28. Al Vangelo della sofferenza appartiene anche – ed in modo organico – la parabola del buon Samaritano. Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: «chi è il mio prossimo?» [1]. Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a Gerico, dove giaceva per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai briganti, proprio il Samaritano dimostrò di essere davvero il «prossimo» per quell'infelice: «prossimo» significa anche colui che adempì il comandamento dell'amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la stessa strada: uno era sacerdote, e l'altro levita, ma ciascuno « lo vide e passò oltre». Invece, il Samaritano «lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, ... gli fasciò le ferite», poi «lo portò a una locanda e si prese cura di lui» [2]. Ed all'atto di partire, affidò sollecitamente la cura dell'uomo sofferente all'albergatore, impegnandosi a sostenere le spese occorrenti.
La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito «passare oltre» con indifferenza, ma dobbiamo «fermarci» accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Questa è come l'aprirsi di una certa interiore disposizione del cuore, che ha anche la sua espressione emotiva. Buon Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui, l'uomo che «si commuove» per la disgrazia del prossimo. Se Cristo, conoscitore dell'interno dell'uomo, sottolinea questa commozione, vuol dire che essa è importante per tutto il nostro atteggiamento di fronte alla sofferenza altrui. Bisogna, dunque, coltivare in sé questa sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa compassione rimane l'unica o principale espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l'uomo sofferente.
Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all'uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può dire che dà se stesso, il suo proprio «io», aprendo quest'«io» all'altro. Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l'antropologia cristiana. L'uomo non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» [3]. Buon Samaritano è l'uomo capace appunto di tale dono di sé.
29. Seguendo la parabola evangelica, si potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell'uomo l'amore, proprio quel dono disinteressato del proprio «io» in favore degli altri uomini, degli uomini sofferenti. Il mondo dell'umana sofferenza invoca, per così dire, senza sosta un altro mondo: quello dell'amore umano; e quell'amore disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l'uomo lo deve in un certo senso alla sofferenza. Non può l'uomo «prossimo» passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui in nome della fondamentale solidarietà umana, né tanto meno in nome dell'amore del prossimo. Egli deve «fermarsi», «commuoversi», agendo così come il Samaritano della parabola evangelica. La parabola in sé esprime una verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai universalmente umana. Non senza ragione anche nel linguaggio comune viene chiamata opera «da buon samaritano» ogni attività in favore degli uomini sofferenti e bisognosi di aiuto.
Quest'attività assume, nel corso dei secoli, forme istituzionali organizzate e costituisce un campo di lavoro nelle rispettive professioni. Quanto è «da buon samaritano» la professione del medico, o dell'infermiera, o altre simili! In ragione del contenuto «evangelico», racchiuso in essa, siamo inclini a pensare qui piuttosto ad una vocazione, che non semplicemente ad una professione. E le istituzioni che, nell'arco delle generazioni, hanno compiuto un servizio «da samaritano», ai nostri tempi si sono ancora maggiormente sviluppate e specializzate. Ciò prova indubbiamente che l'uomo di oggi si ferma con sempre maggiore attenzione e perspicacia accanto alle sofferenze del prossimo, cerca di comprenderle e di prevenirle sempre più esattamente. Egli possiede anche una sempre maggiore capacità e specializzazione in questo settore. Guardando a tutto questo, possiamo dire che la parabola del Samaritano del Vangelo è diventata una delle componenti essenziali della cultura morale e della civiltà universalmente umana. E pensando a tutti quegli uomini, che con la loro scienza e la loro capacità rendono molteplici servizi al prossimo sofferente, non possiamo esimerci dal rivolgere al loro indirizzo parole di riconoscimento e di gratitudine.
Queste si estendono a tutti coloro, che svolgono il proprio servizio verso il prossimo sofferente in maniera disinteressata, impegnandosi volontariamente nell'aiuto «da buon samaritano», e destinando a tale causa tutto il tempo e le forze che rimangono a loro disposizione al di fuori del lavoro professionale. Una tale spontanea attività «da buon samaritano» o caritativa può essere chiamata attività sociale, può anche essere definita come apostolato, tutte le volte che viene intrapresa per motivi schiettamente evangelici, specialmente se ciò avviene in collegamento con la Chiesa o con un'altra Comunità cristiana. La volontaria attività «da buon samaritano» si realizza attraverso ambienti adeguati oppure attraverso organizzazioni create a questo scopo. L'operare in questa forma ha una grande importanza, specialmente se si tratta di assumere compiti più grandi, che esigono la cooperazione e l'uso dei mezzi tecnici. Non meno preziosa è anche l'attività individuale, specialmente da parte delle persone, che sono ad essa meglio predisposte riguardo alle varie specie di umana sofferenza, verso le quali l'aiuto non può essere portato che individualmente e personalmente. L'aiuto familiare poi significa sia gli atti d'amore del prossimo, resi alle persone appartenenti alla stessa famiglia, sia l'aiuto reciproco tra le famiglie.
