Quando pensiamo alle parole “magistrato” e “magistratura”, l’immaginazione va di solito a personaggi togati, di una certa età, che presiedono un tribunale e giudicano casi complessi grazie alla loro competenza ed esperienza di vita. I film e le serie TV ce li presentano con l’immancabile martelletto di legno che scandisce l’apertura e la chiusura delle sessioni di giudizio di ascolto di testimoni e imputati. Per questo motivo, il titolo di un film come Il giudice ragazzino, uscito nelle sale italiane nel 1994, può risultare a prima vista inconsueto. La storia che ti invito adesso ad ascoltare è, come sempre, una storia vera: riguarda Rosario Livatino, diventato magistrato a soli 26 anni, chiamato appunto il giudice ragazzino per la sua giovane età. Un aggettivo, tuttavia, che non dà pienamente ragione della sua vita, perché Rosario fu magistrato maturo, equilibrato, prudente. Come tanti altri giovani, aveva desiderato svolgere un lavoro per il quale si era preparato, scegliendo una Facoltà universitaria che gli piaceva e puntando ad una professione per la quale si sentiva portato.
Rosario nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Compie gli studi superiori al liceo classico Ugo Foscolo e nel 1971 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Quattro anni dopo si laurea, nel 1975, e trova un primo impiego presso l’Ufficio del Registro di Agrigento. Ma Rosario vuole fare il magistrato e si prepara a sostenere il concorso nazionale per questo ruolo, un concorso non facile, che molti giovani riprovano più volte. Le sue doti e la sua forza di volontà gli consentano di superarlo al primo tentativo. Nominato nel 1978 magistrato presso il tribunale ordinario di Caltanissetta, poco dopo diviene Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, dove presterà servizio dal 1979 al 1989. Queste le parole con cui, il 18 luglio 1978, avvia la sua carriera in magistratura:
Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige.
Rosario svolge il suo impegno, umano e professionale, contro la mafia, lottando per vincere la corruzione presente nel suo territorio e smascherare il diffuso ricorso a tangenti e ricatti. Si trova ben presto a dover interrogare personalità politiche, siciliane e di livello nazionale, anche molto in vista, fino ad utilizzare lo strumento della confisca dei beni per contrastare la criminalità organizzata.
Il suo impegno a favore della giustizia lo porta a riflettere sul proprio compito, sul ruolo del magistrato e sul rapporto tra giudice e società. Ecco quanto dice, in una conferenza tenuta al Rotary Club di Canicattì il 7 aprile 1984, intitolata Il ruolo del giudice in una società che cambia:
L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai princìpi, nella sua capacità di sacrificio […], ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza. […] Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato.
Queste parole sono da lui vissute in prima persona, e proprio il viverle integralmente determina gli eventi successivi che lo coinvolgono. Da dove proviene, in questo giovane magistrato, la forza per vivere con coerenza quello che afferma? Abbiamo qualche pista per scoprirlo. Negli anni del liceo Rosario entra nell’Azione cattolica e mantiene uno stretto rapporto con la fede cristiana, sia negli anni universitari, sia successivamente, durante la sua esperienza di lavoro. Lo capiamo da alcune battute di un’altra conferenza tenuta nel 1986, intitolata Fede e diritto:
La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore. […] Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico.
Il Vangelo è un punto di riferimento fondamentale nella vita personale e professionale di Rosario, accompagnando la sua attività come uomo e come giudice.
La sua integrità come magistrato, la sua fermezza nel non voler scendere a patti e non cedere alle proposte della malavita, che giungono puntualmente, gli attira l’odio della criminalità organizzata siciliana. Protagonista di un maxi processo contro la mafia di Agrigento e Canicattì che condurrà alla condanna di 40 mafiosi della “valle dei Templi”, la posizione del giovane magistrato diventa delicata ma egli non si lascia intimidire. Pienamente consapevole dei rischi che sta correndo, Rosario Livatino decide di rinunciare alla scorta armata per non esporre a rischi la vita di altre persone. Il 21 settembre 1990, sulla strada statale da Caltanissetta ad Agrigento, che stava percorrendo per raggiungere il Tribunale di Agrigento, la macchina di Livatino viene speronata da un’auto di malavitosi. I killer esplodono alcuni colpi di arma da fuoco che feriscono Rosario alla spalle. Riesce ad uscire dall’abitacolo e tenta di sfuggire all’agguato correndo per la scarpata oltre il ciglio della statale. Viene raggiunto a piedi e ucciso, da un gruppo armato riconducibile alla organizzazione mafiosa detta Stidda. Rosario ha 38 anni. Sul luogo del delitto giungono subito dei magistrati da Agrigento e, da Palermo, i procuratori Falcone e Borsellino.
La fine drammatica cui va incontro non ferma il messaggio di giustizia che Rosario Livatino consegna con la sua vita. I responsabili, dopo vari gradi di giudizio, verranno condannati. Il suo esempio, raccolto da molti, diventa simbolo della lotto alla mafia, come lo diventa purtroppo anche il sacrificio di vari altri magistrati, fra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi entrambi a distanza di pochi mesi nel 1992. La giustizia può avere anch’essa i suoi martiri, come ogni virtù vissuta fino in fondo. Nel maggio del 1993, durante la sua visita ad Agrigento, Giovanni Paolo incontra Vincenzo e Rosalia, i genitori di Rosario. Poco dopo questo incontro, il papa pronuncerà lo storico discorso nella Valle dei Templi di Agrigento, durante il quale si esprimerà a braccio, gridando:
L'automobile di Livatino rinvenuta dopo l'attentato (21 settembre 1990)Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!
Rosario Livatino verrà beatificato il 9 maggio 2021 a Roma, prima beatificazione di un giudice nella storia della Chiesa cattolica. Dal processo emerge il perdono di Rosario verso i suoi assassini e l’odio alla fede fra i moventi dell’omicidio, qualificandolo per la Chiesa come martirio. Scrive Rosario nei suoi appunti:
«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».
Perché la giustizia sia un ideale credibile è necessario che vi siano donne e uomini pronti a scommettere la propria vita su un modello di società e di sviluppo umano che non accetti compromessi e sia rivolto al bene dei singoli e della collettività. La testimonianza di questo giovane giudice ci dice che impegnarsi su questa strada è possibile.