Diario di un dolore

Clive Staples Lewis
1961

Professore di letteratura medievale e rinascimentale, critico letterario, saggista, apologeta e romanziere (suoi sono la “trilogia dello spazio”, composta dai volumi Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza, e il ciclo Le cronache di Narnia), C.S. Lewis (1898-1963) è una figura intellettuale rilevante nel panorama britannico, animatore del gruppo degli Inklings, all’Università di Oxford, insieme a J.R.R. Tolkien (autore del romanzo Il Signore degli Anelli). Dopo aver abbandonato la fede durante l’adolescenza, in età adulta si converte al cristianesimo anglicano. Divenuto uno scrittore affermato, in età matura sposa Helen Joy Davidman, poetessa e scrittrice statunitense (la loro storia verrà raccontata nel film Viaggio in Inghilterra, 1993, di Richard Attenborough). La morte della moglie, nel 1960, diviene per Lewis l’occasione per una profonda meditazione sulla vita, la fede, la sofferenza, l’amore, consegnata alle pagine di Diario di un dolore.

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Clive Staples Lewis (29 novembre 1898 – 22 novembre 1963)

Cancro, cancro, e ancora cancro. Mia madre, mio padre, mia moglie. A chi toccherà ora?
Ma H. stessa, che ne moriva e lo sapeva, diceva di aver perduto gran parte del suo antico orrore. Quando giunse la realtà, il nome e l’idea erano ormai in qualche misura disarmati. E fino a un certo punto arrivai quasi a capirlo anch’io. Questo è importante. Non si hanno mai di fronte semplicemente il Cancro, o la Guerra, o l’Infelicità (o la Felicità). Si ha di fronte ciascuna ora o momento singolarmente. Alti e bassi di ogni genere. Molti punti neri nei momenti buoni, molti punti luminosi nei momenti peggiori. Non si ha mai l’impatto totale di quella che chiamiamo «la cosa in sé». Che è poi un termine sbagliato. La cosa in sé è semplicemente la somma di tutti quegli alti e bassi; il resto è un nome o un’idea.
È incredibile quanta felicità, e persino quanta allegria, abbiamo a volte conosciuto insieme, dopo che ogni speranza era scomparsa. Come abbiamo parlato a lungo, quietamente, nutrendoci l’uno con l’altra, quell’ultima sera!
E tuttavia, non completamente insieme. C’è un limite all’essere «una carne sola». La debolezza dell’altro, la sua paura, la sua sofferenza non puoi farle tue. Potrai aver paura e soffrire anche tu. È forse pensabile che tu possa aver paura e soffrire quanto l’altro, anche se diffiderei subito di chi mi assicurasse che è così. Ma sarebbe pur sempre un soffrire diverso. Quando dico paura, intendo la nuda paura animale, l’arretrare dell’organismo davanti alla propria distruzione; l’impressione di soffocare; il sentirsi un topo in trappola. Questo non lo si può trasmettere. La mente riesce a immedesimarsi, il corpo meno. Meno che mai, in un certo senso, i corpi di due amanti, perché tutti i loro scambi amorosi li hanno addestrati ad avere l’uno per l’altro sentimenti non identici, bensì complementari, correlativi, addirittura opposti.
Noi questo lo sapevamo entrambi. Io avevo le mie infelicità, e non le sue. Lei aveva le sue, e non le mie. La fine delle sue avrebbe reso adulte le mie. Ci stavamo incamminando su strade diverse. Questa fredda verità, questa terribile regolamentazione del traffico («Lei a destra, signora... Lei, signore, a sinistra»), non è che l’inizio di quella separazione che è la morte stessa.
E questa separazione ci attende tutti, presumo. Finora mi era parso che H. e io, strappati così l’uno all’altra, fossimo stati particolarmente sfortunati. Ma forse tutti gli amanti lo sono. Una volta mi disse: «Anche se morissimo entrambi nello stesso istante, qui, sdraiati fianco a fianco, non sarebbe meno separazione di quella che tu temi tanto». Naturalmente neanche lei sapeva. Ma era vicina alla morte, abbastanza vicina da sfiorare la verità. Era solita citare: «Soli nell’Uno e Solo». L’impressione, diceva, era quella. E com’è immensamente improbabile che sia altrimenti! Il tempo, lo spazio e il corpo sono state le cose che ci hanno uniti, i fili telefonici grazie ai quali comunicavamo. Isola uno dei due, o tutti e due insieme. In un caso o nell’altro la conversazione non dovrà forzatamente interrompersi?
A meno di non postulare l’immediata consegna di un altro mezzo di comunicazione, affatto diverso, ma che svolga la medesima funzione. Ma allora, a che scopo fornirci quello vecchio? Dio è forse un pagliaccio che ti strappa di mano la scodella di minestra e un attimo dopo te ne dà un’altra colma della stessa minestra? Neanche la natura arriva a questi punti. Nulla viene mai ripetuto tale e quale.
È difficile non irritarsi con quelli che dicono: «La morte non esiste», oppure: «La morte non ha importanza». La morte esiste. E tutto ciò che esiste ha importanza. E tutto ciò che accade ha conseguenze ed è, come queste, irrevocabile e irreversibile. Tanto varrebbe dire che la nascita non ha importanza. Alzo gli occhi al cielo notturno. Vi è qualcosa di più certo del fatto che in tutte quelle vastità di tempi e di spazi, se mi fosse dato di cercare, non troverei mai il suo viso, la sua voce, il tocco della sua mano? È morta. Morta. È così difficile imparare questa parola? […]
Se sapessi che essere diviso da H. per l’eternità e per l’eternità dimenticato da lei accrescerebbe la gioia e lo splendore del suo essere, è chiaro che direi: «Ci sto!». Così come, qui in terra, se il non rivederla mai più avesse potuto farla guarire dal cancro, avrei fatto in modo di non rivederla mai più. Non avrei potuto fare diversamente. Qualunque persona di coscienza farebbe lo stesso. Ma no, non va bene. La situazione in cui mi trovo ora è tutt’altra.
Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un «nessuna risposta» di tipo speciale. Non è la porta sprangata. Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda. Come a dire: «Zitto, bimbo; tu non capisci». […]
Quando la fine fu vicina, le dissi: «Se puoi... se è permesso... vieni da me quando sarò anch’io sul letto di morte». «Se è permesso!» rispose. «Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto all’Inferno, lo ridurrei in briciole». Sapeva di usare una sorta di linguaggio mitologico, con una nota di arguzia, perfino. Negli occhi, insieme alle lacrime, le brillava una risata. Ma non c’erano miti o scherzi nel lampo della volontà, più profonda di qualsiasi sentimento.
Tuttavia, l’esser giunto a fraintendere un po’ meno totalmente che cosa potrebbe essere una pura intelligenza non deve farmi sporgere troppo in là. C’è anche, qualunque ne sia il significato, la resurrezione della carne. Non possiamo capire. Il meglio è forse ciò che meno comprendiamo.
Non si disputava un tempo per stabilire se la visione finale di Dio fosse soprattutto un atto di intelligenza oppure di amore? È probabilmente una delle tante domande senza senso.
Che malvagità sarebbe, se ne avessimo il potere, richiamare in vita i morti! Non a me, ma al cappellano, disse: «Sono in pace con Dio». E sorrise, ma non a me. Poi si tornò all’etterna fontana[1].



[1] Dante Alighieri, La Divina Commedia - Paradiso: C. XXXI, v. 93.

C.S. Lewis, Diario di un dolore, Adelphi, Milano 1995, pp. 18-22, 77-78, 84-85.