“Le nuove tecnologie possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano”
Benedetto XVI
Riportando il pensiero di Tonioni, l’era digitale ed il processo mediante il quale si è instaurata hanno principalmente le caratteristiche di un’evoluzione, più che di una rivoluzione. Quando ci si accorge di un cambiamento tanto radicale, quanto silenzioso, si viene colti quasi di sorpresa: abbiamo la sensazione che qualcosa sia avvenuto al di fuori della nostra consapevolezza. L’evoluzione digitale ha dunque seguito un percorso diluito e silenzioso (Tonioni, 2013, 57).
Quando si parla di “impatto” delle nuove tecnologie sulla società e sulla cultura si fornisce dunque una metafora inadeguata o perlomeno fortemente criticabile: le trasformazioni dell’era digitale hanno ridisegnato la nostra vita in modo graduale.
I new-media sono una grande invenzione. Sono preziosi strumenti che offrono molte opportunità per imparare, reperire informazioni, trovare giochi, contattare amici, fare acquisti e dialogare con le persone. Non vi è dubbio che la tecnologia influenzi in modo decisivo il benessere personale e quello della comunità umana in cui viviamo e condizioni pure la capacità di controllare e adattarci all’ambiente. Nessuno nega che le nuove generazioni sono divenute più tecnologiche. Gli addetti ai lavori li chiamano nativi, mentre noi adulti siamo gli immigrati. Brevemente di seguito vengono definite le caratteristiche dei nativi, immigrati e tardivi digitali.
Nativi digitali: è un’espressione che viene applicata ad una persona che è cresciuta con le tecnologie digitali come i computer, Internet, telefoni cellulari e MP3. Il nativo digitale cresce in una società multischermo e considera le tecnologie come un elemento naturale non provando nessun disagio nel manipolarle e interagire con esse.
Immigrati digitali: l’espressione immigrato digitale (digital immigrant) si applica ad una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo.
Tardivi digitali: una persona cresciuta senza tecnologia e che la guarda tutt’oggi con diffidenza.
Ragionevolmente tutti sono concordi sul fatto che l’uso di Internet, e con tutto ciò che concerne (social network, ricchezza e rapidità d’informazioni, collegamenti veloci da una parte all’altra del mondo, ecc.), sia una grande risorsa del nostro tempo. E la disponibilità di strumentazioni capaci di fare lavori in tempi brevi e impensabili per le normali capacità del nostro cervello è, oltre ogni dubbio, una grande potenzialità per ampliare le nostre conoscenze e le nostre ricerche.
È anche vero, poi, che la comunicazione fra le persone è stata potenziata dai mezzi di comunicazione di massa che man mano sono venuti comparendo sulla nostra scena sociale.
D’altra parte bisogna pure considerare che non sono poche le voci che ci vorrebbero mettere in guardia da possibili rischi, tra cui la dipendenza, l’impoverimento dei canali comunicativi, la liquidità delle relazioni sociali, le modificazioni cognitive di apprendimento e memoria, le modificazioni affettive-emotive e comportamentali, ecc.
Nel mio contributo vorrei fare attenzione solo ad alcuni aspetti che rischiano di sfuggirci, affascinati come siamo dalle possibilità che la nuova tecnologia ci mette nelle mani. In modo particolare, vorrei concentrami proprio sul pericolo della ricerca di un presunto, ideale e irraggiungibile surplus di umanizzazione che deriverebbe dall’uso delle tecnologie digitali, senza pienamente avvedersi di alcuni rischi che stiamo correndo. Il rischio maggiore ritengo sia quello di perdere di vista la relazione interpersonale come elemento fondante e privilegiato di qualsiasi intervento educativo e formativo per la persona in crescita.
Infatti, viviamo in un mondo veloce, dove il tempo sembra via via contrarsi. Siamo continuamente connessi, chiamati a rispondere in tempi brevissimi a e-mail, tweet e sms. Siamo anche iper-stimolati dalle immagini, in una frenesia visiva e cognitiva che talora rasenta la psicopatologia. E stiamo dimenticando che il nostro cervello è una “macchina lenta” e che tentando di imitare le macchine veloci della tecnologia mediale andiamo incontro ad affanni e frustrazioni.
Il Web, ad esempio, è una fonte ininterrotta d’informazioni, che derivano da innumerevoli fonti: ogni individuo, attraverso la rete, può divenire un emittente, aumentano la profusione di dati e notizie ma anche il grande senso di disordine e confusione che ne consegue.
