La comparsa del sacro nel cammino evolutivo dell’essere umano

Giuseppe Tanzella-Nitti
2018

Ricostruire il cammino religioso dell’umanità non è cosa agevole. Nella categoria di “religione” possono rientrare infatti molti elementi e molti comportamenti, spesso classificati e interpretati secondo un’ermeneutica che è l’uomo contemporaneo ad assegnare. I reperti e le testimonianze che giungono dal Paleolitico sono necessariamente limitati; solo a partire dalla sua ultima fase, il cosiddetto Paleolitico superiore (da 35.000 a 10.000 anni fa), siamo in grado di ricostruire, con buona confidenza, comportamenti rituali, organizzazione sociale, espressioni artistiche. Tuttavia, alcuni pochi reperti provenienti da epoche assai più lontane forniscono anch’essi informazioni importanti, che vanno interpretate e qualificate antropologicamente. Ci riferiamo a testimonianze di pensiero astratto o estetico, attestate da strumenti e oggetti usati dalle prime forme umane almeno un milione e mezzo di anni fa, e dunque assai prima della comparsa di Homo sapiens. Va inoltre considerato un elemento arcaico che, sebbene non abbia lasciato reperti, è certamente entrato in rapporto con il senso religioso. Ci riferiamo alla capacità dell’essere umano, unica in tutto il panorama delle specie animali del pianeta, di osservare la volta celeste. L’osservazione dei fenomeni celesti, del sorgere e tramontare del sole e della luna, delle periodiche configurazioni dei pianeti e del cielo stellato, possibile una volta assunta la posizione eretta, diviene senza dubbio parte della vita di Homo habilis e poi di Homo erectus, almeno un paio di milioni di anni fa. Non è difficile immaginare la trama di significati che questa esperienza innesta, incluso il suo possibile progressivo dialogo con l’affiorare della coscienza individuale nella nostra specie. Uno dei maggiori storici e fenomenologi delle religioni, Mircea Eliade, attribuisce alla volta celeste un ruolo determinante nella percezione della trascendenza, di cui il cielo è simbolo, aprendo successivamente la strada alla formulazione di un pensiero religioso ove l’esperienza del sacro non resta catturata dalla frammentazione e diversificazione delle forze naturali, ma si dirige con decisione verso un’esperienza di carattere ontologico, entro cui trova spazio il riferimento arcaico all’Essere Supremo.

   

L'uomo e il senso religioso

Non siamo in grado di affermare quando si sia svegliata la coscienza personale dell’uomo, né quando sia comparsa una coscienza religiosa strettamente intesa, due segni che qualificano l’essere umano in quanto umano, certamente assai più dello scheggiare pietre e costruire primitive armi per cacciare grossi mammiferi. Non va poi trascurato quanto, nella comparsa della coscienza umana, sia legato all’amore e al sacrificio, alla valorizzazione delle relazioni coniugali e parentali, all’importanza dei rapporti comunitari non semplicemente istintivi. Non è compito della teologia stabilire la collocazione storica di questi momenti, ma mettere in rapporto i dati che le giungono dalle diverse discipline con i contenuti essenziali del messaggio biblico, cosa che, come abbiamo visto, non inficia la credibilità di quest’ultimo ma obbliga a formulare delle ipotesi di lavoro. In modo analogo, non è compito della teologia stabilire quando sia comparsa l’esperienza religiosa nel cammino evolutivo umano, ma solo comprendere come questa esperienza sia conforme alla nostra condizione di soggetti personali di fronte a Dio creatore, creati a Sua immagine e somiglianza, resi capaci di ascoltare la Sua parola. Per la teologia come per le scienze, il cammino dell’uomo sulla terra è una fonte inesauribile di sorprese. Se la prima resta meravigliata dai lunghissimi tempi richiesti affinché la specie umana maturasse lentamente una fenomenologia psichica e un comportamento che qualifichiamo religioso, le seconde restano altrettanto sorprese dal fatto che un primate dalle abitudini arboree, sceso sul suolo appena qualche milione di anni fa, sia l’unica specie biologica che innalzi templi ad un Creatore del cielo e della terra, mentre molte altre specie animali, nonostante gli altrettanto lunghi tempi a disposizione, non hanno mostrato passi evolutivi significativi in tal senso. È l’unicità di questo Believing Primate che ci interroga. Ci interrogano il suo prodigioso progresso scientifico-culturale, ma anche la profondità dei suoi interrogativi morali e spirituali [1].

