Vincent Willelm van Gogh (Zundert, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890)
I primi passi
1890
olio su tela, 72,4 × 91,1 cm
New York, Metropolitan Museum
Nel maggio del 1889 van Gogh fu ricoverato, dietro sua espressa richiesta,nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rèmy in Provenza. Nei mesi dell’internamento volle reinterpretare alcuni capolavori di Jean-François Millet (1814-1875), artista che ammirava molto e considerava un“secondo padre”, con il quale vivere un rapporto di figliolanza e un legame affettivo che gli furono sempre negati con il padre naturale. La piccola tela, realizzata nel gennaio 1890, riproduce i Primi passi di Millet e fu eseguita sulla base di un positivo in bianco e nero che fu inviato a Vincent dal fratello Theo. È van Gogh stesso a spiegare il senso di questa operazione artistica: «A noi pittori verrà sempre chiesto di comporre autonomamente e di essere solo dei compositori. Bene – ma nella musica non è così – quando si suona Beethoven, si dà una propria interpretazione personale. […] Soprattutto ora, che sono malato, ho bisogno di gioia e di fiducia. Metto davanti a me come motivo il bianco e nero di Millet […] e poi v’improvviso sopra col colore».
Un padre, di ritorno a casa dal lavoro nei campi, posa a terra la vanga e apre le braccia verso la sua bambina, la quale, sorretta dalla madre, sta per muovere i primi passi verso di lui. Certo, nessuno ha mai iniziato a camminare in tal modo, ma questo è il modo in cui tutti immaginiamo quel momento tanto atteso dello sviluppo infantile. Siamo di fronte a una immagine archetipica, che, come un fotogramma, fissa l’attimo di sospensione che intercorre tra il distacco dalle sicure braccia materne e l’approdo accogliente tra quelle paterne: è l’attimo in cui perdere l’equilibrio e le sicurezze vale la fecondità di sentirsi generati alla vita.
Una bambina molto piccola, ancora malferma sulle gambe, viene aiutata dalla madre a stare in piedi e intanto tende le braccia verso il padre, che la attende e la incoraggia in ginocchio a poca distanza da lei, sull’orto che si trova dietro quella che probabilmente è la loro casa. In questa scenda di intimità familiare possiamo riconoscere almeno tre livelli di ‘generatività’.
Partiamo da quello che non è soltanto uno sfondo ma un rigoglioso ambiente naturale intorno ai personaggi del quadro. Le pennellate mosse e vibranti ci restituiscono una natura piena di vita, germogliante, che vede unite in armonia la spontaneità del mondo vegetale e la cura paziente dell’essere umano – gli attrezzi agricoli sul campo – che, attraverso il suo lavoro, fa crescere il seme e raccoglie il frutto.
A un secondo livello, però, sono i personaggi stessi a incarnare la fecondità della vita umana, colta in uno dei suoi più teneri momenti familiari: una famiglia che ha dato alla luce una nuova vita e ne accompagna i primi passi. La gioia della scoperta, l’entusiasmo della vita nuova, la ricchezza di futuro che ogni bambino porta con sé. Generare non è soltanto trasmettere la vita sul piano biologico ma è coltivare la novità rappresentata da ogni singolo essere umano che muove i suoi primi passi sulla terra.
Ed ecco il terzo livello generativo: la cultura, che fin dalla sua stessa etimologia rimanda alla coltivazione, all’agricoltura, al lavoro necessario affinché ciò che per sua natura tende a svilupparsi cresca e fiorisca. I genitori, e come loro tutti gli educatori, trasmettono insegnamenti e promuovono la crescita di coloro che gli sono affidati. Ma con discrezione, come nel dipinto, stimolando l’autonomia dei giovani, aiutandoli a raggiungere quell’autonomia di pensiero, di giudizio e di azione che consenta di ‘camminare sulle loro gambe’.
La libertà di questo atteggiamento paterno e materno, che genera libertà nei figli, riflette qualcosa della libertà con cui Dio Padre si relazione con ogni essere umano, da Lui chiamato alla vita. La libertà divina è un appello alla nostra libertà, una libertà capace di rispondere all’invito a vivere con gioia e a trasmettere quanto ricevuto. Gesù esprime con queste parole il legame tra libertà e capacità di generare:
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda (Gv 15, 12-16).
Non più schiavi, siamo liberi di amare, vale a dire di dare la vita (dare la vita ad altri, dare la nostra vita per altri).
Questo dono porta frutto, chiama altri a vivere l’amore che noi stessi abbiamo ricevuto.