Nelle pagine del suo Dizionario filosofico Voltaire fa spesso riferimento a questioni di ordine teologico, difendendo le ragioni del “teismo” che, secondo le sue stesse parole, coincide con “il buon senso che non ha ancora conosciuto la rivelazione”, contrapposto alle religioni, in cui “il buon senso [è] pervertito dalla superstizione”. Nella voce Dieu l’autore presenta quella che a suo avviso è l’origine della nozione di divinità e lo sviluppo storico che dal politeismo conduce al riconoscimento di un unico Dio. Appellandosi poi all’autorità di Cicerone, Voltaire afferma che la ragione è in grado di ammettere l’esistenza di un essere superiore ma allo stesso tempo non può dire nulla sulla sua natura. La conclusione del ragionamento, tipicamente illuminista, indica l’esistenza di un “essere invisibile” ma ribadisce al contempo i limiti della conoscenza umana in merito alla natura della divinità.
Non si potrà mai precisare abbastanza che questo Dizionario non è fatto per ripetere ciò che tanti altri hanno detto.
La conoscenza di un Dio non è impressa in noi dalla mano della natura, perché altrimenti tutti gli uomini avrebbero la stessa idea, mentre nessuna idea nasce insieme a noi. Essa non ci giunge come la percezione della luce, della terra, ecc., che riceviamo non appena i nostri occhi e il nostro intelletto di dischiudono. È un’idea filosofica? No. Gli uomini hanno riconosciuto l’esistenza di dèi prima che esistessero dei filosofi.
Da cosa è derivata dunque questa idea? Dal sentimento, e da quella logica naturale che si sviluppa con l’età anche negli uomini più rozzi. Sono stati osservati stupefacenti effetti della natura, messi abbondanti e carestie, giornate serene e tempeste, benefici e flagelli, e si è percepita la presenza di un padrone. Sono stati necessari dei capi per governare le società, ed è stato necessario ammettere dei sovrani di questi nuovi sovrani che la debolezza umana si era dati, esseri il cui potere supremo facesse tremare uomini che potevano opprimere i propri simili. I primi sovrani hanno, a loro volta, adottato queste nozioni per rinsaldare il proprio potere. Ecco così i primi passi, ecco perché ogni piccola società aveva il proprio dio.
Queste nozioni erano grossolane, perché tutto lo era. È perfettamente naturale ragionare per analogia. Una società sotto un capo non contestava alla tribù vicina di avere il proprio giudice, il proprio capitano; di conseguenza, non poteva contestare che essa avesse anche il proprio dio. Siccome, però, ogni tribù aveva interesse che il proprio capitano fosse il migliore, essa aveva anche interesse a credere, e di conseguenza credeva, che il proprio dio fosse il più potente. Donde quelle antiche favole, tanto a lungo diffuse ovunque, secondo cui gli dèi di una nazione combattevano contro gli dèi di un’altra. Donde i numerosi passi nei libri ebraici che rivelano continuamente l’opinione che si aveva degli Ebrei, e che gli dèi dei loro nemici esistevano, ma che il dio degli Ebrei era superiore a quelli.
Nei grandi Stati, nei quali una società evoluta rendeva possibile l’esistenza di uomini oziosi, ci furono tuttavia sacerdoti, maghi, filosofi dediti agli studi.
Taluni di loro svilupparono la propria ragione tanto da riconoscere segretamente un Dio unico e universale. Così, benché presso gli antichi Egizi venissero venerati Osiri, Osiride, o Osireth (che significa questa terra è mia), benché essi venerassero altri esseri superiori, si riconosceva un dio supremo, un principio unico, che chiamavano Knef, il cui simbolo era una sfera posata sul frontone del tempio.
Su questo modello i Greci ebbero il loro Giove, padrone degli altri dèi, il quali non erano altro che quello che gli angeli sono presso i Babilonesi e gli Ebrei, e i santi presso i cristiani di confessione romana.
Sapere se diversi dèi, uguali per potenza, potessero esistere contemporaneamente è una questione più spinosa di quanto non si pensi, e assai poco approfondita.
Noi non abbiamo nessuna nozione adeguata della Divinità, passiamo solo di sospetto in sospetto, di verosimiglianze in probabilità. Perveniamo a un limitatissimo numero di certezze. Qualcosa esiste, dunque esiste qualcosa di eterno, perché nulla si produce dal nulla. Ecco una verità certa su cui il vostro intelletto si acquieta. Ogni opera che riveli dei mezzi e un fine annuncia un operaio; dunque, questo universo, composto di molle e ingranaggi, ognuno dei quali con una sua funzione, svela un operaio molto potente, molto intelligente. Ecco una probabilità che si approssima alla massima certezza; ma questo artigiano supremo è infinito? È ovunque? Si trova in un luogo? Come si può rispondere a questa domanda con la nostra limitata intelligenza e le nostre deboli conoscenze?
La mia ragione da sola mi dimostra l’esistenza di un essere che ha disposto la materia di questo mondo; ma la mia ragione è impotente a dimostrarmi che esso abbia creato quella materia, che l’abbia estratta del niente. Tutti i saggi dell’antichità, senza eccezione, hanno ritenuto la materia eterna e sussistente per se stessa. Tutto ciò che posso fare senza il soccorso di lumi superiori è, dunque, credere che anche il Dio di questo mondo sia eterno ed esistente per se stesso, Dio e la materia esistono in virtù della natura delle cose. Non potrebbero esistere altri dèi come pure altri mondi? Intere nazioni, scuole molto illuminate hanno pure ammesso due dèi in questo mondo qui: uno come origine del bene, l’altro come origine del male. È stata ammessa una guerra interminabile tra due potenze eguali. La natura può certo tollerare più facilmente nell’immensità dello spazio diversi esseri indipendenti, ognuno padrone assoluto nel suo ambito, che in questo mondo due dèi limitati e impotenti, di cui uno non può compiere il bene e l’altro non può compiere il male.
Se Dio e la materia esistono da tutta l’eternità, come si riteneva nell’antichità, ecco allora due esseri necessari; orbene, se esistono due esseri necessari, ne possono esistere trenta. Bastano questi soli dubbi, che sono il germe di un’infinità di riflessioni, a persuaderci, quanto meno, della debolezza del nostro intelletto. Insieme a Cicerone, dobbiamo confessare la nostra ignoranza circa la natura della Divinità. Noi non ne sapremo mai più di lui.
La scolastica ha un bel da dirci che Dio è infinito negativamente e non privativamente, formaliter et non materialiter; che egli è il primo, l’intermedio e l’ultimo atto; che è ovunque senza essere in alcun luogo; cento pagine di commenti su simili definizioni non possono procurarci il benché minimo chiarimento. Non disponiamo né di gradini, né di punti d’appoggio per salire fino a siffatte conoscenze. Sentiamo di essere in balia di un essere invisibile: questo è tutto, e noi non possiamo fare un passo oltre a ciò. È una temerarietà dissennata pretendere d’indovinare che cosa sia quell’essere, se sia esteso o meno, se esista in un luogo o meno, in quale modo esista, come operi.
Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di D. Felice e R. Campi, Bompiani, Milano 2013, pp. 1173-1177.