progresso di tutti e di ciascuno.
Per il genere umano si avvicina sempre più l'epoca in cui esso o si salverà tutto, o si «suiciderà», per opera di un imprevedibile dottor Stranamore, che, come nell'opera di Kubrick, faccia esplodere la potenza distruttrice accumulata negli arsenali della morte nucleare.
Il progresso tecnico ed economico non può essere guidato solo dall’eros della conquista del mondo, ma deve essere regolato dal principio della «corresponsabilità» e della «partecipazione».
Il principio di eguaglianza degli individui e dei popoli, che è indubbiamente una delle mète e, almeno in parte, una delle conquiste più confortantI della nostra storia recente, implica il dovere della «condivisione» di beni e di risorse, e della «corresponsabilità» nelle scelte di più vasto interesse: corresponsabilità significa «dovere di rispondere», cioè di rendere conto «ad altri», delle scelte i cui effetti li coinvolgono.
La collaborazione dovrà portare alla condivisione dei frutti del progresso, cercando di eliminare ogni forma, anche larvata, di colonialismo.
Lo sviluppo della tecnologia, con la conseguente necessità di investimenti sempre più colossali, porta insito in sé il rischio che si tenti di formare una «casta» ristretta di gruppi o di Stati privilegiati, che detenga tutti gli strumenti del potere politico ed economico, riducendo «gli altri» a salariati, manovrati come docile massa dalle centrali occulte del potere.

   

L'uomo «sacerdote» dell'universo: rispetto per la sacralità del creato

Se qualche teologo ha potuto scrivere che l'uomo è «sacerdote dell'universo» e, come tale, custode della speranza di tutto il creato – espressioni meravigliose, che rischiano però di restare nel vago dell'astrazione speculativa – questa sacerdotalità e questa offerta di speranza non possono non produrre strutture «materiali», animate da uno spirito vivificante, perché il creato, nella sua totalità, diventi, secondo l'espressione agostiniana, la «città di Dio» in formazione, o, per usare la formula baconiana, il «Regno dell'uomo», costruito dall'opera dell'uomo, per il benessere di ogni uomo.
E vorrei citare a questo proposito un brano di un documento quasi sconosciuto, ma ricchissimo dello spirito della religiosità del creato. Si tratta della lettera con cui, nel 1854, un capo della tribù indiana Seattle rispondeva alla richiesta del Presidente degli Stati Uniti, che chiedeva di «comprare» le terre della sua tribù.

«Come si può comprare o vendere il firmamento, o il calore della Terra?
Noi non comprendiamo queste idee.
«Noi non siamo padroni né della freschezza dell'aria, né della vivacità dei ruscelli d'acqua. Come possiamo venderli a voi?
«Ogni palmo di questa terra è sacro al mio popolo ... La linfa che circola nelle vene degli alberi porta con sé le memorie della mia gente ...
«Noi siamo parte della terra e la terra è parte di noi ... Quando il Gran Capo di Washington ci fa sapere che desidera comprare le nostre terre, ci chiede troppo ...
«L'acqua limpida che scorre nei fiumi e nei ruscelli non è solamente acqua, ma rappresenta il sangue dei nostri antenati .. . Il mormorio delle acque è la voce del padre di mio padre ...
«Sappiamo che l'uomo bianco non comprende il nostro modo di vivere ... La terra non è una sorella per l'uomo bianco ma una nemica, e una volta che l'ha conquistata egli prosegue il suo cammino, lasciandosi dietro le tombe dimenticate dei suoi padri. Ai suoi figli lascia terra corrotta, e anche di questo non gli importa nulla ...
«Tratta sua madre la terra e suo fratello il firmamento come oggetti da comperare, sfruttare e vendere come bestiame o monili.
«La sua fame è insaziabile, divorerà la terra, lasciandosi dietro il deserto» [12].

Sul rapporto tra politica dell'ambiente ed istanze etiche è ancora oggi, attuale l'intervento di Papa Giovanni Paolo II, nel discorso rivolto ai partecipanti ad un «Convegno su Ambiente e Salute».
Richiamandosi alla duplice tentazione, sempre risorgente in una società altamente progredita nella tecnica e profondamente secolarizzata nell'anima, egli mette in guardia contro i due pericoli cui va incontro la nostra società: da una parte, la concezione del sapere inteso più come potere «sulla» natura che come contemplazione e rispetto «della» natura; d'altra parte, la tentazione di imboccare il sentiero dello sfruttamento sfrenato delle risorse sotto la spinta del principio della ricerca del profitto senza barriere etiche.
«L'equilibrio dell'ecosistema e la difesa della salubrità dell'ambiente hanno bisogno della responsabilità dell'uomo, e di una responsabilità che deve essere, aperta alle nuove forme di solidarietà ... La tecnologia che inquina può anche disinquinare, la produzione che accumula può anche distribuire equamente, a condizione che prevalga l'etica del rispetto per la vita» [13].

   


[1] M. BLONDEL, L'Action. Essai d'une critique de la vie et d'une science de la pratique, Paris, 1893, p. VII.
[2] Cit.. ESIODO, Teogonia, trad. it. di Ettore Romagnoli, vv. 42-45.
[3] Cit. Idem, vv. 113-117.
[4] ARISTOTELE, Metafisica, lib. I, cap. II, 982 b.
[5] Cit. D. ALIGHIERI, Paradiso, I, 1-3.
[6] Cit. Idem, I, 103-105 e 109-114.
[7] Cfr. Idem, XXX-XXXIII.
[8] F. BACON, Novum Organum, lib. I, «Aforisma» 3.
[9] Cfr. D. ALIGHIERI, Inferno, XXVI, 72 ss.
[10] Cfr. A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. XXXVll, ad finem.
[11] R. GUARDINI, La fine dell'epoca moderna, trad. it., Brescia, 1954, pp. 82 s.
[12] Testo segnalato da L. Andreoli e Freddy Carniol di San José - Costa Rica.

[13] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, «Discorso ai partecipanti ad un Convegno su Ambiente e Salute», in Osservatore Romano, 24-25 marzo 1997, p. 4.

 

 Aquinas 45 (2002), pp. 7-30.