Il 15 giugno del 2007 si tenne preso il tempio Valdese di Torino una tavola rotonda sul tema “Teologia ed evoluzionismo”, cui parteciparono il teologo evangelico Jürgen Moltmann, il teologo cattolico Giuseppe Tanzella-Nitti e il biologo Angelo Vianello. In dialogo ideale con Moltmann – il teologo tedesco aveva sottolineato l’insufficienza di un paradigma di lotta e di competitività per spiegare il successo della vita – l’intervento di Tanzella-Nitti affronta il tema delle implicazioni filosofiche del paradigma evolutivo, in particolare la pertinenza dell’interrogativo sul male entro un dibattito fra teologia e scienza. In sostanza, la domanda centrale da affrontare si segnala essere la seguente: “la competizione o la cooperazione, la lotta contro l’avversario o il sostegno reciproco, la vita e la morte, appartengono prima al mondo della natura o prima al mondo dello spirito? […] la sofferenza e il dolore, il male e la morte (qui intesa nel suo senso esistenziale più pregnante), sono realtà dell’esistenza che apprendiamo dal mondo biologico, o appartengono principalmente alla sfera dello spirito umano?”
Quando riescono a sfuggire alla semplificazione, e non di rado alla dialettica preconcetta imposta dalla logica dei media, i dibattiti contemporanei sul tema dei rapporti fra teoria dell’evoluzione e teologia cristiana vertono di solito su questioni epistemologiche od esegetiche. Si cercano in sostanza di chiarire o di comporre le visioni corrispondenti alle due diverse nozioni di evoluzione e di creazione, mediante approfondimenti sui termini in gioco, scientifici o filosofici, e sui loro rispettivi contenuti. Il dibattito ospitato in questo volume pare assumere un profilo differente e, per certi versi, più stimolante. Il contributo firmato dal prof. Jürgen Moltmann, al quale le presenti note si ricollegano in dialogo ideale, sposta il dibattito sull’evoluzione ai rapporti esistenti fra l’essere umano, la natura e la società, al mondo di relazioni che tali rapporti instaurano, fino ad interrogarsi su quale sia il futuro che siamo chiamati a costruire in base alla specifica visione antropologica che possediamo, ovvero in base a quale sia la speranza di cui ci sentiamo depositari [1]. In questo modo la riflessione sull’evoluzione, più precisamente sulle risonanze filosofiche che il dibattito sui meccanismi dell’evoluzione biologica paiono implicare, viene riportata sul suo terreno naturale, quello dell’antropologia. Non in chiave meramente eziologia, come discussione sull’origine dell’uomo quale ermeneutica per la comprensione della natura umana e del suo destino, ma in chiave sociale e complessiva, quale manifestazione di un senso che necessita della distensione storica per essere colto con le sue potenzialità di rivelazione, ma anche con tutte le sue problematiche.
Da ogni riflessione teologica sull’evoluzione e sulle risonanze filosofiche che da essa si vogliono, a torto o a ragione, trarre, si richiede implicitamente un previo chiarimento circa i contenuti e le implicazioni che la fede nella creazione reca con sé. Può essere pertanto utile, in apertura, offrire tre brevi precisazioni sulle modalità entro cui intenderò, in queste pagine, il rapporto fra creazione ed evoluzione.
1. Tre precisazioni sul rapporto fra creazione ed evoluzione
In primo luogo il teologo sa bene che l’evoluzione biologica è un fatto, e come ogni altro fatto in natura può servire alla teologia per capire la parola di Dio e interpretarla rettamente [2]. Nella comprensione delle dinamiche dell’evoluzione, tuttavia, condivido la posizione, oggi sostenuta anche da non pochi scienziati, che i meccanismi del darwinismo classico —trasmissione di mutazioni genetiche aleatorie e sopravvivenza del più adatto— siano condizioni necessarie ma non sufficienti per spiegare la progressiva complessificazione degli organismi, specie per quello che riguarda la crescente cerebralizzazione dei vertebrati, in particolare dei mammiferi. L’evoluzione, a mio avviso, è qualcosa di ben più grande, globale e profondo di quanto indicato dal darwinismo e dalle visioni che ad esso si richiamano. In termini ancora più generali, spostando il discorso in ambito più propriamente filosofico, ritengo che una riflessione filosofica sull’evoluzione, una riflessione su cosa essa sia in profondità e cosa essa significhi, non sia possibile in un contesto materialista, ovvero entro quel paradigma interpretativo del reale all’interno del quale si muove di solito il darwinismo filosofico.
