Lavoro, pietra angolare

Luigino Bruni
2012
livornopalazzodelgoverno
Livorno, palazzo del governo, fregio con la storia cittadina, 1950-56 circa.

I dati della crisi, che continuano ad alimenta­re i nostri dibattiti e le nostre preoccupazioni, sono come spie che dicono, tutti assieme e con­cordemente, che la 'macchina del capitalismo' ha dei problemi, alcuni molto seri. Una spia di colore rosso fuoco si è accesa ormai da tempo, e sarebbe ora di fermarsi per fare qualche inter­vento serio al motore: è la spia del lavoro. Eppu­re in un momento alto della nostra storia politi­ca e civile, lo abbiamo posto come pietra ango­lare della legge fondamentale degli italiani.Sono molti i significati del primo articolo della nostra Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». In ogni patto, le prime parole che si pronunciano sono quelle più dense di contenuti simbolici e ideali. Si sa­rebbero potute scrivere in quel posto speciale al­tre parole alte, come libertà, giustizia, ugua­glianza o persino fraternità; invece in quell’inci­pit del patto fondativo della nuova società ita­liana fu inserita la parola lavoro. Una parola u­mile ma forte, associata da sempre alla fatica e al sudore, e persino considerata nell’antichità come attività confacente allo schiavo, perché troppo infima: «Ignobili e abietti, poi, sono i gua­dagni di tutti quei mercenari che vendono, non l’opera della mente, ma il lavoro del braccio... Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestie­re volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bot­tega » (Cicerone, De Officiis). Parole pesanti, che certamente erano parte della formazione classi­ca di molti di quei padri costituenti, che però fu­rono capaci di guardare soprattutto alla loro gen­te e così, pace per Cicerone o Aristotele, videro la tanta nobiltà che c’era «nelle botteghe». E co­sì scrissero la parola lavoro come il primo so­stantivo dell’Italia post-fascista – una scelta dop­piamente coraggiosa, se si pensa alla retorica del lavoro che aveva caratterizzato il Ventennio. Nella semantica di quel lavoro c’era la vicenda storica dell’Italia contemporanea, dove la de­mocrazia stava avanzando proprio grazie al gran­de movimento di lavoratori, uomini e (poche) donne, che divennero veramente cittadini quan­do, abbandonando lo status di servi in una cam­pagna ancora per tanti versi sostanzialmente feu­dale, divennero lavoratori nelle fabbriche, nelle officine, nelle scuole, negli uffici e nelle coope­rative.Non tutto il lavoro fonda la Repubblica, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi. Ma nelle parole dell’articolo 1, c’era e c’è anche l’espe­rienza di tanti che per amore della democrazia e dei suoi valori, il lavoro l’avevano perso, per­ché combattuti ed emarginati dal fascismo. Il primo strumento che ogni potere anti-demo­cratico ha per togliere la dignità e la libertà è cancellare il lavoro. Furono tanti, troppi, gli italiani e gli europei che dovettero chiudere fabbriche, tipografie, uffici, cattedre, per non piegarsi alle richieste anti-de­mocratiche e illiberali del regime. Molti di que­gli uomini furono poi tra i padri costituenti, e in quella originale e felice formulazione del primo articolo, cercarono di raccontare anche queste storie di amore civile. E nel far questo hanno crea­to la più bella equazione della nostra storia re­pubblicana, quella che pone l’eguaglianza tra democrazia e lavoro: la Repubblica è democra­tica perché fondata sul lavoro, altrimenti la Re­pubblica si fonda su rendite e privilegi, e quindi non è democratica. Non è facile, oggi, leggere seriamente quell’arti­colo, e al contempo restare passivi in una Italia e in una Europa che, da una parte, lasciano trop­pi milioni di persone fuori dalla "città del lavo­ro", e dall’altra fanno troppo poco di fronte a nuove forme di schiavitù e servitù. Quell’artico­lo quindi, ci può offrire una chiave di lettura po­tente per comprendere meglio che cosa sta ef­fettivamente accadendo.Ci dovrebbe far capire che la lotta alla disoccupazione deve avere lo stesso posto che occupa il lavoro nella nostra Costituzione: il primo. Non si può barattare il lavoro con i profitti né, tantomeno, con le rendite, perché quando il lavoro della persona umana è negato è in profonda crisi prima di tutto la democrazia. C’è poi un secondo messaggio molto attuale che ci arriva dall’articolo 1 e dalle sue semantiche (oggi, forse, troppo lontane): lavorare non è l’esperienza del servo e dello schiavo. Una tesi che ci chiama a una profonda riflessione quando constatiamo che il capitalismo senza regole e senza misura sta creando nuove forme di schiavitù e di servitù nei livelli più alti e più bassi del mondo del lavoro.Delle dilaganti e anche inedite forme di schiavitù-servitù di operai e precari nel mondo si parla abbastanza; si parla invece troppo poco delle nuove forme di schiavitù di coloro che vengono considerati privilegiati: dirigenti e impiegati di medio e alto livello nelle grandi imprese multinazionali, che vengono pagati assai bene nei "nuovi mercati", ma che di fatto rinunciano più o meno consapevolmente, a crescenti fette di libertà, di tempo, di festa, di famiglia... La rossa spia del lavoro continua allora a lampeggiare: prendiamola tutti più sul serio, fermiamoci, per poi ripartire nella giusta direzione.

Articolo pubblicato su Avvenire, 4 novembre 2012.