Lo studio della comparsa del senso religioso suggerisce di distinguere diversi ambiti concettuali, a ciascuno dei quali corrispondono testimonianze specifiche, più o meno circoscritte, e una certa distensione storica. Gli esemplari di Homo sapiens (ma anche altre forme umane, in misura minore e per tempi limitati alla loro presenza sul pianeta) ci consegnano in modo progressivo: manifestazioni arcaiche di senso estetico attraverso utensili e oggetti; un’esperienza del sacro testimoniata da sepolture e arte parietale; atti propri della religiosità, che si esprimono attraverso attività rituali e la comparsa di miti; e infine certe rappresentazioni della divinità, quale alterità (personale o impersonale) verso la quale il senso religioso si dirige e dal quale trae significato. Queste ultime comprendono un lungo itinerario storico: conosciamo concettualizzazioni arcaiche dell’Essere supremo nelle forme di monoteismo primitivo; assistiamo a diverse forme di politeismo che convivono o meno con la credenza in un Essere superiore; constatiamo il progressivo arricchimento di elementi filosofici che pongono il sentimento religioso in relazione con una nozione di Dio, e quindi con un discorso riflessivo sull’Assoluto che parte dall’esperienza del cosmo e della propria coscienza. Gli atti religiosi implicano già una dimensione sociale della visione sacrale: i più antichi ci giungono essenzialmente nel contesto delle sepolture rituali e manifestano la credenza in una vita ultraterrena, che potrebbe in alcuni casi includere anche una primitiva idea di remunerazione o di castigo. L’idea di Dio, invece, necessita di forme culturali più articolate per venire esplicitata: è il divino che si invoca per accompagnare i passi essenziali della vita umana, dalla nascita fino alla morte; è la Causa che presiede i fenomeni della natura e li dispensa a suo piacimento; è l’Assoluto (Essere Supremo) al quale il senso religioso si dirige come Onnipotenza su tutto il reale e verso il quale l’uomo esprime un fondamentale sentimento di dipendenza. Sono queste le esperienze antropologiche essenziali sulle quali, all’epoca delle grandi culture indo-europee, il pensiero umano comincerà progressivamente a riflettere associandovi una nozione filosofico-religiosa di Dio e ponendola in rapporto con attributi già tematizzati in epoche più arcaiche: Altro dall’uomo (trascendenza), Fondamento dell’essere e del divenire del mondo (onnipotenza), risposta alle domande cosmologiche ed esistenziali circa l’origine e il senso della vita umana e dell’intera realtà (onniscienza).

Lo studio delle origini, certamente utile per determinare cosa sia il senso religioso, non deve però tradursi in criterio risolutivo. Non è l’antichità a dover dare ragione della verità o dell’essenza del fenomeno religioso, ma la sua intera e continua presenza storica, comprese le sue manifestazioni nell’uomo contemporaneo che abita una civiltà scientifica e tecnologica. Sarebbe un equivoco voler confondere l’originario con l’originale, il prius storico con il principium ontologico, il cronologicamente anteriore con il nucleo metafisico fondamentale. Lo studio delle modalità primordiali in cui si è incarnata la religiosità umana, da solo, non può farci comprendere quale sia l’espressione più matura ed autentica della fede in Dio [2]. Non chiediamo alla storia delle origini umane cosa sia la religione e quali siano i suoi rapporti con un’eventuale rivelazione divina; ascoltiamo invece le origini per inserirle nel fenomeno umano integralmente inteso e nella distensione storica dei rapporti fra l’uomo e Dio. È così che la storia può svolgere la sua funzione migliore: mostrarci le caratteristiche del seme e dirci cosa appartenga al ceppo, a noi che oggi siamo di fronte ad un albero dai rami assai diversificati, eppure vivificati dalla medesima linfa e sostenuti dalla stessa radice.

   

Le prime testimonianze dell'esperienza del sacro

Se le forme umane del Paleolitico inferiore sono già in grado di produrre testimonianze che fanno pensare ad un pensiero estetico, forse simbolico (circa 1,5 milioni di anni fa), quelle del Paleolitico medio e superiore (a partire da circa 100.000 anni fa) ospitano l’espressione di un senso sacrale-religioso, più evidente nel procedere verso il Mesolitico e il Neolitico, ed ormai esplicito e strutturato alle porte delle grandi civiltà del Mediterraneo e della Mesopotamia (4.000 a.C.) [3].

