«Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere». Parole serie, queste, che si leggono nel libro di Giobbe (13,3). Tra le più serie che la Bibbia contenga. Non le pronuncia, come si potrebbe pensare, l’avversario biblico di Dio, Satana, ma un uomo. Un semplice uomo che osa rivolgersi a Dio sfidandolo, chiamandolo in causa, a contesa. Chi le grida è Giobbe, un uomo giusto, religioso ma non appartenente al popolo ebraico, un uomo che sa ciò che dice e a Chi lo dice. Sono parole nelle quali può trovare espressione la domanda che erompe dal cuore di ogni uomo, religioso o no, di fronte alla sofferenza e al male che aggrediscono la vita innocente senza apparente motivo. Come dirà Voltaire, molti anni più tardi, dopo il devastante terremoto di Lisbona del 1775: «Muta è Natura e invan la interroghiamo: ci occorre un Dio che parli all’uomo; spetta a lui di spiegar l’opera sua, di consolare il debole e illuminare il saggio» (Poema sul disastro di Lisbona. O analisi della filosofia del “Tutto è bene”). E dopo di lui molte altre voci si sono levate e si levano per chiedere conto a Dio di calamità naturali come gli tsunami e le pandemie, o di drammi causati dall’uomo come la Shoa, i genocidi e le guerre. Giobbe è quasi un portavoce del grido dell’umanità che, nel mezzo dell’esperienza del male in qualunque forma, si rivolge in definitiva a Dio chiedendo non solo conforto ma anche, e forse soprattutto, una spiegazione.
Chi è Giobbe? La sua storia è narrata nell’omonimo libro, considerato una perla della tradizione sapienziale raccolta nella Bibbia e un classico della riflessione universale sul senso del dolore umano. Il testo biblico non consente di stabilire la storicità della vicenda di cui egli è protagonista. Assai probabilmente si tratta di una narrazione morale che ha in Giobbe un personaggio solo rappresentativo; ma forse, proprio per tale motivo, queste pagine della Bibbia sono capaci di dare espressione alla protesta di fronte all’ingiustizia e al dolore, specie quello innocente, che accomuna tante persone umane. La voce di Giobbe diviene emblematica, acquista un valore universale. Anche perché Giobbe è un uomo comune: non è un israelita e non appartiene al popolo dell’Alleanza. La sua patria non è ben definita: egli viene da Us, forse nel territorio di Edom, l’Idumea a sud della Giudea, una regione tradizionalmente ostile ai giudei date le sue ascendenze da Esaù, fratello e rivale di Giacobbe, padre del popolo di Israele.
La vicenda di Giobbe è quella di un uomo che all’improvviso, dopo una vita vissuta nella fedeltà a Dio e ai suoi precetti, è colpito da una serie di disastri e calamità che lo spogliano di tutto: dei suoi amati figli e delle sue ingenti proprietà. Per ultimo, anche la sua salute viene minata da una malattia che gli procura dolore persistente in tutto il corpo. Giobbe accetta l’inspiegabile cumulo di sofferenza senza ribellarsi a Dio. Criticato aspramente dalla moglie per tale atteggiamento, riceve infine la visita di tre amici che cercano di aiutarlo a comprendere il motivo e il senso di ciò che gli è accaduto. Al di sopra della vicenda che si svolge sulla terra, il prologo del libro presenta una scena che ha luogo nel cielo: Satana chiede a Dio di sottoporre a una prova la fedeltà di Giobbe, che egli insinua essere fittizia e interessata. Togliendogli tutto ciò che è per Giobbe fonte di felicità, afferma Satana, si vedrà se la sua fede e la sua devozione a Dio sono autentiche e sincere. In questo modo il libro di Giobbe, nel suo prologo, sembra voler tranquillizzare il lettore: la sofferenza innocente non ha Dio come causa; l’origine del male che affligge il giusto non è Dio, ma l’invidia del demonio. Questa spiegazione, tuttavia, non rende ragione del perché Dio non eviti, potendolo fare, una simile ingiustizia. La domanda sul male resta e Giobbe la eleverà a Dio con tutte le sue forze, nei capitoli centrali del libro. Egli si ritiene innocente e giusto, sente che a lui non si può applicare ciò che la sapienza tradizionale indica come “legge della retribuzione”, secondo la quale l’uomo che opera il bene riceve il bene, mentre quello che opera il male riceverà un giusto castigo.
