I computer e l’eternità. Per un’escatologia digitale

Luca Peyron
2019
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Luca Peyron (31 marzo 1973)

«Because on the Internet, you can live forever…»: così si è accolti dal sito digitaldeath.com, che si occupa di amministrare i nostri beni digitali post mortem. Il sogno pare si avveri: grazie alle tecnologie emergenti si vivrà per sempre o potremo illuderci di non morire più. Sappiamo già che la secolarizzazione ha ampiamente contribuito a marginalizzare la morte e come i cimiteri siano stati spostati lontano della vita quotidiana sino a sparire del tutto nelle grandi metropoli; così la stessa parola "morte" è sostituita da parafrasi utili alla causa del nascondere. Far sparire la morte dal nostro orizzonte non l'ha, ovviamente, eliminata dagli accadimenti del nostro esistere, ma ha significativamente modificato il senso del vivere. Allontanata come supremo simbolo del fallimento umano e come male morale da combattere perché ingiusta, si vendica avvelenando i pozzi a cui bevono soprattutto i giovani. I videogiochi educano con costanza e meticolosità al fatto che esistano diverse vite, addirittura infinite se si è sufficientemente ricchi o scaltri, vite da spendere o mettere in pausa. Le tecnologie cyborg ci hanno quasi definitivamente emancipato dal chiederci se si possa fare, consegnandoci unicamente l'ansia di sapere quando si potrà fare, favorendo l'equazione morale per cui il fattibile è immediatamente giusto. Avremo udito ipersensibile, mobilità assicurata al di là di ogni osteoporosi, memoria sconfinata affidata a un cloud e una vista a interfacce che ci permetterà di leggere l'invisibile e di codificare rapidamente l'ignoto, eliminando così il bisogno naturale di una presenza salvifica trascendente. La fantascienza sembra avere persino difficoltà a star dietro ai comunicati stampa delle grandi imprese globali nate nella Silicon Valley. Tutto questo affascina le generazioni di mezzo, mantenendo molte delle promesse che tutti sino a ora avevano disatteso, spaventa le generazioni più anziane a cui non basta il buon senso per potersi orientare ed è avvertito come naturale per gli ultimi arrivati, che faticano a comprendere come potessimo vivere prima e, soprattutto, come potessero i nostri nonni tenere in così grande considerazione la morte e Dio.

Ho condensato in poche righe quanto meriterebbe di più, ma ciò che ritengo importante non è fare una fotografia accurata del presente, quanto piuttosto darne una interpretazione ribaltando il piano. La rivista «Wired», tra le più importanti nel settore digitale, ha scritto che abbiamo bisogno di un'etica per l'intelligenza artificiale, ma certamente non un'etica che si basi sui valori tradizionali che, in quanto tali, sarebbero incapaci di intercettare il futuro. La mia tesi di fondo è uguale e contraria: per governare la rivoluzione digitale abbiamo bisogno di recuperare e valorizzare gli elementi provati della nostra tradizione millenaria, a partire dalla riserva escatologica che il cristianesimo ci ha consegnato e tramandato. Non è infatti pensabile alcun futuro senza un passato, senza solide radici già vagliate dalla storia e, in prospettiva credente, ancorate alla Rivelazione.
Se postuliamo il bisogno di un'etica, ad esempio, lo facciamo a beneficio dell'essere umano in quanto tale e, sebbene la tecnologia sia espressione dell'umano, essa non riassume tutto ciò che l'umano è e ciò di cui è capace o ha bisogno. Un'etica figlia della sola tecnica o di valori orientati dalla sola tecnica sarebbe un costrutto di fatto poco più che utilitaristico e di corto respiro. Per governare la tecnologia abbiamo bisogno invece di un quadro più ampio, che non sia solo tecnologico. La ripresa di alcuni valori ci permette per un verso di custodire i traguardi tecnologici e per l'altro di non derivare in un insidioso riduzionismo per cui l'umano si identifica con la macchina che crea.
La ripresa escatologica ci consegna così un significativo guadagno, come ebbe a dire Johann Baptist Metz, per cui l’escatologia ci protegge da una concezione puramente tecnologica del futuro, recuperando il peso ineludibile delle promesse bibliche (cfr. Sulla teologia del mondo). Escatologia, come ricorda il Concilio, significa anche che «l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo». (Gaudium et spes 39). È fondativo affermare quindi che il futuro verso cui siamo proiettati, e su cui costruire la nostra speranza, non è quello tecnologico, ma quello escatologico, la risurrezione in Cristo che illumina il nostro essere nel tempo e nello spazio. Siamo creatura nuova (cfr. 2Cor 5,16; Gal 6,15) e l'essere creati in Cristo e in vista di Cristo ci dice che la realtà storica che viviamo è allo stesso tempo capace di dire Cristo e capace di essere a Lui orientata. La morte è uno strumento rivelativo di Cristo e di orientamento a Cristo e alla sua risurrezione, proprio come esclama il centurione pagano nel vedere Gesù spirare sulla croce (cfr. Mt 27 ,54; Mc 15,39) . Questa capacità di senso, opportunamente compresa e declinata, ha un grande potenziale e non solo per i credenti.
È necessario premettere che l'escatologia non deve avere esclusivamente una funzione moralizzatrice della realtà e dunque anche della cultura digitale: premio e castigo finale non possono essere i soli strumenti di governo.
Ciò detto, analizziamo brevemente alcune tendenze della culturale digitale riletti con la lente escatologica. La prima tendenza è quella di pensare che tutto sia in qualche modo reversibile o replicabile, mai veramente definitivo o chiamato a esserlo. La morte, come evento che consuma la vita e le pone un termine, mette invece in fila i giorni imponendo di mettervi un ordine. Morire non è la fine, ma prelude a un fine restituendo la dignità e la libertà di scelte ponderate che facciano fruttare il tempo. Ogni esperienza, benché ripetibile, resta unica in sé, perché comunque numerabile in un complesso che è finito.