Ad essere posto in relazione con il senso religioso è, ragionevolmente, il comportamento umano di fronte alla morte. Le sepolture più antiche che conosciamo sono attualmente quelle ritrovate nelle grotte di Qafzeh, risalenti a 90.000 anni fa, e di Skuhl, datate 60.000 anni fa, entrambe in Palestina.


Sepoltura dell’individuo detto “Qafzeh 11” (un adolescente di circa 13 anni) sepolto con un grosso palco di cervo tra le mani.

Riguardano, rispettivamente, 16 e 10 individui, alcuni dei quali collocati in posizione fetale. Del corredo funerario fanno parte strumenti e utensili, corna di cervo e uova di anatra. La presenza di cornature si registra anche in altre sepolture: potrebbero essere trofei di caccia ma anche simboli di rinascita, avendo esse la particolarità, nei cervidi, di rigenerarsi. Risalgono a circa 60.000 anni fa anche le sepolture della grotta di Kebara in Israele, sulle pendici del Monte Carmelo, probabilmente occupata da insediamenti di Neanderthal, una forma umana i cui rituali funerari sono ben testimoniati in Europa. Il corredo funerario delle sepolture di Homo sapiens e di Homo neanderthalensis comprende conchiglie, bastoni di comando, oggetti a lavorazione estetica. Significativo, in particolare, l’impiego dell’ocra rossa, un pigmento estratto da materiale terroso contenente ossido di ferro, che già 50.000 anni fa veniva applicato sulle ossa dei defunti e posto accanto alle sepolture, richiamando molto probabilmente il colore del sangue, simbolo della vita. Proprio a motivo del lungo lavoro di preparazione necessario per ottenere questo pigmento, si ritiene che attorno alle sepolture avesse luogo un vero e proprio rituale funerario. Al defunto si riservano attenzione, cura, pietà, come testimoniato, in alcuni casi, da un letto di fiori su cui viene poggiata la salma. Già nel Paleolitico vi sono elementi che fanno pensare alla presenza di cibo accanto al defunto (contenitori specifici e, in alcuni casi, resti di piccoli animali). Le posizioni degli scheletri inumati variano da sito a sito, ma sono frequenti orientamenti secondo punti cardinali e posture specifiche. I rituali funebri del Paleolitico medio, fino a circa 35.000 anni fa, mostrano caratteri somiglianti in Asia minore e in Europa. Se non vi fossero associati gli elementi appena richiamati, che fanno pensare a sentimenti di pietà e, in alcuni casi, ad una speranza di vita oltre la morte, le sepolture di resti umani non indicherebbero, di per sé, un riferimento sacrale, in quanto la pratica della sepoltura dei cadaveri poteva essere dettata anche da altre finalità. Ma l’uomo del Paleolitico non si limita ad interrare cadaveri: ha cura di loro, esprime sentimenti, manifesta speranze.

Deduciamo nuovi elementi di carattere sacrale dall’arte parietale, testimoniata dall’inizio del Paleolitico superiore (35.000 anni fa), che interessa certamente Homo sapiens ma non pare associata agli insediamenti del Neanderthalensis, nei quali ritroviamo invece solo oggetti ornamentali.


La “Parete dei Cavalli” nella grotta di Chauvet, Francia, datata a circa 30.000 anni fa (foto di C. Valette).

Le grotte decorate si estendono dai monti Urali all’oceano Atlantico, anche se le rappresentazioni artistiche più sofisticate sembrano limitate, in questo periodo, ai siti di Francia, Spagna e Italia. Frequenti le figure zoomorfe e le scene di caccia, i cui elementi non hanno un significato puramente descrittivo, ma farebbero piuttosto pensare ad un valore propiziatorio e simbolico (mitogrammi). Le figure non riguardano solo animali utili all’uomo o prede abituali, ma ripropongono anche specie dal possibile valore allegorico, come il toro, il lupo e l’orso. Frequente un simbolismo legato alla coppia cavallo-bisonte, probabilmente parte del pensiero duale-bipolare che sembra aver dominato buona parte delle rappresentazioni artistiche parietali di Homo sapiens fino al Neolitico, intento ad esaltare quasi in modo epico i confronti fra giorno e notte, luce e tenebre, uomo e donna, movimento e riposo, vita e morte.