Parlare di “evoluzione” (e non di semplice sviluppo, crescita, trasformazione) in un contesto che neghi la presenza di una storia significativa, la cui origine e il cui fine trascendono la storia stessa, conduce ad alcune importanti aporie [3]. Un cosmo in evoluzione si mostra evidentemente come un cosmo dove, accanto alla materia, deve esistere anche una quantità positiva di informazione. Tale informazione ha certamente nella materia il suo supporto fisico, ma non può identificarsi con essa. Spetta alla filosofia della natura, e secondariamente all’epistemologia, indicare a quale livello ontologico collocare tale informazione, ma è chiaro che in un mondo in evoluzione essa esiste. Possiamo riconoscere la presenza di informazione osservando, ad esempio: il fatto che esistano proprietà stabili e comportamenti legali nei componenti fondamentali della materia; che tali proprietà rispondano a criteri di unità e di universalità in popolazioni di componenti dello stesso tipo; che esistano leggi di natura di cui le nostre leggi scientifiche formali sono un’approssimazione non casuale. Rappresenta un’informazione significativa l’esistenza di una freccia del tempo, così come questa viene messa in luce dall’evoluzione dei sistemi termodinamici. E costituisce infine un’informazione il fatto che l’evoluzione biologica non proceda mediante continui rimescolamenti di carte, bensì verso una direzione che individua una crescita, un arricchimento morfologico e funzionale, l’ascesa verso una progressiva complessità, che raggiunge nel pensiero e nella vita cosciente il suo apice.
Un mondo dove non esista una freccia del tempo, dove la concezione del tempo sia quella di un eterno ritorno, quella di un riazzerarsi ciclico di ogni quantità positiva di informazione che la storia possa avere prodotto, non può essere un mondo in evoluzione. L’informazione contenuta nell’evoluzione si manifesta nella materia e appartiene alla materia, ma non pare avere la sua origine nella materia. Ciò implica che, accanto alla materia, occorra postulare una componente che la trascenda, di natura non-materiale. Spetta poi alla metafisica, all’ontologia ed eventualmente alla teologia naturale stabilire quale realtà o soggetto possa essere associato a questa componente non-materiale (idea, mente, spirito, progetto, Creatore) e in quale contesto ciò risulti più convincente (panteismo, deismo, panenteismo o teismo). La filosofia della natura, da parte sua, si limita a registrare questa necessità, e a segnalare che, nel contesto del materialismo, una comprensione esauriente dell’evoluzione e del suo significato non risulta possibile.
La seconda precisazione riguarda il fatto che chi rettamente comprenda cosa voglia dire, nella teologia cristiana, il termine creare, non vi troverà nessuna opposizione con i risultati dell’evoluzione biologica. Nell’immaginario popolare questa opposizione nasce perché, quando si parla di creazione, si pensa ad un Creatore che interviene nella natura in modo antropomorfo, mentre quando si parla di evoluzione si pensa a qualcosa che si sviluppa da sé. Il contrasto è solo apparente. Per svilupparsi ed evolvere, infatti, occorre che il mondo esista, e dunque venga creato. La creazione sta nel fondamento della storia, e dunque anche nel fondamento dell’evoluzione. Di fatto, l’idea di un mondo in evoluzione poteva sorgere ed affermarsi solo in una concezione ebraico-cristiana dell’universo, dove esiste un inizio ed ogni cosa tende verso un fine. Varrebbe la pena ricordare che l’etimo di e-volvere rimanda allo “svolgersi di un rotolo”, ovvero di un volumen, un’immagine non lontana da quella, di origine prettamente cristiana, della natura come libro [4], un libro scritto da Dio al pari della Scrittura, un libro le cui pagine sarà l’evoluzione, appunto, a dover sfogliare nel tempo [5].