E' difficile elencare qui tutti i tipi ed i diversi ambiti dell'attività «da samaritano» che esistono nella Chiesa e nella società. Bisogna riconoscere che essi sono molto numerosi, ed anche esprimere la gioia perché grazie ad essi i fondamentali valori morali, quali il valore dell'umana solidarietà, il valore dell'amore cristiano del prossimo, formano il quadro della vita sociale e dei rapporti interumani, combattendo su questo fronte le diverse forme dell'odio, della violenza, della crudeltà, del disprezzo per l'uomo, oppure della semplice «insensibilità», cioè dell'indifferenza verso il prossimo e le sue sofferenze.
Enorme è qui il significato degli atteggiamenti opportuni da usare nell'educazione. La famiglia, la scuola, le altre istituzioni educative, anche solo per motivi umanitari, devono lavorare con perseveranza per il risveglio e l'affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del Samaritano evangelico. La Chiesa ovviamente deve far lo stesso, addentrandosi ancora più profondamente – in quanto possibile – nelle motivazioni che Cristo ha racchiuso nella sua parabola ed in tutto il Vangelo. L'eloquenza della parabola del buon Samaritano, come anche di tutto il Vangelo, è in particolare questa: l'uomo deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l'amore nella sofferenza. Le istituzioni sono molto importanti ed indispensabili; tuttavia, nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla sofferenza dell'altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima.
30. La parabola del buon Samaritano, che – come si è detto – appartiene al Vangelo della sofferenza, cammina insieme con esso lungo la storia della Chiesa e del cristianesimo, lungo la storia dell'uomo e dell'umanità. Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il programma messianico della sua missione, secondo le parole del profeta: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» [4]. Cristo compie in modo sovrabbondante questo programma messianico della sua missione: egli passa «beneficando» [5], ed il bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all'umana sofferenza. La parabola del buon Samaritano è in profonda armonia col comportamento di Cristo stesso.
Questa parabola entrerà, infine, per il suo contenuto essenziale, in quelle sconvolgenti parole sul giudizio finale, che Matteo ha annotato nel suo Vangelo: «Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» [6]. Ai giusti che chiedono quando mai abbiano fatta proprio a lui tutto questo, il Figlio dell'Uomo risponderà: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» [7]. La sentenza opposta toccherà a coloro che si sono comportati diversamente: «Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me» [8].
Si potrebbe certamente allungare l'elenco delle sofferenze che hanno incontrato la sensibilità umana, la compassione, l'aiuto, oppure che non le hanno incontrate. La prima e la seconda parte della dichiarazione di Cristo sul giudizio finale indicano senza ambiguità come siano essenziali, nella prospettiva della vita eterna di ogni uomo, il «fermarsi», come fece il buon Samaritano, accanto alla sofferenza del suo prossimo, l'aver «compassione» di essa, ed infine il dare aiuto. Nel programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del Regno di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella «civiltà dell'amore». In questo amore il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e raggiunge la sua dimensione definitiva. Le parole di Cristo sul giudizio finale permettono di comprendere ciò in tutta la semplicità e perspicacia del Vangelo.
Queste parole sull'amore, sugli atti di amore, collegati con l'umana sofferenza, ci permettono ancora una volta di scoprire, alla base di tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di Cristo. Cristo dice: «L'avete fatto a me». Egli stesso è colui che in ognuno sperimenta l'amore; egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso ad ogni sofferente senza eccezione. Egli stesso è presente in questo sofferente, poiché la sua sofferenza salvifica è stata aperta una volta per sempre ad ogni sofferenza umana. E tutti coloro che soffrono sono stati chiamati una volta per sempre a diventare partecipi «delle sofferenze di Cristo» [9]. Così come tutti sono stati chiamati a «completare» con la propria sofferenza « quello che manca ai patimenti di Cristo» [10]. Cristo allo stesso tempo ha insegnato all'uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza.
31. Questo è il senso veramente soprannaturale ed insieme umano della sofferenza. E'soprannaturale, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l'uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione.
La sofferenza certamente appartiene al mistero dell'uomo. Forse essa non è avvolta quanto lui da questo mistero, che è particolarmente impenetrabile. Il Concilio Vaticano II ha espresso questa verità che «in realtà, solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Infatti..., Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» [11]. Se queste parole si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell'uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all'umana sofferenza. Proprio in questo punto lo «svelare l'uomo all'uomo e fargli nota la sua altissima vocazione» è particolarmente indispensabile. Succede anche – come prova l'esperienza – che ciò sia particolarmente drammatico. Quando però si compie fino in fondo e diventa luce della vita umana, ciò è anche particolarmente beato. «Per Cristo e in Cristo si illumina l'enigma del dolore e della morte» [12].
[1] Lc. 10, 29
[2] Lc. 10, 33-34
[3] Gaudium et Spes, 24
[4] Lc. 4, 18-19; cfr. Is. 61, 1-2
[5] Att. 10, 38
[6] Mt. 25, 34-36
[7] Mt. 25, 40
[8] Mt. 25, 45
[9] 1Pt. 4, 13
[10] Col. 1, 24
[11] Gaudium et Spes, 22
[12] Gaudium et Spes, 22
Estratti dalla Lettera di Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 11 febbraio 1984, nn. 28-31.
L'opera riprodotta nella fotografia è stata realizzata dall’Atelier d’Arte e Architettura del Centro Aletti (www.centroaletti.com).