Per l’uomo dedito alla caccia e non ancora insediato nei villaggi né capace di coltivare la terra – comportamenti che compariranno solo dopo l’ultimo grande disgelo attorno al 10.000 a.C. – sono le grotte il luogo della vita comunitaria, della graduale trasmissione delle tradizioni e dunque anche delle forme rituali e cultuali. Fra le più note e importanti, quelle di Altamira (Spagna), Lascaux, Les Combarelles, Les Trois Frères, Rouffignac e Lagerie-Haute (Francia).

Pareti con testimonianze artistiche sono presenti a Laussel, Cap Blanc e Fourneau-des-Diables (Francia) in corrispondenza di grotte aperte all’esterno. La particolare disposizione di oggetti e resti umani all’interno delle grotte fa pensare a un impiego di questi luoghi come luoghi sacri. A El-Juyo, nella Spagna cantabrica, al centro di una grotta allestita come sala rituale, è stato scoperto il primo altare della storia, datato circa 14.000 anni fa, recante un volto composito, antropomorfo e animale. Fra 20.000 e 15.000 anni fa Homo sapiens lascia testimonianze artistiche in praticamente tutte le zone del pianeta (Eurasia, Africa, Oceania, America del Nord). La tipologia delle rappresentazioni (elementi disposti in modo simbolico e non strettamente realista) e i luoghi ove sono collocate (ingresso delle grotte, stanze assai interne, difficilmente raggiungibili), fanno pensare ad un linguaggio che non si limita a descrivere dei fatti, ma ne offre una lettura legata a significati di ordine esistenziale.


Esempio di arte rupestre della grotta di Lascaux, in Francia, risalente a circa 17.000 anni fa. Il sito offre oltre 600 dipinti parietali.

L’arte parietale esalta il rapporto uomo-animale, ma sono presenti anche elementi uranici, fra cui la riproduzione dell’arcobaleno. Le rappresentazioni del rapporto fra uomo e animale sembrano indicare il desiderio di trasferire nel primo la forza che si vede presente nel secondo: l’uomo si ciba di specifici animali all’interno di riti propiziatori. Le rappresentazioni sacrali-artistiche ci hanno lasciato anche statuette dal linguaggio significativo, come la celebre Venere di Willendorf, datata 20.000-25.000 anni fa, che rappresenta una figura femminile della quale si esaltano i valori della sessualità e della fecondità generativa.

Dopo la svolta dell’epoca neolitica, quando al termine dell’ultima grande glaciazione cambiano le condizioni territoriali e climatiche, e le lunghe battute di caccia ai grossi mammiferi vengono sostituite dalla cattura di piccoli animali e dalla raccolta di frutti, Homo sapiens passa dalla vita nelle grotte alla vita sedentaria in villaggi organizzati. In questo contesto prende forma il riferimento sacrale a un personaggio femminile, una probabile dea-madre, alla quale si associano i caratteri della riproduzione e della maternità, forse a motivo del fatto che la nuova organizzazione sociale sedentaria favoriva adesso la consapevolezza dei legami familiari, l’intensità del rapporto parentale e la crescita della prole. Riprende però vigore e si diffonde anche la figura del toro. Solo dall’8.000 a.C. in avanti, a partire dall’affermazione stabile dell’agricoltura – la cui introduzione e parziale impiego non fu uniforme nelle aree occupate dall’uomo – si assiste ad un decisivo orientamento, in tutta l’area del Mediterraneo e del vicino e medio Oriente, verso nuove forme cultuali legate alla fertilità del suolo. Con l’instaurazione delle prime civiltà agricole nascono i miti stagionali, si sviluppano le dimensioni religiose legate agli elementi uranici che regolano lo scorrere del tempo e i suoi fenomeni periodici. Qui affondano le loro radici i culti e i riti che si diffonderanno nei millenni successivi e porranno al centro la semina e il raccolto, il sole e la pioggia, l’avvicendarsi delle stagioni, il periodico riapparire dei corpi celesti.


Il Dolmen di Poulnabrone, Irlanda, risalente al neolitico (ca. 4.000 anni fa) e usato anche nell'Età del Bronzo come luogo rituale e di sepoltura.