La terza necessaria precisazione, infine, consiste nel separare il darwinismo biologico, nella sua esposizione classica o nella sua successiva sintesi moderna, da quelle versioni di darwinismo filosofico che paiono voler usare impropriamente la scienza come attrezzo per negare l’esistenza di una finalità nel mondo naturale. Operazione, questa, oggi assai diffusa ma teoreticamente poco sensata, perché il finalismo, in senso stretto, è accessibile solo all’astrazione filosofica, non all’analisi empirica [6]. In tal senso, quelle versioni filosofiche del darwinismo che hanno dato origine al darwinismo sociale andrebbero distinte dal darwinismo biologico, anche se lo stesso Darwin abbia ceduto a questo accostamento in alcuni suoi scritti [7]. Se nel dibattito pubblico il teologo protesta, e a ragione, quando il nome di Darwin viene invocato per dare un fondamento probante ad una filosofia del caso ed alla scelta di un nichilismo esistenziale, allo scopo di eliminare Dio dal mondo [8], così lo scienziato avrebbe ragione di protestare se il teologo impiegasse il darwinismo sociale, e le aberrazioni cui esso può dare origine, allo scopo di eliminare la selezione naturale dal panorama della biologia negandone l’operatività in natura.
2 Due diverse visioni filosofiche della comunità umana e del suo rapporto con la natura
Le considerazioni implicite nella terza precisazione qui proposta offrono adesso un collegamento con il contributo del prof. Moltmann raccolto in questo volume. Nel suo intervento egli si riferisce, appunto, alla visione filosofica che può nascere dal darwinismo, quando individuato dalle sue coordinate biologiche essenziali, ovvero come lotta per la sopravvivenza e selezione del più adatto. A tale visione, si osserva, andrebbe obiettato che la scienza contemporanea può dare origine anche ad altre visioni filosofiche del rapporto fra uomo e natura, o degli uomini fra loro, basate invece sulla cooperazione e sulla relazionalità, visioni che potrebbero poi, in uno snodo successivo, essere illuminate da una prospettiva teologica, cristiana, della natura e dell’uomo. Una simile impostazione del problema ne sceglie in fondo la collocazione su un piano prettamente filosofico, non su quello dei rapporti fra teologia e scienze o fra scienza e fede.
Sebbene le due visioni che si pongono a confronto —ovvero una lotta per la sopravvivenza contrapposta ad una cooperazione per la sopravvivenza— sono derivabili da altrettanti paradigmi scientifici sulla natura, uno di carattere competitivo, l’altro di carattere simbiotico o relazionale, quando valutati a livello antropologico, e nel contesto del comportamento libero dell’essere umano, questi due paradigmi sembrano affondare le loro radici in qualcosa di ancor più originario. Essi sembrerebbero in continuità con nozioni antropologiche profonde, quali egoismo e altruismo, o anche, odio e amore, suscitando la domanda non banale se l’essere umano non legga questi due paradigmi nell’intimo della propria coscienza prima di vederli riflessi nella natura. In merito al ruolo che una visione filosofica del darwinismo possa avere in opposizione ad altre visioni della vita e dell’uomo, occorrerebbe allora tematizzare uno snodo centrale, che qui formulo come interrogativo: la competizione o la cooperazione, la lotta contro l’avversario o il sostegno reciproco, la vita e la morte, appartengono prima al mondo della natura o prima al mondo dello spirito? Detto in altri termini: si tratta di due visioni che trascendono la natura materiale e biologica, e dunque sono capaci di orientare liberamente il mondo nel bene o nel male, o sono piuttosto due forme di vivere e di pensare che noi essere umani portiamo iscritte nel nostro DNA, tendenze che possiamo soltanto più o meno assecondare senza mai prescinderne del tutto, con esiti diversi in base alle diverse condizioni al contorno in cui esse si manifestano? Ancora, e più precisamente: la sofferenza e il dolore, il male e la morte (qui intesa nel suo senso esistenziale più pregnante), sono realtà dell’esistenza che apprendiamo dal mondo biologico, o appartengono principalmente alla sfera dello spirito umano?