Il dramma di Giobbe non consiste solo nel fatto di soffrire in modo indicibile, nell’animo e nel corpo, ma anche nel vedere che contro di lui si leva quella stessa “sapienza” su cui aveva fondato la propria esistenza e la sua intera condotta di vita. Nel momento in cui, non potendo più trattenersi, Giobbe esplode in un lamento amaro e maledice il giorno in cui è nato (cf. Giobbe cap. 3), egli si sente rinfacciare dai suoi amici, venuti in teoria per consolarlo, proprio quegli insegnamenti che egli stesso aveva predicato tante volte. Così Elifaz ricorda a Giobbe che Dio è il giusto per eccellenza, capace di vedere imperfezioni anche negli esseri più puri e gli rammenta la dottrina sul bene come premio e il dolore come castigo delle azioni umane. Bildad spiega che i mali capitati a Giobbe e ai suoi figli devono necessariamente essere il salario di qualche loro colpa e che l’unica condotta sensata è pentirsi davanti a Dio e attendere nuovamente la sua benedizione. Di fronte alle resistenze di Giobbe, Zofar lo ammonisce aspramente e rinnova l’invito a convincersi di essere peccatore e a convertirsi.
Giobbe sperimenta nella sua carne che quella sapienza tradizionale, con la sua legge di retribuzione, viene contraddetta dalla realtà. Precisamente il fatto che egli sia un uomo religioso e giusto accentua il senso di “ingiustizia” che la sofferenza suscita in lui. L’intero libro sembra avere proprio come scopo quello di scardinare la semplicistica convinzione che gli avvenimenti dolorosi della vita siano un castigo divino per i peccati commessi. Una convinzione molto radicata, non solo al tempo di Giobbe, ma ancor oggi quando, colpiti da un male imprevisto, domandiamo: “Perché proprio a me? Cosa ho fatto per meritarlo?”. E dunque, se la giusta retribuzione per le opere commesse non può essere una spiegazione della sofferenza umana, qual è il motivo e il senso del dolore? A chi possiamo appellarci per avere una risposta e per sperare che il male e la morte non abbiano l’ultima parola?
La coscienza contemporanea sembra avere quasi del tutto rimosso la possibilità di appellarsi a Dio. Dopo aver fatto del dolore (specie se innocente) una sfida a Dio e dopo aver deciso che non c’è risposta (né, forse, Qualcuno che ascolti la nostra domanda) l’uomo contemporaneo si limita a curare le ferite ricevute e tenta in vari modi di riempire il senso di vuoto indotto dalle domande senza risposta. Resta dentro come un dolore sordo, che forse neanche si traduce in protesta. Emerge forse la speranza, implicita, che Qualcuno abbia la nostra vita nelle sue mani, mani amorevoli, anche se resta in silenzio. Rassegnarsi dunque ed eliminare del tutto la domanda sul senso della sofferenza e del dolore? Giobbe non si rassegna e la sua vicenda sembra indicare all’uomo una strada diversa.
È interessante che una possibile etimologia del nome “Giobbe” abbia come significato: Dove è mio padre? Già il nome di Giobbe, dunque, alluderebbe di per sé all’appello che l’incomprensibile sofferenza fa sorgere prepotentemente nel suo cuore. Mentre i suoi amici gli parlano di Dio in modo distaccato e astratto, Giobbe parla con Dio chiedendosi dove sia suo Padre; grida a Dio, non accettando il suo silenzio e la sua lontananza. Forse nessun altro personaggio biblico parla a Dio con tanta franchezza quanto quest’uomo che non appartiene al popolo dell’Alleanza, ma dimostra di conoscerlo in modo più autentico e profondo. Egli, che al proprio dolore preferirebbe la morte (cf. Giobbe 7,15), o addirittura vorrebbe non essere mai nato (cf. 10,18), ancor meno tollera il silenzio di Dio. Così, dopo aver ascoltato gli amici e trovando insufficienti le loro spiegazioni, Giobbe si rivolge a Dio con una franchezza che, se non fosse per la forza della disperazione che lo anima, si potrebbe scambiare per insolenza: «Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere» (13,3); «Mi uccida pure, io non aspetterò, ma la mia condotta davanti a lui difenderò» (13,15). La sfrontatezza di Giobbe esprime in fondo una fiducia radicale in Dio, almeno la fiducia che a Lui ci si possa rivolgere per chiedere spiegazioni. Nel fondo dell’animo di Giobbe non scomparirà mai la luce della fede, per quanto messa alla prova dagli eventi. Egli afferma senza mezzi termini: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (19,25-27).
