Paolo di Tarso: la gioia che cambia lo sguardo sul mondo

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Caravaggio, Conversione di san Paolo (1601)

Siamo ad Efeso, in Asia Minore, con ogni probabilità fra l’anno 54 e 55 dell’era cristiana. Un ebreo colto, versato nella Legge e nelle sacre Scritture scrive una lettera ai Corinzi, abitanti di una ricca città del Peloponneso, nota per i suoi giochi Istmici tenuti ogni due anni in onore del dio del mare Poseidone. Facendo riferimento alla vita dei primi cristiani, egli annota: veniamo da tutti considerati «come afflitti, ma siamo sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (Seconda lettera ai Corinzi 6,10). Chi è quest’uomo, capace di affermare che, pur sembrando agli occhi del mondo un perdente, è in realtà il più felice e ricco di tutti? Chi potrebbe dire oggi queste cose? Il suo nome è Saulo, nato a Tarso in Cilicia. A grandi linee, quasi tutti sanno qualcosa della sua storia, forse soprattutto per l’episodio della sua conversione sulla via di Damasco, dove come folgorato dal Cielo cade da cavallo e comprende in un solo istante che le promesse di cui gli ebrei erano destinatari si sono adesso avverate e compiute in Gesù di Nazaret. Cosa ha a che vedere Saulo – il cui nome cambierà poco dopo in Paolo – con la felicità? Se mettiamo in fila i versetti delle sue Lettere raccolte nel Nuovo Testamento, i vocaboli gioia e letizia, insieme ai verbi gioire e rallegrarsi, compaiono più di cento volte. «Siate sempre lieti, ve lo ripeto, siate lieti», scrive ai cristiani dei Filippi, un’altra città greca, situata a nord, nella Macedonia (cf. Lettera ai Filippesi 4,4). Perché quest’uomo parla così spesso di gioia, qual è il segreto della sua felicità? Sarà lui stesso a spiegarlo, in un’altra lettera, inviata proprio ai Filippesi. Leggiamo cosa scrive:

Queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura per guadagnare Cristo (Lettera ai Filippesi 3,7-8).

Paolo si considera il più felice e più ricco di tutti perché ha incontrato Gesù Cristo e la conoscenza di Lui la stima al punto che tutto il resto lo considera come… spazzatura, sì, peripsema, vocabolo greco che vuol dire proprio spazzatura, cose da buttar via. Paolo non disprezza le cose del mondo: è uomo colto, in buoni rapporti con le autorità romane e i consiglieri dell’imperatore, lavoratore e fabbricante di tende, insofferente davanti a chi perde tempo, al punto da ingiungere ai primi cristiani, senza mezzi termini, «chi non vuole lavorare, neppure mangi» (cf. Seconda lettera ai Tessalonicesi 3,10). Qualificando ogni cosa come spazzatura, egli vuole solo indicare una scala di valori: la conoscenza di Gesù e la sua grazia valgono più di tutto il resto, perché solo queste fanno l’uomo felice.

Ma che tipo di incontro è stato quello di Paolo con Gesù, che i romani avevano ucciso sulla croce qualche anno prima? È Gesù che gli viene incontro, sulla via di Damasco, mentre Saulo si recava ad arrestare i cristiani residenti nelle città della Siria per portarli a Gerusalemme, perché responsabili di diffondere un culto ritenuto illecito, contrario alla Legge di Mosè. Gesù appare a Saulo e lo chiama: gli chiede di non perseguitarlo più, perché perseguitando i cristiani stava perseguitando il suo stesso Corpo. Sulla via di Damasco ha luogo un’esperienza mistica che Paolo ricorderà per iscritto ben tre volte e che segnerà tutta la sua vita. Egli dice di essere stato rapito «fino al terzo cielo» e di aver ascoltato parole sublimi, irripetibili (cf. Seconda lettera ai Corinzi 12,2-4). Qualunque cosa sia accaduta e comunque sia andato questo incontro, Paolo non lo dimenticherà mai più. Egli ha trovato Gesù e, con Lui, la felicità.