Chiarire queste domande ritengo sia divenuto ormai essenziale. Uno dei modi oggi più comuni per impiegare il darwinismo come complesso di osservazioni scientifiche che si opporrebbero alla fede in un Creatore provvidente, è infatti quello di porre l’accento sull’esistenza di una lunga e tutt’altro che armonica storia biologica delle specie animali del nostro pianeta, una storia segnata soprattutto dalla lotta, dalla sofferenza e dalla morte. Capire quanto tutto ciò appartenga alla natura e quanto invece allo spirito umano e perciò la trascenda, diviene pertanto un compito di notevole rilevanza. Un compito al tempo stesso assai difficile perché l’essere umano, anche in ciò che caratterizza la sua fenomenologia spirituale, dipende dalla natura e dalla sua stessa biologia. Le precedenti domande non hanno probabilmente una soluzione dialettica, ma piuttosto una soluzione analogica. Occorre, cioè, non escludere uno dei due poli come falso o fuorviante, ma cercare invece di capire, nella precedente disgiuntiva, cosa è originario e cosa è derivato. Si tratta di comprendere se la lotta o la cooperazione, la vita o la morte, sono in noi solo il riflesso di quanto la natura, e in definitiva la materia, dettano e definiscono, o se invece siamo noi, esseri che trascendiamo la natura e la materia, a vederle riflesse nell’universo biologico e materiale.
Si tratta in sostanza di tornare, ancora una volta, ad una riflessione filosofica sul problema del male nel mondo naturale, sulla sua origine e la sua riconoscibilità, un interrogativo che la tradizione filosofica di tutti i tempi, da Agostino fino all’esistenzialismo contemporaneo, non ha potuto fare a meno di intrecciare a doppio filo con un altro interrogativo, quello su Dio e la sua provvidenza [9]. In questa riflessione la teologia basata sulla Rivelazione ebraico-cristiana entra con la sua specificità e ne difende la ragionevolezza. Essa afferma che il bene, la vita e l’amore possono predicarsi in modo totale e fontale di Dio creatore e che risiedono in modo partecipato e finito nelle diverse creature, secondo i diversi gradi di partecipazione alla sua immagine. Il male viene colto pertanto solo come privazione, percepita in modo tanto più acuto quanto più profonda ed intensa è la partecipazione al bene e alla vita posseduta nell’ordine del creato [10]. In tal senso, è l’essere umano a riconoscere il male nell’ordine naturale, al quale egli stesso in certo modo appartiene, e lo fa non come chi semplicemente proietta sulle cose, in modo estrinseco o antropomorfo, quanto avverte nel suo intimo, ma come chi ravvisa una solidarietà e una partecipazione, di origine e di destino. In tale prospettiva teologica, non avrebbe alcun senso, lo capiamo bene, porre a tema il problema del “male”, della “sofferenza” o della “lotta” nella vita biologica, prescindendo dagli aspetti che il male e la sofferenza hanno nella vita spirituale, quella umana, e dunque prescindendo teologicamente dal peccato, ma anche dall’origine che il bene e l’amore hanno nella vita di Dio.