Il progresso tecnologico tende poi a sviluppare strumenti che rendono l’esperienza nella web society sempre più personale, assottigliando la distanza tra vita on-line e off-line.
Non è più possibile infatti considerare internet come un non-luogo virtuale. Internet è divenuta un’estensione della realtà nella quale possiamo compiere numerose esperienze che hanno una diretta conseguenza sulla realtà fisica. Le identità virtuali, spesso simulate e “perfette”, mediante le quali si vivono relazioni caratterizzate dal superamento dei vincoli spazio-temporali rendono il cyberspazio una dimensione affascinante del nostro vivere.
Queste nuove possibilità, proprio perché cariche di fascino, devono essere soggette a riflessioni critiche riguardo gli effetti che stanno producendo sulla nostra vita relazionale e psichica.
Non senza una certa provocazione vorrei invitare, in questa mia relazione, a scoprire i vantaggi dell’importanza della riflessività e dell’educazione lenta.
Nuovi media e processi cognitivi
In generale è possibile definire i media come dei “dispositivi di mediazione”: da una parte facilitano il processo di comunicazione, superando i vincoli imposti dal faccia a faccia; dall’altra, ponendosi “in mezzo” tra i soggetti interagenti, sostituiscono l’esperienza diretta dell’altro con una percezione indiretta (mediata).
È, infatti, proprio il loro “essere in mezzo” a trasformare i media in strumenti di cambiamento, obbligando i soggetti interagenti ad adattarsi alle diverse caratteristiche del medium.
Dal punto di vista cognitivo, il principale risultato di questo processo di adattamento è la creazione di nuovi schemi mentali, che modificano e/o sostituiscono quelli precedenti. In particolare, la disponibilità di tali schemi consente all’utente esperto di simulare mentalmente le diverse possibilità di azione del medium, consentendogli di usarlo intuitivamente, senza pensare e interiorizzare l’esperienza.
Allo stesso tempo, però, l’uso intuitivo dei nuovi media sposta la “presenza” del soggetto dal luogo fisico in cui si trova, all’interno dell’esperienza tecnologica. Basta osservare un bambino di due anni che gioca con l’iPad, un ragazzo che sta giocando con un video-gioco o un adolescente che legge la sua bacheca di Facebook, per accorgersi dell’immersione cognitiva in quello che sta facendo spesso resistente anche a vigorosi richiami. Questa immersione, è uno degli effetti della creazione di schemi motori legati all’uso delle diverse tecnologie. Inoltre l’eccesiva immersione ai mezzi tecnologici è la principale causa di dipendenza e di difficoltà di apprendimento e concentrazione.
Infatti, i tablet, gli smartphone, i computer ci permettono di passare molto velocemente da un’immagine a un’altra, da una pagina all’altra. Un bambino che usa con tanta frequenza questi strumenti si abitua a prestare la sua attenzione a stimoli che cambiano continuamente e velocemente. Al punto che di fronte a un oggetto che se ne sta fermo (una parola, una pagina, un disegno), lui non è in grado di fermare l’attenzione. Questo significa che a scuola o al catechismo (l’insegnate / catechista) chiede ai bambini di seguire un pensiero o un’immagine o la pagina di un libro, questi sono incapaci di stare “attenti”, perché il loro cervello è abituato alla velocità (che significa anche superficialità) di uno stimolo dopo l’altro.
L’eccessiva immersione ai nuovi media ha portato nei bambini e nei ragazzi ad avere numerose implicazione rispetto a:
- capacità di pensare;
- capacità di pensare in modo critico e autonomo;
- capacità di memorizzare e consolidare le esperienze;
- capacità di attenzione e selezione dell’informazione.
Considerando che la plasticità cerebrale, e quindi la possibilità di modificare la struttura del cervello in seguito a stimoli esterni, è massima nei primi anni di vita ci pone di fronte ad una domanda: qual è l’impatto di queste nuove tecnologie sulla mente dei baby nativi digitali?
La sempre più precoce interazione tra bambino e nuovi media è in costante evoluzione e sta concorrendo a strutturare un nuovo profilo cognitivo iperstimolato a discapito di un corredo cognitivo-emotivo decisamente non.
