
Rembrandt van Harmenszoon van Rijn (1606-166)
Il ritorno del figliol prodigo
1669 ca.
olio su tela, 262 x 206
San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage
Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Dal Vangelo di Luca (15,11-32)
Rembrandt presentifica un evento di grazia: il ritorno di un figlio penitente tra le braccia amorevoli del padre. Se ciò a cui assistiamo è un ‘ritorno a casa’, bisogna presupporre che ci sia stata una partenza che, secondo la parabola evangelica, si è rivelata una scelta rovinosa. La ferita interiore inferta da questa separazione dalla casa paterna è ora rimarginata dall’abbraccio benedicente del padre, che non chiede nulla in cambio o in riparazione ma soltanto di arrenderci a un’evidenza: sentire intimamente che apparteniamo a questo padre e che per lui siamo figli amati da sempre. E lo saremo per sempre. In ciascuno di noi, infatti, abita un anelito di verità e di eternità che non può trovare appagamento se non nell’appartenenza alla sorgente della Vita: è appartenendo a Qualcuno (di chi sono?) che scopro la verità di me stesso (chi sono?) e anche il mio essere dono per gli altri (per chi sono?).
Non esiste esperienza più intensa e più coinvolgente di quando siamo non solo perdonati ma perfino giustificati per gli errori commessi. Scopriamo di essere raggiunti da un Amore che ci libera da tutte le realtà inquinanti in cui siamo immersi: il senso di colpa, il vuoto esistenziale, il sentirsi soli, il non-senso, l’angoscia… e percepiamo una sensazione esistenziale di fondo mai provata: di essere vivi. Quale merito abbiamo di fronte a una grazia così abbondante, immeritata e gratuita? Se ce n’è uno, è soltanto quello di saper accettare che la nostra identità profonda non è quella dei servi che si coprono il volto davanti al loro padrone non sapendo sostenerne lo sguardo, bensì quella degli amici confidenti di un Padre che sta sempre dalla nostra parte e dice-bene di noi.
Immaginiamo di aver compiuto un misfatto e che siamo convocati in tribunale per essere giudicati secondo giustizia. Riceveremo una pena commisurata alla colpa commessa. L’esperienza più sconvolgente che potrebbe capitarci è solo una sola: che il giudice incaricato di emettere la sentenza è il nostro avvocato difensore… Anziché condannarci, egli parlerà in nostro favore e alla fine ci dirà: “Io non ti condanno” (cf. Gv 8,11). Siamo salvati! Siamo salvi!
Che questo accada nella nostra esistenza è realmente possibile! Non perché ne siamo meritevoli o perché lo abbiamo in qualche modo cercato, ma perché la paternità di Chi ci fa grazia non è messa sotto condizione, non viene mai meno (cf. Mt 4,1-11). Siamo noi a sospettare, più o meno consapevolmente, della nostra identità di figli in quanto il nostro cuore ci rimprovera sempre qualcosa. È il disamore che nutro nei miei confronti a farmi dubitare che ci sia Qualcuno che mi ami indipendentemente dalle mie prestazioni o dai miei fallimenti. In fondo, la domanda più seria della vita è quella che il filosofo francese Jean-Luc Marion ha proposto come l’interrogativo ultimo della filosofia: “A me chi vuole bene?”. Detto diversamente: “Di me chi si prende cura?”.
La buona notizia è che non siamo orfani di Padre: abbiamo un Abbà (cf. Rm 8,15) che garantisce per noi e ci attrae a sé con un amore che è oltre ogni logica umana, oltre ogni misura, oltre l’immaginabile, ben al di là delle nostre fragili strategie, tutte fallimentari, di elemosinare un poco di amore per darci il permesso di continuare a (soprav)vivere. Questa ulteriorità, questa eccedenza che ci viene incontro, non si può spiegare come se fosse un problema di matematica: i conti non tornerebbero mai! Il segreto è di gustarla interiormente e rimanere permeabili ad essa. Arrendersi, allora, non è l’atteggiamento di chi si rassegna passivamente alla realtà, bensì il protagonismo di chi osa accogliere questa grazia nel proprio cuore, iniziando ad assecondarne i sussulti che orientano verso una vita buona.
Rembrandt esegue il dipinto nell’ultimo anno della sua vita terrena. L’opera è il suo testamento spirituale, in cui esprime il desiderio più intimo e atteso di tutta la sua esistenza: andare incontro al Padre per consegnarsi definitivamente alle sue braccia, avendo sulla bocca le parole del salmista: “poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode” (Sal 62,4).