Come si ricorderà, la teologia cristiana ha cercato storicamente di chiarire come la presenza del male non possa essere usata quale argomento contro la provvidenza di Dio, semplicemente perché il male saremmo incapaci di riconoscerlo ed avvertirne il disagio se non fossimo creati ad immagine del Bene e naturalmente desiderosi di unirci ad Esso. Un’argomentazione che giunge in Tommaso d’Aquino fino alla coraggiosa conclusione: quia malum est, Deus est [11]. Chi, ragionando nel contesto della lotta per la sopravvivenza e del dramma dell’estinzione —che ha certamente coinvolto, a qualche livello, anche la paziente ascesa verso l’Homo sapiens— conclude che se Dio esistesse sarebbe intervenuto a fermare le stragi che l’evoluzione delle specie pare avere crudelmente implicato, o non le avrebbe permesse, introduce, a mio avviso, una nuova aporia. Si desidera infatti che Dio intervenga nel mondo in maniera quasi meccanicistica “per non permettere il male”, tradendo così un’immagine di Dio analoga a quella che, in altri sedi, si vuole proprio combattere perché inaccettabile (Dio orologiaio, architetto ecc.). In un caso o nell’altro, l’immagine di Dio che si invoca o si nega non è quella cristiana. In definitiva, morte e vita, lotta o altruismo, sono nozioni fortemente esistenziali perché provenienti dal mondo dello spirito: noi non le impariamo dalla biologia, ma esse si esprimono anche nella natura materiale. Se il problema del male rimanda ad un mistero, questo non giace nella natura biologica ma entro l’orizzonte spirito.
3. Una visione dell’essere umano
Dai rapporti fra uomo e natura, e dalla logica delle dinamiche del vivere sociale, il dibattito sull’evoluzione ed i suoi meccanismi confluiscono, come esito finale, nella domanda su quale sia la visione dell’uomo che a tutto ciò soggiace. Domanda che, come segnalavamo in apertura, andrebbe affrontata non in chiave eziologia, ma secondo uno sguardo capace di abbracciare l’intero orizzonte di senso della storia. Dalla specifica risposta che noi diamo al problema antropologico—è l’essere umano soltanto un animale totalmente condizionato dalle leggi, più o meno egoiste, della biologia, o è anche un animal rationale che rimanda ad una fonte trascendente della sua razionalità— dipendono, è evidente, scelte di un’importanza che non sarebbe eccessivo qualificare come epocale. Ne risultano coinvolti il senso del progresso tecnologico e la concezione del rapporto fra natura e cultura, i criteri per aiutare lo sviluppo dei paesi poveri e le leggi che si decidono nei parlamenti, in definitiva il giudizio che diamo ai nostri comportamenti individuali e sociali. Come ha mostrato il dibattito di opinione pubblica sulla fecondazione artificiale o sull’utilizzo di cellule staminali derivate da embrioni umani, la concezione dell’essere umano invocata per approvare o respingere l’una o l’altra tesi si colorava spesso di argomentazioni desunte dal paradigma evolutivo. In questo senso, orientare (e manipolare) il dibattito sul darwinismo in favore di una posizione o di un’altra, appare oggi uno strumento formidabile per rincorrere specifici scopi.
Presentare l’evoluzione biologica come contraria all’idea che l’essere umano sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, sia soggetto di vita morale e destinato ad un fine che trascende la materia, può divenire un mezzo potente per sbarazzarsi del Creatore, la cui presenza resta, per molti, sempre ingombrante, specie quando il complesso di valori che questa fede genera è visto come un ostacolo al perseguimento di precisi profitti economici. Se non esiste un Creatore, e se la creazione è una favola, allora l’uomo può fare ciò che vuole senza ascoltare nessuno, neanche la propria coscienza. Ma questo, a mio avviso, sarebbe tornare al cuore del nichilismo nietzschiano, chiudendo irresponsabilmente gli occhi davanti alle innumerevoli vittime che esso ha lasciato sul campo.
