L'esperienza della morte nella società contemporanea

Michelangelo Pelaez
2002

Nella cultura occidentale, l’esperienza della morte è soggetta ad un processo di privatizzazione che la spinge ai margini della vita pubblica, non senza forme di resistenza a questo orientamento generalizzato. Vengono infatti ancora osservate forme di culto anche dai non credenti: funerale cristiano, commemorazione dei defunti, visita ai cimiteri, acquisto e cura delle tombe di famiglia. Il culto dei morti è divenuto oggi forse l’unica manifestazione di “religiosità” comune a credenti e non credenti di tutte le confessioni.

primo piano Ariés
Philippe Ariès

Lo storico francese Philippe Ariès parla di «espropriazione della morte» come di un fenomeno attuale e del tutto nuovo. L’uomo è stato per millenni, il padrone assoluto della sua morte e delle circostanze che la accompagnavano; il morente non doveva essere privato della sua morte, doveva anche presiederla; per cui, quando egli non si accorgeva del suo stato critico, toccava al medico avvertirlo con grande semplicità; l’approssimarsi della morte trasformava la camera del moribondo in una specie di luogo pubblico. Si rileva invece oggi una sfasatura fra la “morte libresca” che resta loquace nella letteratura, nella filosofia, nelle scienze sociali, nei mezzi di comunicazione sociale, e la morte reale, taciturna e vergognosa [1]. La morte che per ciascuno di noi conta «è bene che sparisca al più presto, magari con la giustificazione che scienza e tecnica sono nelle condizioni di gestirla meglio di quanto non sappia fare l’umana pietà» [2]. Si tende a delegare, sistematicamente alle strutture sanitarie la cura dei malati senza speranza, per mancanza di quelle risorse morali ed affettive che dovrebbero sostenere — anche quando tale strutture fossero disponibili — la compagnia dei familiari [3]. Il carattere troppo spesso anonimo della morte nelle cliniche e negli ospedali ha delle profonde ripercussioni antropologiche ed etiche. Non viene meno soltanto la dimensione pubblica dell’avvenimento con cui si conclude un’esistenza, ma si compie una separazione del morente dal suo ambiente domestico, la quale soffoca il sentimento genuino di coloro che in quella morte sono implicati. «Tale distacco — osserva Gadamer (1994) — inserisce il decesso nel ciclo tecnologico della produzione industriale» [4].

Il progresso tecnico scientifico, ma anche l’individualismo proprio dell’epoca contemporanea, segnano profondamente l’esperienza della morte nel nostro tempo, spingendola ai margini della vita pubblica. Gli uomini costruiscono la propria vita in modo indipendente, sciogliendosi dai vincoli stretti della comunità. In questo contesto il morire è una questione privata fino a diventare oggetto di vergogna, in alcuni casi da comunicare dopo la sepoltura. La verità del morire non si può negare, ma la si circonda di riservatezza e di silenzio, la si custodisce nell’intimità. Natoli, nel descrivere questo quadro, evidenzia come esso renda plausibile l’eutanasia: questa “morte segreta” corrisponde alla capacità che gli uomini hanno oggi di impadronirsi della morte come cosa propria [5]. È in questo stesso contesto che si afferma il suicidio come negazione del “prossimo” e si moltiplicano le situazioni in cui il morente si sente realmente solo, quando percepisce di non rivestire più alcuna importanza per le persone che lo circondano.

In una prospettiva comunitaria, invece, l’individuo coltiva e sperimenta l’indisponibilità della propria vita e della propria morte, indisponibilità riferita «al fatto (indiscutibile) che il nostro io dipende sempre e comunque da un altro da noi e che sempre e comunque ha responsabilità verso altri alle quali non può unilateralmente sottrarsi» [6]. E ciò senza dimenticare che la vicinanza del prossimo, garantendo un’esperienza di relazionalità e di condivisione, tiene al riparo dalla solitudine e dal timore di essere mal sopportati nelle situazioni di massima e prolungata vulnerabilità. Purtroppo la dimensione comunitaria può essere soffocata nella pratica a motivo di necessità e modalità assistenziali, di malattie croniche o particolarmente gravi; parenti, amici e conoscenti, seppure coinvolti nella sofferenza dell’altro, non riescono a condividerla. «Di qui un involontario abbandono, una separazione in certo senso obbligata… In fondo chi è morto era divenuto assente già prima di morire. Tutto ciò non passa per negazioni forti, ma è pervasivo, soft» [7]. Le competenze tecniche annullano le attese esistenziali e neutralizzano i desideri di adempiere i doveri parentali ed amicali. Assecondare la richiesta eutanasica, favorire il proposito suicida, praticare l’eutanasia di un malato non consenziente, per esempio in stato comatoso, comporta con gradazioni diverse, proprio la rottura di tale relazionalità coesistenziale, resa più facile dall’affievolirsi di una vera comunicazione interpersonale. Fare i conti con la propria vulnerabilità, sapersi mortali, significa sapersi bisognosi, relazionali, costitutivamente uniti agli altri da vincoli che, anche volendo, non potremo mai rescindere: «ecco perché la vita umana, anche quella [...] sprofondata negli abissi di un coma non reversibile non può mai perdere di dignità; perché resta sempre vita accanto a vite, fonte donatrice di significati, anche quando non ne sia più percettrice» [8].


[1] Cfr. P. ARIES, Storia della morte in occidente dal medioevo ai nostri giorni, Rizzoli, Milano 1989, pp. 187ss.
[2] Cfr. S. NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1997, p. 81.
[3] Cfr. P. CATTORINI, La morte offesa, EDB, Bologna 1996, p. 6.
[4] Cfr. H.G. GADAMER, Dove si nasconde la salute, R. Cortina, Milano 1994, p. 70.
[5] Cfr. S. NATOLI, Dizionario dei Vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1997, cfr. p. 84.
[6] Cfr. F. D'AGOSTINO, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1998, p. 177.
[7] Cfr. S. NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1997, p. 84.
[8] Cfr. F. D'AGOSTINO, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1998, p. 179.

   

M. Peláez, Morte, in Dizionario interdisciplinare di scienza e fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 1020-1021.