In questa medesima epoca le testimonianze archeologiche mostrano la moltiplicazione dei santuari e dei siti di culto, mentre le statuette e le figurine religiose ritrovate nelle case, nei giardini, nelle tombe, si contano ormai a migliaia. Il riferimento alla divinità sembra progressivamente cristallizzarsi in immagini di animali, dal chiaro simbolismo sovra-naturale. Le sepolture divengono principalmente collettive e i segni di credenza in una vita ultraterrena sono ormai espliciti, sia nelle espressioni artistiche che arricchiscono le sepolture, sia negli oggetti che le accompagnano. Nel 5.000 a.C. circa, l’arte rupestre del Neolitico ci offrirà, nei disegni di Hoggar (Algeria) e della Val Camonica (Italia) figure di oranti con le mani alzate verso il cielo, girate verso il sole. Molte delle scene rituali negli affreschi di Catal Hüyük (Turchia) attendono ancora una decifrazione. A partire dal 4.000 a.C. il fenomeno religioso cessa di essere rappresentato sulla pietra e negli oggetti e si trasforma in discorso scritto, narrazione, legge, raccogliendo le tradizioni orali che già da alcune migliaia di anni certamente accompagnavano l’uomo e la sua vita comunitaria. La civiltà Sumera fissa le sue credenze e le sue leggi su tavolette. Nell’area mediterranea e mesopotamica esplode il politeismo, caratterizzato da un’enorme quantità di dèi, di figure protettrici e propiziatrici. La rappresentazione delle divinità diviene sempre più antropomorfa, le figure di animali si fondono con quelle umane. Le autorità delle comunità e dei popoli vengono investite di una dignità divina. Nascono le classi sacerdotali organizzate e le figure di mediazione fra il mondo del divino e quello umano, i cui ruoli sono essenzialmente orientati all’arte del vaticinio nelle sue diverse forme. Il IV millennio precedente l’era cristiana vedrà così la nascita di grandi religioni strutturate, fra i Sumeri e a Babilonia, in Mesopotamia e in Egitto, nel vicino Oriente e in India. Il culto degli dèi entra nelle città: ad essi si dedicano non solo più templi isolati, ma anche palazzi e monumenti. Gli dèi vengono ad abitare fra gli uomini, accompagnano la vita quotidiana, parlano mediante oracoli, veggenti, profeti. La pratica religiosa struttura progressivamente la vita sociale e politica, fino a non distinguersi più da essa. Si organizzano i calendari, le feste, le ricorrenze. La solidità della scrittura e la facilità della sua trasmissione sono poste al servizio della stabilità e dell’insegnamento della legge, la cui autorità è vista discendere dalla volontà divina, di cui re e governanti sono strumenti.

   

Il rapporto fra homo symbolicus e homo religiosus

È in questo contesto storico e culturale che il popolo di Israele acquisterà consapevolezza della propria esperienza religiosa e, ormai verso il termine del II millennio prima di Cristo, la metterà per iscritto, custodendola e trasmettendola nel vissuto delle sue tradizioni. La religione di questo popolo, tuttavia, non si comprenderebbe senza il lungo cammino dell’homo religiosus, costituito da riti, testimonianze e narrazioni che hanno preceduto quegli eventi fondativi vivendo i quali Israele si è persuaso di poter ascoltare la parola viva di Jahvè, dell’unico Dio che ha creato il cielo e la terra. Ed è ancora grazie al cammino culturale e religioso dell’umanità che può comprendersi cosa, nel popolo e nella fede di Israele, sembra distaccarsi dagli itinerari dell’umana ricerca di Dio, dalle concettualizzazioni della divinità, dai modi di rapportarsi con il mistero. Il rapporto fra il percorso religioso dell’umanità e i contenuti della Rivelazione ebraico-cristiana riproduce in sé, in modo paradigmatico, i canoni di un rapporto fra natura e grazia; la capacità dell’uomo di riconoscere i segni del divino e le sue ierofanie, giunge a confrontarsi con il segno e la ierofania per eccellenza, con la fede cristiana in Dio che si è fatto uomo e ha piantato la sua tenda in mezzo a noi (cf. Gv 1,14).

