L’uomo che vide l’infinito

(The Man Who Knew Infinity, USA 2015, col, 108’) regia di Matt Brown, con D. Patel, J. Irons, D. Bhise, T. Jones, S. Fry, J. Northam.

Sono ancora infiniti i misteri della mente umana che vanno esplorati e spiegati: uno è quello che fa nascere in un uomo totalmente autodidatta idee tali da rivoluzionare la matematica del XX secolo. E’ successo con Sirnavasa Ramanujan le cui scoperte sulla teoria analitica dei numeri e le formule sommatorie sono tuttora fondamentali per lo studio dei buchi neri. Nato nel 1887 in India, fu invitato da chi ne aveva intuito la genialità al Trinity College nel 1913 sfidando tutti i pregiudizi di un mondo accademico conservatore e razzista. E proprio su questo rapporto il film gioca tutte le sue carte, mostrando come due persone diversissime per carattere, cultura ed estrazione sociale trovino proprio nei numeri e nell’amore per la scienza un terreno comune fatto di rispetto e di stima. Lasciando allo spettatore il compito di approfondire la conoscenza di questo fuoriclasse dei numeri, convinto che le sue intuizioni gli fossero suggerite dalla della indù Managiri.

(P. Mereghetti, Giornata internazionale della matematica (Pi greco day): i film da vedere in famiglia, “Corriere della sera”, 14 marzo 2021).

Diretto da Matt Brown, apparso nelle sale italiane nel 2015, il film ricalca la biografia del giovane matematico indiano Srinivasa Ramanujan (22 Dicembre 1887 – 26 Aprile 1920), tratta dall’omonimo libro dal titolo L'uomo che vide l'infinito. La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica di Robert Kanigel (Rizzoli, Milano 2003). Figlio della povertà sub-urbana dell’India di fine Ottocento, sin da bambino mostra una disposizione innata nei confronti della matematica, specialmente nei riguardi delle serie numeriche infinite e della trigonometria, che padroneggiava già all’età di soli undici anni. La sua vita tuttavia prosegue con grandi difficoltà economiche fino all’età del matrimonio. Ramanujan, fedele alle tradizioni religiose e sociali della sua terra, cerca un lavoro per sostenere la nuova vita familiare, non rinunciando alla stesura silenziosa di preziosi appunti matematici, oggi in parte perduti. Sopraffatto da un contesto sociale del tutto indifferente alle sue intuizioni, decide di inviare parte dei suoi lavori ad alcuni matematici inglesi, tra cui Godfrey Harold Hardy, membro della Royal Society, nonché stimato studioso d’analisi matematica, che, a differenza degli altri colleghi, non esita a invitarlo presso il Trinity College di Cambridge. Qui Ramanujan vivrà non senza disagi, coltivando un ortodosso induismo e tentando di conciliare la sua osteggiata genialità intuitiva con il metodo dimostrativo richiesto dalla tradizione formalista occidentale. Dall’amichevole collaborazione con Hardy nascerà tuttavia un’intesa produzione di risultati, anche se non del tutto comprensibili dal film (fuori dalla finzione cinematografica, ad esempio, è noto lo studio sulle condizioni di crescita delle funzioni complesse, in particolare le funzioni di partizione con andamento asintotico, ossia quelle funzioni relative alla variazione di sequenze di interi contenute entro una determinata matrice). Al di là della vulgata sul topos del genio incompreso e povero, emigrato in terre lontane e con un segreto e temuto dono, il mondo della matematica pura appare allo studioso indiano, nel senso proprio di “farsi vedere”, come una specie di mediazione divina, in quanto compresa entro un perenne salto nell’Assoluto. È nota la sua espressione: un’equazione per me non ha senso, se non rappresenta un pensiero di Dio. Lo studio sui numeri complessi, le forme modulari o gruppi di funzioni, le serie divergenti, si esprimono infatti nell’approccio di Ramanujan secondo intuizioni e schemi armonici, calibrati da una spinta a cogliere il potenziale d’infinito contenuto entro ogni tipo di realtà numerica, sottoposta a una condizione particolare di crescita ma allo stesso tempo non del tutto dimostrabile o quantificabile: nient’altro, si direbbe, che la breccia innescata dall’ipotesi del continuo di Cantor, il dilemma di Turing, l’incompletezza di Gödel. L’intuizione difesa da Ramanujan contro la tradizione sistematica inglese suggerisce ancora di poter indagare su quella capacità di individuare operazioni di calcolo che non lascino mai indietro una certa irregolarità o distorsione induttiva sulle cose, oltre che assiomatico-deduttiva. A tal proposito, viene in mente il discorso enunciato da David Hilbert al congresso della Società Matematica della Vestfalia nel 1925: «una dimostrazione formalizzata, come un simbolo numerico, è un oggetto concreto e visibile che possiamo descrivere completamente». Anche a costo, egli aggiunge, di introdurre enunciati ideali o congetture come l’infinito, a patto che non neghino il principio di non-contraddizione. Eppure, i risultati di Ramanujan-Hardy vengono oggi utilizzati in diversi ambiti della fisica quantistica e della teoria delle stringhe per lo studio di fenomeni reali: quanto quindi l’infinito ideale, formalizzato da Hilbert in via strumentale, può dirsi davvero inesistente sul piano concreto? E se è vero che l’esperienza di fede di Ramanujan non rientrerebbe nel dato epistemologico universalmente valido, quanta libertà invoca, ad esempio, lo studio delle particelle subatomiche, oggetti concreti e non visibili, quanta coraggiosa intuizione irrompe dentro questa strana forma di fiducia che investiamo sul nostro limitato vedere? Una risposta felice è contenuta in un brillante libro di Chiara Valerio: «la matematica, e ci penso ogni volta che mi trovo davanti a un disegno su un muro, su un ponte o sull’asfalto di una qualsiasi città, è questa immaginazione che educa all’invisibile, dunque all’amore e ai morti, alle utopie e ai fantasmi e che ci ha portato lontano lontano, nel tempo e nello spazio».

 D. Hilbert, Sull’infinito, Castelvecchi, Roma 2013.

 C. Valerio, Storia umana della matematica, Einaudi, Torino 2016.

Marina Guerrisi