Nuovi media ed emozioni
Il modo in cui il bambino organizza la sua visione della realtà dipende dall’esperienza proposta dalle figure genitoriali. Attraverso l’interazione con esse il bambino si costruisce dei significati che lo aiuteranno a interpretare le situazioni e orienteranno il suo comportamento. E’ ciò che Stern (1987) chiama “sintonizzazione affettiva” tra madre e bambino, processo che avviene quasi inconsapevolmente e permette ad una persona di riflettere lo stato interno dell’altra. Nonostante Stern ritenga che la capacità di attribuire stati mentali intenzionali agli altri si sviluppi in seguito, afferma però che la presenza di precursori di quest’abilità sia riscontrabile fin dal primo anno di vita. Nel caso dell’ansia, ad esempio, se la madre rispecchia in modo autentico lo stato emotivo del bambino, offrirà a quest’ultimo la possibilità di riconoscere ciò che lui stesso sta provando in quel momento, già da un’età compresa tra i sei e i diciotto mesi.
Il bambino inizia quindi a conoscere il significato dei propri vissuti emotivi attraverso l’interazione e la condivisione. La figura di attaccamento, in questa danza interattiva, rispecchia e rimanda le emozioni al bambino, che vive così l’esperienza di essere visto e allo stesso tempo di vedersi.
Il rispecchiamento emotivo agevola quindi lo sviluppo degli affetti e le capacità di regolazione del bambino, che poi si consolidano attraverso le interazioni giocose con il caregiver primario. Il ruolo del gioco è molto importante in questo processo. I bambini piccoli non sembrano considerare i propri stati psicologici come basati su ciò che pensano e desiderano, bensì come parte di una realtà fisica. Nel gioco, invece, i pensieri sono – e restano – pensieri, poiché sono sconnessi dal mondo reale (immaginiamo un bambino che fa finta che una penna sia una pistola, senza aspettarsi che possa effettivamente sparare). In questo modo quando un genitore ‘fa finta’, il bambino può confrontare attraverso il gioco ciò che è apparente e ciò che è reale. Secondo Winnicott (1942) giocare con la realtà non è però un’attività che il bambino può realizzare da solo e necessita quindi della partecipazione del caregiver attraverso il quale potrà riconoscere il sé negli occhi dell’altro.
Il nuovo modo di vivere lo spazio ed il tempo ha però condizionato i ritmi di vita, sempre più veloci, andando a diminuire certi livelli di prossimità e di intimità familiare. I bambini sono così portati a dover trascorrere sempre più ore di fronte allo schermo di un tablet, di un computer o di un videogioco, è facile immaginare come la funzione di rispecchiamento sia già stata in parte demandata a strumenti digitali. I bambini, anche molto piccoli, possono infatti interagire facilmente con gli strumenti touch: per poterli utilizzare non è necessario saper leggere o scrivere, basta saper muovere le proprie dita.
L’interfaccia touch consente quindi di superare la barriera linguistica che non permetteva ai più piccoli di interagire coi nuovi media.
Questi nuovi mezzi tecnologici possono proporre diverse attività interattive ed esperienze eccitanti, come giochi e filmati. I bambini non sperimentano quindi uno sguardo emotivo ‘vivo’ in cui rispecchiarsi e questo porta ad una compromissione della possibilità di riconoscere, regolare e dare un nome alle emozioni. Nessuno screen interattivo può fornire, infatti, quella partecipazione autentica ed attiva e quella sintonia affettiva di cui solo il caregiver può essere portatore. Gli strumenti on-line, a differenza della tv che fornisce immagini che vengono fruite passivamente su uno schermo off-line, grazie ad un alto livello di interattività, stimolano l’investimento emotivo che, in assenza di un ambiente affettivo disponibile, stimola a sua volta il bambino a ricercare un rispecchiamento. Purtroppo però questo sarà deficitario, anche perché la comunicazione tecno-mediata è parziale poiché manca il contatto fisico.
Dal punto di vista psicologico, infatti, a caratterizzare le emozioni sperimentate attraverso la fruizione di contenuti mediali è la loro “alterità”: sono nel mio corpo ma non vengono dal mio corpo, le sento io ma non sono mie.
Questo fenomeno associato all’aumento di iterazioni sociali prevalentemente digitali può favorire l’analfabetismo emotivo con questo termine si intende:
- la mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti ad esse associati;
- la mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione;
- l’incapacità di relazionarsi con le emozioni altrui, non riconosciute e comprese, e con i comportamenti che da esse scaturiscono.
