Oratio de hominis dignitate

Pico della Mirandola
1485-1486

Tra i testi più rappresentativi dell’Umanesimo, l’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola ci consegna un’immagine dell’uomo in cui confluiscono elementi tratti dalla tradizione ebraico-cristiana e concezioni provenienti dalla cultura classica, greco-romana. L’essere umano, vertice della creazione, è collocato da Dio «al centro del mondo», in posizione mediana, affinché con la propria libertà possa determinare sé stesso e la propria natura. Dio ripone la sua fiducia nella volontà e nelle capacità dell’uomo, correndo anche il rischio che questi possa «degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti» ma allo stesso tempo lasciando spazio alla sua libera iniziativa, affinché possa «essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine». Se Aristotele, nella Politica, sostiene che chi non è in grado di vivere in una comunità civile – il luogo proprio dell’uomo inteso come «animale politico» – «è una bestia o un dio», in questo passo Pico della Mirandola sostiene invece che l’uomo è per sua stessa natura un essere in grado di plasmare sé stesso, e dunque aperto alla possibilità di scadere alla vita puramente animale o di innalzarsi alla vita divina.

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Pico della Mirandola (24 febbraio 1463 – 17 novembre 1494)

Già Dio, sommo Padre e architetto, aveva fabbricato con arte, secondo le leggi della sua arcana sapienza, questa dimora mondana che vediamo, augustissimo tempio della divinità. Aveva adornato con le intelligenze angeliche la regione iperurania; aveva animato le sfere celesti con gli spiriti beati; aveva popolato queste parti sozze e fangose del mondo inferiore con una multiforme turba di animali. Ma, una volta compiuta l'opera, l'artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di intendere il senso di una creazione così magnifica, di amarne la bellezza, di ammirarne la grandezza. Per questo, dopo aver ormai (come attestano Mosè e Timeo) portato a termine tutte le cose, meditò infine di creare l`uomo. Ma non c’era tra i modelli uno sul quale esemplare la nuova stirpe, non ci era negli scrigni qualcosa da donare in eredità alla nuova creatura, non c'era tra i seggi di tutto il mondo uno sul quale potesse trovare posto codesto contemplatore dell'universo. Tutti erano ormai occupati; tutti erano stati assegnati, ai gradi sommi, ai mezzani e agli infimi. Ma non sarebbe stato degno della potenza del Padre venir meno, quasi sfinita, nel suo estremo parto; non della sua Sapienza esitare per pochezza d’ingegno di fronte a un'opera necessaria; non del suo benefico Amore, che colui che avrebbe dovuto lodare nelle altre cose la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in ciò che lo riguardava. L'ottimo artefice stabilì infine che a colui al quale nulla poteva esser dato di proprio fosse comune tutto quanto era stato concesso di particolare alle singole creature. Prese dunque l'uomo, questa creatura di aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato nel centro del mondo, così gli si rivolse: «O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. La natura ben definita assegnata agli altri esseri è racchiusa entro leggi da noi fissate. Tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo perché da lì tu potessi meglio osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine».

Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. Bausi, Fondazione Pietro Bembo - Ugo Guanda editore, Parma 2003, pp. 7-11.