A giudicare dall’analisi storico-fenomenologica prima accennata, i fenomeni del senso religioso umano sono troppo diversificati per poter tracciare, a partire dai dati empirici, un itinerario comune. Tuttavia, le esperienze del sacro manifestano una chiara “parentela di fondo”, sebbene da tale parentela non si possa ricostruire un chiaro “albero genealogico”. La diversità, però, non genera contraddizione. I dati a disposizione, infatti, ci fanno ragionevolmente concludere che il senso religioso – qui provvisoriamente inteso come il comportamento con cui l’uomo risponde alla percezione del sacro, ovvero di qualcosa o qualcuno da cui la propria vita dipende oltre le proprie forze – riguarda un’esperienza costante e condivisa, coestensiva al fenomeno umano. Nel quadro dello studio delle nostre origini, l’uomo a-religioso sembra piuttosto un’astrazione: per essere a-religioso, l’uomo primitivo avrebbe dovuto dubitare della realtà del mondo e di quella della propria esistenza.


Una ascia Acheulana probabilmente di 250.000 anni fa, ritrovata nel sito di West Tofts, Norfolk, Regno Unito, che mostra un motivo decorativo al centro.

Lo storico delle religioni che, in tempi recenti, ha messo maggiormente in luce la coestensività fra fenomeno umano e fenomeno religioso è stato probabilmente Mircea Eliade (1907-1986). Responsabile di aver fondato un metodo di indagine squisitamente empirico e fenomenologico – e per questo meno legato a pre-comprensioni di scuola o a condizionamenti ideologici (non inconsueti in temi che coinvolgono l’origine della religione) – Eliade ha potuto giovarsi della frequentazione culturale di intellettuali come Georges Dumézil e Paul Ricoeur, integrando e valorizzando gli studi di storia e di filosofia della religione condotti negli anni precedenti da R. Otto, W. Schmidt, R. Pettazzoni, G. van der Leeuw. Egli giunge alla conclusione che «il “sacro” è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza» [4]. Il senso religioso si presenta come un fenomeno “irriducibile”, che non può essere risolto o scomposto partendo da esperienze diverse mediante giustificazioni deduttive. Come vedremo, Eliade pone in rilievo la dimensione di alterità collegata all’esperienza del sacro, sia perché espressiva del rapporto dell’uomo con la realtà del mondo che lo circonda, sia perché del sacro l’uomo “soffre” le manifestazioni, le ierofanie, che può concettualizzare grazie a forme di pensiero simbolico. L’homo religiosus crede che esista una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo, ma si rende presente in esso proprio mediante ierofanie e, attraverso di queste, santifica il mondo e lo rende reale agli occhi dell’uomo. Grazie a ciò, sostiene Eliade, «l’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo fatto dall’uomo per costruire un mondo che abbia un senso» [5]. Julien Ries, che ha avuto il merito di valorizzare e divulgare al grande pubblico gli studi di Eliade, osservava schiettamente: «la storia delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus è l’uomo normale dell’umanità» [6]. Coloro che, in ambito paleoantropologico, lavorano con i reperti sul campo, come Y. Coppens, F. Facchini o P. Tobias, giungono alle medesime conclusioni: «L’emergenza dell’homo religiosus – affermava Fiorenzo Facchini – non è un evento tardivo della preistoria. Il senso del sacro appare piuttosto una dimensione costitutiva dell’essere umano nel suo atteggiamento di fronte a realtà e forze più grandi di lui e si ricollega alla capacità di pensiero e comunicazione simbolica, antica quanto l’uomo» [7]. Questi ultimi studiosi, però, vengono attratti soprattutto dalla comparsa del senso estetico o di forme di pensiero astratto che, a differenza del rapporto con l’Assoluto, lasciano traccia sugli strumenti primitivi e sull’industria litica in genere; di conseguenza, essi tendono a retrodatare la comparsa del senso religioso, perché lo ritengono in fondo già presente quando le forme umane manifestavano la loro capacità di astrazione.