Ha dunque ragione Moltmann quando insiste sul fatto che il futuro della specie umana è nelle nostre mani e dipende in modo determinante da come imposteremo i nostri rapporti sociali e planetari [12]. Osservare nella natura la fecondità di rapporti di altruismo e di collaborazione, almeno tanto quanto quelli di carattere competitivo o belligerante, può certamente incoraggiarci ad instaurarli, anche solo come frutto di una mimesi feconda. Ciò ridimensiona efficacemente una logica che indicasse nella lotta per la sopravvivenza —e dunque, indirettamente, nella violenza— il fattore determinante della crescita di una specie biologica, fosse anche quella umana, oltre a smascherarne alcune interne contraddizioni. È difficile ritenere che si possa conservare una visione dell’uomo ove la selezione naturale sia l’unico o il principale fattore di sviluppo, senza condividere l’inevitabilità di futuri scenari di autodistruzione. Ciò discende da due considerazioni. La prima è che l’aumento delle capacità tecnico-strumentali dell’uomo, quando associato all’idea di lotta per la sopravvivenza implicherebbe la crescita continua delle potenzialità distruttive, più precisamente auto-distruttive, della comunità umana. La seconda è che il ricorso ad un’etica relativista, o comunque fondata sulla negazione di ogni possibilità di legge naturale, riconoscibile e normativa (negazione di solito presente nelle società che condividono un riduzionismo antropologico), non avrebbe gli strumenti per frenare una simile escalation, in quanto anch’essa soggetta alla legge del più forte, ovvero di chi è in grado di creare e di condizionare, possedendo maggiori risorse di potere, il pubblico consenso.
4. Il contributo della teologia cristiana
In un simile contesto, la teologia è chiamata a ricordare che la Rivelazione cristiana offre nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, l’esempio e la sorgente di grazia per costruire il futuro dell’uomo, attraverso l’umiltà, la carità e la cooperazione, termini assai più importanti ed esistenzialmente più impegnativi rispetto a quelli oggi maggiormente di moda, ma meno gravosi, come dialogo e tolleranza. Costruire il futuro della società e dell’intero pianeta sulla carità e sullo sviluppo delle relazioni, facendo dell’umanità una sola famiglia —secondo una progressiva ascesa che Teilhard de Chardin aveva ravvisato presente anche nella logica dell’evoluzione [13]— risponde ad un progetto di grazia e giunge fino a comportamenti che la mera analisi delle scienze qualificherebbe anti-darwiniani, come lo sono il perdono e l’amore verso i propri nemici: «Avete inteso —leggiamo nel Vangelo secondo Matteo— che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? […] Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43-48).
Si tratta di una logica eccedente, ancor più, scandalosa. Una logica donata dall’alto e non solo raggiunta dal basso. Una logica che trova la sua rivelazione più alta nel mistero della croce di Cristo, logica che svela il senso della sofferenza, del dolore e della morte. Per qualche motivo che ci sfugge e del quale non sappiamo darci ragione rivolgendoci alle scienze o alla sola filosofia, la sofferenza e la morte sono presenti nella natura, in parte per il limite associato alla stessa creaturalità, ovvero la condizione di chi non può essere Dio, e in parte per ciò che, con la Rivelazione, chiamiamo peccato. Il mistero pasquale di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, crocifisso e risorto, ci mostra che Dio conosce molto bene tutto ciò che ci appartiene e che ci interroga. Anzi, proprio per questo, ha voluto mostrarsi solidale con noi in tutto, sia nell’esperienza del limite, sia nelle conseguenze del nostro peccato.
La riflessione teologica, è bene ricordarlo, aiuta anche a comprendere la dimensione antropologico-relazionale del mistero del male, quando “illuminato” dalla realtà del peccato, ovvero dal male morale, distanziandosi da quelle visioni che vedrebbero il male nella natura o nella materialità delle cose, come se quest’ultima fosse depositaria di un legame primigenio con esso. Separandosi dalla prospettiva manichea, la teologia cristiana chiarisce che il peccato dell’uomo cambia “lo sguardo” dell’uomo sulla natura, sui suoi simili e sulle cose [14]. Le prime e più pertinenti conseguenze del peccato vanno cercate nell’uomo, non nella natura. Il male fisico non può essere ricondotto tout-court al peccato morale dell’uomo, ma deve ammettere altre spiegazioni. Nel male fisico c’è anche l’espressione del limite e della finitezza propri della creaturalità, non come privazione, ma come desiderio di una trascendente compiutezza. L’incarnazione ed il mistero pasquale di Gesù Cristo sono anche il dono gratuito con cui Dio creatore consente alla creatura di superare il suo limite, un limite che non poteva non avere in quanto creata.