Per esempio lasciare il proprio ragazzo dicendogli “ti voglio lasciare” guardandolo negli occhi è molto diverso dal mandargli un SMS con scritto “non stiamo più insieme”. Nel primo caso, osservare la risposta emotiva dell’ex ci costringe a condividere la sua sofferenza spingendoci a moderare le parole e i gesti. Nel secondo caso, l’ex e le sue emozioni non sono immediatamente visibili e non hanno quindi un impatto diretto sulle nostre decisioni.
È interessante come Goleman (1995) attribuisca proprio all’analfabetismo emotivo alcuni dei problemi che caratterizzano le giovani generazioni: il bullismo, la tossicodipendenza e l’alcolismo. Infatti, l’incapacità di riconoscere le emozioni dell’altro impedisce di comprendere le proprie portando al disinteresse emotivo o, nel peggiore dei casi, alla psicopatia.
Le relazioni nell’epoca del web
Con lo sviluppo di internet e la nascita del cyberspazio, i confini delle reti sociali, e quindi l’insieme di persone a cui siamo collegati da una qualsiasi relazione sociale, si sono notevolmente allargati. Nell’era della comunicazione web-mediata siamo immersi in una rete di relazioni proiettata verso il mondo e non più circoscritta all’ambiente che frequentiamo fisicamente: nascono così comunità virtuali che scelgono di creare un legame per le affinità comuni, al di là dei confini geografici. Le distanze si riducono ed è più facile mettersi in contatto le persone che ci interessano. Avere problemi di relazione sembrerebbe dunque un paradosso eppure proprio quest’epoca è divenuta l’emblema delle difficoltà comunicative. Il terzo millennio sembra essere contrassegnato dalla più epocale crisi della relazione interpersonale, all’interno della quale l’evoluzione digitale ha svolto un ruolo importante, intercettando un processo in corso e accelerandone lo sviluppo.
Alla base di questa profonda crisi relazionale si possono identificare tre fenomeni in particolare:
- il progressivo aumento del narcisismo nella società moderna nella quale si tende ad esaltare gli aspetti superficiali ed esteriori della realtà. A questo proposito risulta esplicativo l’enorme aumento della produzione di immagini, proprio di questa epoca, e la sempre più diffusa pratica di esibirsi sul web tramite foto e video;
- il sensation seeking, fenomeno diffuso tra le nuove generazioni, e quindi la ricerca costante di emozioni intense, fenomeno che scompone l’esperienza relazionale valorizzandone esclusivamente gli aspetti che ci coinvolgono emotivamente;
- l’ambiguità, cioè la presenza di identità cangianti, fluide e indefinite che non permettono di assumersi le responsabilità necessarie per costruire una relazione stabile. Riportando il pensiero di Bauman (2010) ad oggi è più facile “rinascere” abbandonando rapidamente ciò che eravamo prima – scartando di noi ciò che era indesiderato – e acquisire un’identità diversa e più attraente. Identità virtuali, rapidissimi cambi di status, ritocchi estetici come la chirurgia o i ‘dimagrimenti lampo’ sono solo alcuni dei mezzi attualmente utilizzati per ‘reincarnarsi’ in una persona completamente diversa rispetto a quella che eravamo ieri.
Lavorare, comunicare con un amico lontano, organizzare un viaggio: tramite il web tutto questo si può realizzare senza muoversi dallo stesso posto (senza uscire di casa, ad esempio). Nel momento in cui fare shopping on-line, seduti sul proprio divano, diviene più facile di chiedere ad un amico di accompagnarci in un centro commerciale, risulta evidente il rischio di impelagarsi in una rete di relazioni esclusivamente virtuali. Per chi riscontra maggiori difficoltà nell’esporsi in una relazione face-to-face col prossimo, lo schermo digitale diventa una sorta di scudo protettivo in grado di modulare e dosare il carico di emozioni presenti nella relazione virtuale.
A questo proposito ritengo indicativo il dato secondo il quale il numero di “innamorati virtuali” (cioè di persone che si sono conosciute ed innamorate tramite internet) incrementa del 25% ogni anno tanto che, secondo queste stime, nel 2025 nel mondo occidentale una coppia su tre nascerà da un incontro in rete.