Il rapporto fra homo symbolicus e homo religiosus merita allora qualche precisazione. Sebbene il primo sia in continuità con il secondo, riteniamo che alla base del senso religioso propriamente detto vada esplicitata soprattutto la comparsa dell’auto-coscienza. L’astrazione e il simbolismo appartengono al mondo della rappresentazione concettuale e della comunicazione, mentre l’auto-riflessività appartiene al mondo interiore del soggetto, al suo mondo “spirituale” per dirlo in qualche modo. Il senso estetico e la capacità di comunicare mediante simboli potrebbero riguardare un livello psicologico meno fondativo di quello coinvolto dall’esperienza religiosa [8]. Quest’ultima esprime l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla vita e alla morte, lo colloca esistenzialmente nel panorama della realtà circostante, raccoglie le sue aspirazioni e descrive le sue angosce. Nelle origini del genere umano, il senso religioso è coestensivo all’auto-coscienza. È secondo questa prospettiva che, a nostro avviso, andrebbe allora indirizzata la domanda se il senso religioso appartenga o meno alla natura umana, se sia un fenomeno intrinseco ad essa oppure un prodotto culturale provvisorio e cangiante. Dove c’è consapevolezza di sé e vi è consapevolezza del rapporto con un mondo reale che ci precede e che seguirà dopo di noi, ci sono domande religiose. L’origine e la natura della religione rimandano pertanto all’origine e alla natura dell’auto-coscienza, al possesso di sé, e dunque rimandano all’uomo stesso, a ciò che lo rende umano. Nel lungo cammino evolutivo della nostra specie, le dimensioni culturali, ambientali, storiche e sociali, caratterizzano senza dubbio le modalità con cui le domande religiose si esprimono, perché queste risentono della continua trasformazione delle condizioni di vita e dell’organizzazione sociale. Tali dimensioni conducono l’uomo a diversificare la personalità delle divinità alle quali egli si rivolge; lo spingono a dominare il sacro con la magia o a strumentalizzarlo per fini di potere; illustrano, attraverso l’arte e i comportamenti, le seduzioni che il sacro esercita sui singoli e sulle comunità. Tali dimensioni, però, non costituiscono il fenomeno religioso ma soltanto lo manifestano, non causano il suo sorgere ma riflettono i volti che esso assume.

   


[1] Un interessante status quaestionis delle risonanze interdisciplinari suscitate dalla nostra tematica è quello raccolto da J. Schloss, M. Murray (edd.), The Believing Primate. Scientific, Philosophical, and Theological Reflections on the Origin of Religion, Oxford University Press, Oxford 2009.
[2] Cf. A. Alessi, Sui sentieri del sacro, LAS, Roma 1998, 90.
[3] I dati scientifici e fenomenologici relativi al cammino religioso della specie umana ci giungono attraverso gli studi di molteplici autori. Cf. J. Ries, Opera omnia, 6 voll., Jaca Book, Milano 2006-2009; vol. II: L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità (2007); vol. III: L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro (2007); vol. IV: Le costanti del sacro. Simbolo. Mito e rito (2008); J. Ries, Le origini e il problema dell’homo religiosus, Trattato di Antropologia del sacro, vol. 1, Jaca Book - Massimo, Milano 1989, in particolare gli articoli di E. Anati, Simbolizzazione, concettualità e ritualismo dell’Homo sapiens, in ibid., 167-191 e F. Facchini, L'emergenza dell'homo religiosus. Paleoantropologia e paleolitico, in ibid., 141-165; F. Facchini, P. Magnani (edd.), Miti e riti della preistoria. Un secolo di studi sull'origine del senso del sacro: fonti scelte, Jaca Book, Milano 2000.
[4] M. Eliade, Giornale, a cura di L. Aurigemma, Boringhieri, Torino 1976, 420, corsivo nell’originale.
[5] Ibid.
[6] Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, 365. «L’esperienza del sacro è intrinseca all’eperienza umana, costituisce un elemento fondamentale della struttura della coscienza. Di conseguenza, dal momento in cui le “opere” dell’uomo preistorico ce lo rivelano come un essere che possiamo definire “umano”, siamo costretti a riconoscergli anche una certa religiosità. La difficoltà risiederà indubbiamente nel decidere il contenuto effettivo di questa religiosità», Boné, La religiosità dell’uomo preistorico, 30.
[7] Facchini, L’emergenza dell’homo religiosus, 164.
[8] Va anche precisato che capacità di astrazione e linguaggio simbolico non sono sinonimi e che quando parliamo di “simbolismo religioso” ci riferiamo a forme di pensiero già espressive dell’homo religiosus in quanto tale.

   

G. Tanzella-Nitti, Religione e Rivelazione, Città Nuova, Roma 2018, pp. 40-50.