Non ci sorprende di trovare nella sua storia il binomio felicità-conversione. I vangeli parlano spesso di gioia e di felicità proprio come frutto della conversione: l’apostolo Matteo, il ricco magnate Zaccheo, il figliol prodigo… Questo è vero anche per la conversione più famosa di tutte, quella di Paolo, appunto. Egli ne è convinto: nessuno potrà mai separarlo dall’amore che adesso ha incontrato. Ecco come lo scrive, anzi lo grida, nella lettera indirizzata da Corinto ai Romani, fra gli anni 57 e 58:

Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? […] Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (Lettera ai Romani 8, 32-39).

Paolo è felice. Non gli bastano le parole per esprimerlo.

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Valentin de Boulogne, San Paolo che scrive le sue lettere 
(1618-1620)

Per capire Paolo di Tarso sembra lo si debba mettere “già in cielo”: egli vive nella storia, ma sembra collocarsi entro un orizzonte diverso, oltre la storia. Ha i piedi sulla terra ma la testa e il cuore in una dimensione futura, quella dell’incontro definitivo con Cristo, che in lui sembra già realizzato con una vivezza unica. Egli si considera già “risorto”, sebbene ancora nel mondo presente, e così invita i cristiani a considerare sé stessi. Ecco come lo scrive ai credenti delle comunità di Efeso e di Colossi: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù» (Lettera agli Efesini 2,4-6). E ancora: «se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Lettera ai Colossesi 3,1-2). Egli vede le cose in un altro modo e quasi da un altro mondo. È l’esperienza di un innamoramento. Chi l’ha provata sa bene che le stesse cose, quelle viste e conosciute fino a un momento prima, sono adesso cambiate tutte, assumono un colore nuovo, non sono più le stesse. L’amore colora in positivo tutto ciò che facciamo, ogni attimo del nostro tempo, ogni respiro della nostra vita… Anche quando si soffre, se si ama, si può essere felici: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi – scrive ancora ai Colossesi – e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne» (Lettera ai Colossesi 1,24).

Avendo sperimentato la gioia dell’incontro con Cristo, Paolo esorta alla gioia tutti i cristiani delle chiese da lui fondate durate i suoi viaggi di apostolato: ecco il motivo della diffusa presenza di questo sentimento nelle sue lettere. Egli non comprende che si possa seguire Gesù di Nazaret e non essere sempre nella gioia. La felicità di Paolo è effusiva. Parla entusiasta di Gesù Cristo ai carcerieri che lo imprigionano, conquistando la loro conversione e il battesimo delle loro famiglie. Agli arresti a Cesarea di Filippo, prima di essere condotto a Roma una volta appellatosi a Cesare, parla con tale ardore di Cristo al re Agrippa e al governatore romano Festo che Agrippa commenta: «Ancora un po’ e mi convinci a farmi cristiano» (Atti degli Apostoli 26,28). E Paolo replica: «Per poco o per molto io vorrei supplicare Dio che, non soltanto tu, ma tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino come sono anche io, eccetto queste catene!» (Atti degli Apostoli 26,29).

La storia di amore e di felicità di Paolo termina a Roma, con il martirio. Superato il primo giudizio con l’assoluzione, fra gli anni 61 e 63 potrà continuare il suo apostolato e forse recarsi anche in Spagna. Alcuni storici parlano di un’amicizia fra Paolo e il filosofo stoico Seneca, e anche di un possibile carteggio fra i due, giuntoci in parte corrotto attraverso le lettere del senatore romano. L’imperatore Nerone si mostrò inizialmente favorevole ai cristiani; poi, a partire dall’anno 62, ripudiata la prima moglie Ottavia e unitosi in seconde nozze con Poppea, viene influenzato da quest’ultima, simpatizzante del giudaismo, riguardo l’atteggiamento da avere nei confronti dei cristiani. Paolo cade allora nel mirino dell’imperatore e della sua consorte, per avere abbandonato la fede ebraica in favore di Gesù di Nazaret. La decapitazione di Paolo, avvenuta con ogni probabilità nell’anno 64, anticipa di 3 anni la pesante e massiccia persecuzione che Nerone sferra nell’anno 67 subito dopo l’incendio di Roma, di cui lo storico romano Tacito ci informa nei suoi Annales, narrando il martirio di centinaia di cristiani, crocifissi e arsi vivi in odio al loro culto a Gesù. È in quest’ultima persecuzione che trova il martirio Pietro, primo vescovo di Roma, insieme a Paolo testimoni felici di un amore che li aveva conquistati e che non si è fermato neanche di fronte alla morte.