Il destino ultimo: felicità e comunione con Dio

Giacomo Biffi
1984

“Materialismo cristiano”

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Gustave Doré, Rosa Celeste, illustrazione del canto XXXI del Paradiso di Dante (1861)

La verità della risurrezione manifesta un atteggiamento caratteristico del cristianesimo, che talvolta è stato lasciato nell'ombra. Il cristianesimo non identifica l'uomo con l'anima e non ritiene affatto che il corpo sia l'involucro da cui ci si dovrà un giorno liberare per possedere una vita più piena. Anzi ritiene che la pienezza di vita debba necessariamente comportare una rivalutazione del corpo. Nessuna disistima per la realtà corporea può essere detta cristiana. Se qualche volta si è potuto dare l'impressione di aver posto tutta l'attenzione sulla immortalità della spirito senza corpo, questo è avvenuto solo perché in certi momenti la concezione platonica dell'anima separata è parsa l'unico strumento culturale capace di esprimere la verità fondamentale della sopravvivenza dell'uomo.
Il fortissimo influsso della cultura greca sul cristianesimo non ha comunque insidiato mai la convinzione e l'attesa della integrale restaurazione dell'uomo.
Allo stesso modo, la fede cristiana non pone il nostro traguardo e il nostro ideale in un regno di spiriti assolutamente lontano e diverso dal mondo materiale in cui viviamo, ma in questo stesso universo purificato e redento.
La meta, come si vede, non è un «altro mondo», ma è la trasfigurazione di questo. Le realtà terrestri non vanno negate e avvilite, perché saranno con noi nel nostro destino di gloria, anche se non si possono incautamente esaltare così come sono, perché restano per noi, finché non si è dispiegata anche su di loro la forza della redenzione di Cristo, malate, ambigue, deludenti.
Questa forza però già si esercita su di esse: l'energia che si sprigiona dal Risorto può già da adesso avviare la loro guarigione; l'azione santificante e i gesti consacratori della Chiesa possono farle uscire dalla loro ambiguità, ricuperando la finalità originaria; l'occhio della fede può già leggere in esse le vestigia della derivazione da Cristo ed esserne intimamente allietato.
Ma è una sublimazione incoattiva, faticosa e non indolore, dal momento che il male esercita ancora su di esse il suo oscuro dominio. Soltanto l'ultimo giorno purificherà radicalmente le realtà della terra, bruciando ogni scoria e recuperando ogni vero valore.
Soltanto allora questo nostro mondo tormentato, inquieto, così tedioso a volte e a volte così affascinante potrà essere illuogo della nostra pace, della gioia, della nuova esistenza.
Come si vede, possiamo perfino parlare a questa punto di un «materialismo cristiano»; un materialismo che non è negazione della spirito, pur essendo esaltazione della materia; che non è negazione di Dio, pur essendo esaltazione dell'uomo e del suo destino; che non smarrisce il senso del Regno dei cieli, pur celebrando la bellezza nativa e la sostanziale bontà di tutte le cose della terra.

 

La comunione col Padre

La risurrezione corporea è l'aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell'umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l'ambito puramente creaturale.
Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: «lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). L'elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione col Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione. Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.
In che cosa consisterà questa intimità col Padre? Sarà senza dubbio una unione d'amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed e ciò che ci consente di essere già adesso nella «vita eterna», secondo l'insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: «La carità non avrà mai fine» (1 Cor 13,8).
La differenza sta nel fatto che l'amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall'atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale.
Invece l'amore dell'uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l'insegnamento biblico, è l'Invisibile e l'Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari:

 

La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l'ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto (1 Cor 13,9-12).

 

 Se per la carità e per la vita di grazia già adesso siamo nella patria, la fede ci colloca ancora in una specie di esilio, perché manchiamo di una conoscenza che sia diretta e appagante. «Finché abitiamo nel corpo, siamo in esilio lontano dal Signore», perché «camminiamo nella fede e non ancora in visione» (2 Cor 5 ,6-7).
La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità: «Noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1 Gv 3,2).
Come si vede, il futuro stato di gloria e l'aperta comunione di vita col padre sono presentati dalla Rivelazione come il corollario, sorprendente ma coerente e logico, del rinnovamento operata in noi dal battesimo:

 

Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà rivelarsi in noi (Rm 8,16-18).

 

E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza «ecclesiali», così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una «citta santa», di un «popolo nuovo», della «Chiesa escatologica», insomma:

 

Vidi la citta santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la notte né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate (Ap 21,2-4)

 

[…]

 

La felicità

Questo possesso di Dio sarà perfettamente saziante. In altre parole, l'uomo arriva qui a quella felicità – intesa come beatitudine assoluta, senza ombre, senza incrinature, senza timori – che durante l'esistenza terrena ha continuato a inseguire, a guisa di un pellegrino impazzito che si fosse messo in testa di raggiungere l'orizzonte. […]
Con la certezza della felicità escatologica si scioglie l'enigma dell'uomo che è la sola creatura i cui desideri eccedono sempre le proprie possibilità di appagamento. Anche dalle cose più belle e più buone, alla fine si resta sempre delusi. A meno di tarparsi le ali dello spirito e interdirsi volutamente ogni aspirazione più alta, l'uomo non è mai del tutto soddisfatto. Perciò giustamente Omero dice che è «il più infelice di quanti animali respirano sulla terra». Sant'Agostino con una intuizione famosa ha parlato della «inquietudine del cuore»: «Tu ci hai fatto, o Signore, per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in te».
Come non troviamo le ragioni ultime e vere della nostra esistenza né in noi né in nessuna creatura fuori di noi, così niente in noi o fuori di noi può darci una gioia autentica e piena.
È la grandezza e insieme la miseria dell'uomo, che è finito nelle sue capacità e sconfinato nelle sue aspirazioni; che è attirato da ogni esiguo valore e da ogni goccia di piacere, ma può essere appagato solo da un bene infinito.
Ebbene, la sproporzione incolmabile tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere è superata dall'amore di Dio, che si offre oltre ogni speranza come traguardo inebriante e pacificante della nostra corsa.
Soprattutto ogni gioia terrena ci è guastata più o meno sottilmente dal pensiero che o presto o tardi ci sarà tolta. La consapevolezza della provvisorietà dà una venatura di tristezza anche alle ore più liete. La certezza della eternità renderà invece assoluta e piena la felicità della vita escatologica e sarà in grado di darci una letizia che sarà al tempo stesso ardente e tranquilla.

G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1984, pp. 44-50.

 

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