Non appena fu creato, l'uomo dovette lavorare. Non sto inventando: basta aprire le prime pagine della Bibbia per leggere che — ancor prima che il peccato entrasse nell'umanità e, come conseguenza della trasgressione, comparissero la morte, le pene e le miserie (cfr Rm 5, 12) — Dio formò Adamo col fango della terra, e creò per lui e per la sua discendenza questo mondo così bello, ut operaretur et custodiret illum (Gn 2, 15), perché lo lavorasse e lo custodisse.
Dobbiamo convincerci, pertanto, che il lavoro è una realtà meravigliosa che ci viene imposta come una legge inesorabile alla quale tutti, in un modo o nell'altro, siamo sottomessi, anche se qualcuno tenta di sottrarsi. Sappiatelo bene: quest'obbligo non è sorto come conseguenza del peccato originale, e tanto meno è una scoperta moderna. Si tratta di un mezzo necessario che Dio ci affida sulla terra, dando ampiezza ai nostri giorni e facendoci partecipi del suo potere creatore, affinché possiamo guadagnare il nostro sostentamento e, nello stesso tempo, raccogliere frutti per la vita eterna (Gv 4, 36): l'uomo nasce per lavorare, come gli uccelli per volare (Gb 5, 7).
Di fronte a questa visione piatta, egoista, gregaria, tu e io dobbiamo ricordarci e ricordare agli altri che siamo figli di Dio, ai quali, come ai personaggi della parabola evangelica, nostro Padre ha rivolto l'invito: Figlio, va' a lavorare nella vigna (Mt 21, 28). Vi assicuro che, se ci impegniamo tutti i giorni a considerare i nostri doveri personali come una richiesta divina, impareremo a portare a termine il compito con la maggior perfezione umana e soprannaturale di cui siamo capaci. Forse qualche volta ci ribelleremo — come il figlio maggiore che rispose: Non voglio (Mt 21, 29) —, ma poi, pentiti, sapremo reagire, e ci dedicheremo con rinnovato impegno al compimento del dovere.
Se la sola presenza di un personaggio importante, ragguardevole, è sufficiente a far sì che i presenti si comportino meglio, come mai la presenza di Dio, costante, diffusa ovunque, conosciuta dalle nostre facoltà e amata con gratitudine, non ci rende sempre migliori nel nostro parlare, nelle nostre azioni e nei nostri sentimenti? (Clemente di Alessandria, Stromata, 7, 7). Davvero: se il fatto che Dio ci vede fosse una realtà ben incisa nella nostra coscienza, se ci rendessimo conto che tutto il nostro lavoro, proprio tutto — nulla sfugge al suo sguardo —, si svolge alla sua presenza, con quanta cura porteremmo a compimento tutte le cose o quanto diverse sarebbero le nostre reazioni! E questo è il segreto della santità che vi sto predicando da tanti anni: Dio ha chiamato tutti ad essere suoi imitatori; e voi e io siamo stati chiamati affinché, vivendo in mezzo al mondo — da persone qualsiasi —, sappiamo mettere Cristo nostro Signore al vertice di tutte le attività umane oneste.
Adesso capirete ancor meglio che se qualcuno di voi non amasse il lavoro — il suo lavoro —, se non si sentisse autenticamente impegnato in una delle nobili attività umane per santificarla, se fosse privo di una vocazione professionale, non riuscirebbe mai a cogliere la radice soprannaturale della dottrina del sacerdote che vi sta parlando, proprio perché gli mancherebbe una condizione indispensabile: quella di essere un lavoratore.
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Convincetevi che la vocazione professionale è parte essenziale, inseparabile, della nostra condizione di cristiani. Il Signore vi vuole santi nel posto in cui siete, nella mansione che vi siete scelta per il motivo che vi è parso più opportuno: tutte mi sembrano buone e nobili — se non si oppongono alla legge divina — e suscettibili di essere innalzate al piano soprannaturale, cioè inserite nella corrente d'Amore che caratterizza la vita di un figlio di Dio.
Non posso evitare un certo disagio quando qualcuno, parlando del suo lavoro, si dà l'aria di vittima e afferma che gli assorbe chissà quante ore, quando, in realtà, non svolge neppure la metà del lavoro di molti suoi compagni di professione che, in fin dei conti, forse si muovono solo per motivi egoistici o, quanto meno, meramente umani. Tutti noi qui presenti, in dialogo personale con Gesù, svolgiamo un'occupazione ben precisa: medico, avvocato, economista… Pensate un momento ai vostri colleghi che emergono per prestigio professionale, per onestà, per spirito di servizio: non dedicano molte ore del giorno — e anche della notte — al loro compito? Non abbiamo niente da imparare da loro?
Mentre vi sto parlando, io stesso esamino la mia condotta e vi confesso che, nel pormi questa domanda, sento un certo imbarazzo e il desiderio di chiedere perdono a Dio, pensando alla mia corrispondenza così debole, così lontana dalla missione che Dio ci ha affidata nel mondo. Cristo — scrive un Padre della Chiesa — ci ha lasciati perché fossimo come lampade; perché diventassimo maestri per gli altri; perché fungessimo da lievito; perché vivessimo come angeli fra gli uomini, come adulti in mezzo ai bambini, come esseri spirituali in mezzo a gente soltanto razionale; perché fossimo semente; perché producessimo frutti. Non sarebbe necessario aprir bocca se la nostra vita risplendesse in questo modo. Le parole sarebbero superflue, se mostrassimo le opere. Non ci sarebbe neppure un pagano, se noi fossimo veramente cristiani (s. Giovanni Crisostomo, Commento alla I lettera di san Paolo a Timoteo, 10, 3).
Josemaría Escrivá de Balaguer, "Lavoro di Dio", in Amici di Dio, Ares, Milano 1977, nn. 57-58-60.
Testo digitale in https://escriva.org/it/amigos-de-dios/lavoro-di-dio/