Vincent van Gogh, Il buon samaritano (1890)

 

Vincent van Gogh (Zundert 1853 – Auvers-sur-Oise 1890)

Il buon Samaritano
1890

Olio su tela, 86x70 cm
Otterlo, Kröller Müller Museum

Vincent van Gogh eseguì questo dipinto nel maggio 1890, due mesi prima della morte per presunto suicidio avvenuta il 29 luglio, ispirandosi a una litografia del pittore francese Eugène Delacroix. L’opera, eseguita con la caratteristica pennellata densa e carica di colori accesi, fa parte di una serie di quadri a soggetto sacro realizzati dopo una delle numerose crisi che segnarono la vita del pittore e sembra per questo evocare un anelito alla salvezza. Figlio di un pastore protestante, van Gogh aveva una profonda conoscenza delle Scritture e della letteratura cristiana, in cui riconosceva un messaggio di redenzione che toccava le corde più profonde della sua sensibilità.

La scena si svolge lungo un sentiero, su una strada fuori città. Il soggetto è quello di una parabola narrata da Gesù di Nazaret e riportata dal vangelo secondo Luca (cf. Lc 10,29-37). Al centro vediamo il “buon samaritano” mentre issa faticosamente sul cavallo il malcapitato che, secondo la parabola evangelica, è incappato nei briganti: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto» (Lc 10,30).
Prima di soffermarci sui protagonisti della scena, osserviamo quel che accade intorno. Sulla sinistra, il sentiero prosegue fuggendo tra le colline. Lungo il sentiero scorgiamo due figure che danno le spalle al dolore del viandante e all’intervento del samaritano: «Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre» (Lc 10, 31-32).
Che cosa c’è di tanto perturbante nella sofferenza di chi incontriamo lungo il nostro cammino? Diverse le risposte possibili. Il dolore dell’altro – anche se provo a ignorarlo – non mi lascia indifferente, anzi sembra riversarsi su di me con una forza che incute timore: nel quadro di van Gogh perfino il paesaggio vibra penosamente della sofferenza patita dall’uomo. Nell’esperienza della propria fragilità, avvertita massimamente nel momento della malattia e del dolore, la percezione dell’essere umano si modifica fino a far apparire tutto il mondo sotto una luce diversa.
Ma questa sensazione non riguarda solo colui che soffre: il dolore si diffonde tutt’intorno perché il male ha effetti reali sul mondo e sugli altri.
«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (Lc 10, 33-34). Farsi carico del dolore degli altri è oneroso, costa sforzo, come ben messo in luce dalla silhouette del Samaritano. In primo luogo, nella fragilità dell’altro vedo la mia stessa fragilità: il dolore di chi mi sta intorno mi costringe a riscoprirmi un essere finito, limitato, bisognoso. In secondo luogo, farsi prossimo non significa semplicemente risolvere i problemi materiali di chi incontro sul mio cammino, ma vuol dire condividerne le gioie e i dolori in profondità, lasciando che la mia carne vibri all’unisono con quella dell’altro. Al dolore del viandante nel quadro corrisponde lo sforzo del samaritano che, col busto piegato indietro e i muscoli tesi, solleva il ferito. Quest’ultimo, da parte sua, pare stringere il soccorritore in un abbraccio, un gesto insieme supplichevole e infantile, che avanza una richiesta e allo stesso tempo mostra un fiducioso abbandono.
Il cielo è scuro, minaccia pioggia, ma su questa scena di solidarietà si apre uno squarcio d’azzurro: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello [un dottore della legge] rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' così"» (Lc 10, 36-37).