digital world

La seconda tendenza della rivoluzione digitale è di omologare, integrare, standardizzare la vita e le persone, perché un sistemacomputazionale non è in grado di accettare al suo interno infinite variabili. Per questo, sistemi ed esseri umani devono ibridarsi sempre di più e integrarsi nelle pasture mentali, fisiche e identitarie con il sistema, pervenendo a una standardizzazione del linguaggio, delle aspirazioni e delle esistenze nel loro complesso, con un conseguente impoverimento incapace di innovazione, paradosso definitivo di un tempo che si narra figlio di continue innovazioni. La morte invece sottolinea il carattere unico e irripetibile del nostro esistere e restituisce la finitezza dell'umano e la necessità che esso si debba aprire agli altri, all'Altro. La morte rivela il bisogno dell'amore che, unico, restituisce senso al vivere consistente, quel riconoscimento nell’alterità dell’essere unici e importanti per qualcuno. L’umanesimo digitale, illuminato dal morire, comporta così la possibilità di preservare, se non incentivare, la diversità, divenendone strumento di custodia e di giustizia nel permettere alla diversità di avere quartiere e rilevanza, non relegando alla statistica algoritmica la parola conclusiva nei processi decisionali, soprattutto di carattere politico, sociale ed economico.

La terza tendenza che esaminiamo è la smaterializzazione.  La realtà è narrazione, dato, informazione più che peso e fisicità. Il digitale promette di mantenere in vita più che la persona la sua identità digitale a-corporea, smaterializzata, infinitamente replicata e nel contempo dispersa, frantumata in un puzzle di infinite tracce digitali. Alla relazione si sostituisce la connessione, che genera stress e solitudine perché chiede all'umano performance che sono della macchina, senza la capacità rigenerativa e umanizzante della relazione. L'escatologia restituisce valore al corpo: la risurrezione dei corpi è il compimento del nostro esistere perché in essa si compie la promessa di relazione totale e totalizzante con Dio. li corpo non è più solo un involucro, ma una garanzia di identità e il medium di relazioni autentiche, più difficilmente sottomesse alla finzione e alla mistifìcazione digitale. Con il corpo entra nel compimento finale l'intera storia di una persona. L'escatologia ci restituisce l'unità del nostro io ricompattandoci e restituendo la persona a se stessa in dimensioni di tempo e di spazio che essa possa gestire, assaporare e custodire.

Infine la rivoluzione digitale ci consegna ancora una volta l'illusione di essere Dio: progettare, manipolare, controllare, vedere tutto, prevedere tutto. L'escatologia ci restituisce la certezza di non essere Dio, ma di essere per questo ancora più contenti, perché non dobbiamo provvedere a noi stessi, al creato e al futuro da soli. Come ha scritto Benedetto XVI: «il cristianesimo drammatizza la sete del vivere e la trasforma in sete di Dio, vedendo in essa la pienezza della salvezza» senza paura della morte e senza dover pensare che possa essere una macchina a doverci salvare, né una macchina colei che porrà fine alla parabola dell'esistenza umana.  Una escatologia che tiene conto oggi della rivoluzione digitale è una escatologia, evocando Pierre Lévy, che ci può aiutare a governare le irreversibilità, individuare le occasioni e le virtualità che ci aiutano a progettare il futuro, investendolo già dell’eternità.

L. Peyron, I computer e l’eternità. Per un’escatologia digitale, «Vita e Pensiero», 102 (2019), n. 6, pp. 85-88. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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