Al di là dell’espressione poco convenzionale, il chiamare Dio in giudizio per voler “contendere” con Lui, è in fondo già un atto di preghiera. Giobbe non si rivolge alla falsa immagine di un Dio che distribuisce sulla terra mali ai cattivi e favori ai giusti, un’immagine che gli amici Elifaz, Bildad e Zofar, nonché la sapienza fino ad allora ritenuta valida, gli presentano; Giobbe vuole rivolgersi al Dio vero, nel quale egli sente di poter trovare la vera giustizia e riporre la sua fiducia. E il Dio vero gli risponde. Lo fa in modo sorprendente. Lo invita ad uscire, a guardare fuori il cielo stellato, ad osservare la natura, gli animali, la vita che si riproduce e popola la terra. Adesso è Dio a parlare e porre a Giobbe delle domande serrate: «Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha steso su di essa la misura? […] Puoi tu annodare i legami delle Pleaidi o scioglier ei vincoli di Orione? Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino o puoi guidare l’Orsa insieme con i suoi figli?» (Giobbe 38,4-5.31-32).
E ancora: «Sai tu quando figliano le camozze e assistetti al parto delle cerve? Conti tu i mesi della loro gravidanza e sai tu quando devono figliare?» (39,1-2). Giobbe viene invitato ad osservare la provvidenza che Dio esercita su tutte le cose: come Dio ha cura di ogni vivente, secondo strade che solo Lui conosce, perché lui solo è il Creatore, così avrà cura anche di Giobbe. Il contatto con la natura è proposto a Giobbe come medicina per tornare a sperare, per tornare a fidarsi, per ricordare che le vie con cui Dio conduce ogni cosa verso il suo fine non siamo noi a stabilirle, ma Lui. Giobbe ha capito. Ha rimesso le cose al loro posto. La logica di Dio non è sempre la logica dell’uomo, ma Dio offre all’uomo ragioni per fidarsi di Lui. Giobbe ha fatto esperienza della Sua presenza onnipotente e sapiente, un’esperienza che, così intensa, non aveva mai fatto prima: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (42,5-6). Giobbe non ha ricevuto una risposta formale, una “spiegazione” a ciò che chiedeva, ma ha ottenuto in realtà molto di più: la consolazione di chi ha rieducato lo sguardo a riconoscere la vicinanza di Dio, la sua presenza buona e affidabile in tutte le cose. A questo Dio, finalmente conosciuto personalmente, Giobbe può “consegnarsi” trovando pace pur nella sua afflizione. La vicenda di Giobbe è emblematica per l’uomo di ogni tempo, la cui più paura profonda è proprio la solitudine, il sentirsi abbandonato e la sofferenza abissale che ciò comporta. Giobbe ha capito che la sua vita è preziosa agli occhi di Dio. Averne riscoperto la presenza accanto all’uomo è l’unica vera fonte di consolazione.
È interessante, a questo punto, ciò che si narra nell’epilogo del libro, quando Dio reintegra Giobbe nella sua salute e nella sua fortuna economica e familiare, donandogli nuovi figli e figlie. Qui si può forse riconoscere un ultimo tributo del testo biblico alla visione tradizionale della “legge della retribuzione” del giusto, la cui insufficienza appare tuttavia palese nel fatto che i figli persi non possono tornare in vita, né essere realmente sostituiti da altri. Da un lato, per quanto prima detto, la risposta fondamentale di Dio all’appello dell’uomo sofferente non sta in una nuova fortuna materiale adesso finalmente restituita a Giobbe, bensì nella rivelazione della Sua provvidenza e della Sua onnipotenza. Dall’altro la risposta che la vicenda di Giobbe ci consegna appare ancora “incompleta” ed apre verso una risposta ancora più profonda, perché un vero superamento della distruzione prodotta dal male non è ancora qui chiaramente affermato. La risposta compiuta all’enigma del male e della sofferenza sarebbe giunta solo alcuni secoli più tardi, come narrano i Vangeli. Tale risposta consiste ancora nella fiducia in una “presenza”, ma si stratta ora dello stesso Figlio di Dio fatto uomo, che nella sua Croce abbraccia ogni fragilità e ogni sofferenza umana e nella sua Risurrezione mostra la potenza dell’amore di Dio di riannodare i fili spezzati delle nostre vite e di portarle a compimento. Nel dramma della croce, Gesù non offre una risposta “filosofica” all’enigma dell’essere umano che soffre, ma lo persuade che Dio porta su di Sé la stessa sofferenza dell’uomo, fino a morirne. L’essere umano può fidarsi di Dio, perché Dio, innocente, soffre con lui.
La tradizione cristiana ha visto in Cristo, per certi aspetti, rappresentato il vero Giobbe. La retribuzione non è la restituzione di ciò che era perduto, ma l’ingresso in una vita davvero nuova, alla quale Dio ha destinato l’essere umano fin dall’eternità. In Cristo l’essere umano può guardare anche al di là della morte, con speranza: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! [… Egli] asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate […] Ecco io faccio nuove tutte le cose!» (Apocalisse 21,3-5).