Generalmente nel mondo off-line le principali difficoltà che si incontrano nell’instaurare dei legami sono: riuscire ad avere interazioni frequenti nonostante i ritmi di vita frenetici, trovare persone che abbiano interessi simili ai nostri e superare la timidezza o l’ansia sociale. I nuovi media rappresentano una risposta efficace a queste problematiche attraverso una comunicazione istantanea che abbatte le distanze e le barriere all’entrata (ad esempio non è necessario preoccuparsi del proprio aspetto per poter chattare coi propri contatti). Grazie al cyberspazio è poi possibile aggiungere alle proprie “amicizie digitali” persone mai incontrate dal vivo.
Alcuni studiosi (McKenna – Green – Gleason, 2002) hanno identificato le principali motivazioni che rendono le relazioni sui social apparentemente più ‘semplici’. Vediamole brevemente.
- La possibilità di superare le barriere spaziali;
- La comunicazione ‘iperpersonale’ (le persone sono tendenzialmente più disposte ad aprirsi su internet che non nella vita off-line);
- Un elevato livello di idealizzazione. I vuoti informativi dovuti alla mancanza di informazioni relative all’altro – si pensi alla mancanza della corporeità – può provocare un aumento del livello di idealizzazione (in quanto sono spesso colmati dalle proprie aspettative);
- Minore influenza dei fattori situazionali. Il controllo che si può mettere in atto sulla propria identità virtuale diminuisce l’influenza di fattori come l’aspetto fisico o lo status sociale ed economico .
Potremmo dire che nell’epoca del web la relazione più diffusa ed efficace sia divenuta la connessione (ovvero la tecno mediazione della stessa) che ha molte caratteristiche proprie dell’era digitale: è liquida, fluida, provvisoria, ambigua e consente forme narcisistiche di espressione di sé. I legami stabili rallenterebbero inevitabilmente i tempi di vita, privando l’individuo delle molteplici opportunità socio-affettive che sembrano affacciarsi continuamente per poi dissolversi con la stessa rapidità. Si pensi alle relazioni che nascono e si sciolgono rapidamente nelle chat o sui social, ambienti virtuali nei quali è possibile entrare in contatto con tantissimi utenti che condividono con noi interessi e passioni e che, gestendo in modo strategico la propria presentazione sul web (ad esempio mediante foto contestualizzate e modificate), risultano accattivanti e spesso seducenti.
Il linguaggio utilizzato nelle relazioni sul web è poi conciso e lo scambio d’informazioni immediato. In assenza del corpo mancano i corrispettivi somatici delle emozioni –- come ad esempio la variazione del ritmo cardiaco o della respirazione – e questo può aprire ad una varietà d’interpretazioni. C’è il rischio che una personalità più fragile, meno aderente ad un piano di realtà, non valuti le diverse interpretazioni che emergono dalla comunicazione via web, tenendo conto esclusivamente dei significati che, in un verso o nell’altro, desidera. Lo schermo protettivo può in questo caso svolgere il ruolo di persecutore divenendo uno specchio contenente aspetti proiettivi.
Conclusioni
I nuovi mezzi di comunicazione se ben utilizzati sviluppano una buona capacità d’interazione ma sono contrari allo sviluppo di buone capacità relazionali.
Credo che allora sia arrivato il tempo di poter riflettere, noi adulti che abbiamo a cuore l’educazione, il benessere e il futuro delle nuove generazioni, su una possibilità di un’educazione diversa centrata sulla relazione educativa unico modo per educare e formare la personalità dei soggetti in divenire. Un’educazione lenta.
Senso critico, spirito strategico, capacità di autoregolazione, capacità affettiva, senso del limite e del rispetto, senso civico, autonomia e capacità di problem solving non necessariamente fanno parte della dotazione di un bambino o adolescente solo per il fatto che è nato e cresciuto tra monitor e tastiera e per il fatto di averne fatto uso. Queste competenze vanno sviluppate ed educate attraverso la relazione educativa faccia a faccia.
Si tratterebbe, allora di lasciare che i ragazzi, in vari contesti educativi (casa, scuola, parrocchia) esplorino il mondo secondo i loro propri ritmi, tempi e luoghi reali. In quanto l’educazione è un processo relazionale qualitativo e non quantitativo e che è un processo lento.
In conclusione, se i nuovi media sono usati da persone mature in modo responsabile sono un’importante opportunità per raccontarsi, per migliorare le proprie relazioni interpersonali e perfino per lavorare. Al contrario, se usate in maniera non responsabile da persone troppo giovani possono creare problemi e difficoltà che in alcuni casi nemmeno il tempo riesce a cancellare.
Articolo originariamente pubblicato sul sito https://alessandro-ricci.it/psicologia-delleducazione-4/