Arricchito da questa prospettiva, il cristiano è chiamato a guardare il futuro sì con realismo, ma anche con speranza, perché il progetto di Dio sulla creazione è anche progetto di Dio per la gloria [15]. Se è vero che la creazione è “un sistema aperto”, è anche vero che il suo Creatore ne guida la storia verso i suoi fini di salvezza. E lo fa non come chi possiede le chiavi di qualcosa che può aprire o chiudere a suo piacimento, ma come Chi, dall’eternità, ha voluto concepire protologia ed escatologia in un unico progetto, un progetto di amore al quale, da sempre, ha voluto restare e resterà fedele.
Fonte: «Humanitas» 63 (2008), pp. 443-453.
[1] L’idea di un futuro che non possa essere costruito riduttivamente, attraverso una lotta per la sopravvivenza —sia essa lotta nella natura o contro la natura— ma richieda invece, cooperativamente, la sinergia di relazioni solidali, veniva proposta da Moltmann già nella conferenza Schöpfung als offenes System tenuta alla Theological Society di Edimburgo nel 1975, pubblicata in italiano con il titolo “La creazione come sistema aperto” nella raccolta di saggi Scienza e Sapienza, Queriniana, Brescia 2003, pp. 37-56.
[2] Sulla convenienza di un impiego delle conoscenze scientifiche nella comprensione enelo sviluppo del dogma, rimando al mio contributo G. Tanzella-Nitti, Scienze naturali, utilizzo in teologia, in «Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede», a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 1273-1289.
[3] Sulla non appartenenza alla storia di quanto risiede nella sua origine e individua il suo fine, cfr. J. Pieper, Über das Ende der Zeit, Kösel, München 1950.
[4] La metafora della natura come libro viene comunemente associata all’impiego platonico fattone da Galilei, impiego che, per le particolari circostanze che accompagnarono le vicende dello scienziato pisano, ha catturato negli ultimi decenni la maggior parte delle citazioni. In realtà la metafora ha origine patristica e subisce diverse trasformazioni lungo i secoli, in merito a cosa ci sia scritto in questo libro e a chi possa leggerlo, trasformazioni di cui l’esito moderno è solo un approdo precario. Sul tema, si veda ad es. H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 1989; L. Conti, L’infalsificabile libro della natura alle origini della scienza, Edizioni Porziuncola, Assisi 2004; A. Salucci, La metafora del libro della natura in Galileo Galilei, «Angelicum» 83(2006), pp. 327-375. Per un nostro contribuito al dibattito, G. Tanzella-Nitti, The Two Books prior to the Scientific Revolution, «Annales Theologici» 18(2004), pp. 51-83.
[5] Lo segnala opportunamente H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, cit. p. 37.
[6] Il dibattito di opinione pubblica mostra qui una inspiegabile contraddizione: i fautori di un darwinismo filosofico attaccano gli esponenti del cosiddetto intelligent design perché questi ultimi, a loro giudizio, vorrebbero inferire l’esistenza di un finalismo partendo dall’ordine empirico-biologico, mentre poi essi ritengono operazione teoreticamente accettabile inferire l’assenza di finalismo, e dunque giustificare una prospettiva nichilista sul mondo e sull’uomo, partendo da osservazioni fenomeniche confinate in quel medesimo ordine.
[7] Cfr. ad es. C.R. Darwin, L’origine dell’uomo, Rizzoli, Milano 1997, pp. 414-415. Per il darwinismo sociale, il riferimento obbligato è a P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Il Saggiatore, Milano 1994 e Una sinistra darwiniana, Milano, Edizioni di Comunità 2000.
[8] Cade in questo equivoco, a nostro avviso, O. Franceschelli, Dio e Darwin, Donzelli, Roma 2005.
[9] Utile, in proposito, la rilettura di C. Journet, Il male. Saggio teologico, Borla, Roma 1993.
[10] Si tratta dell’itinerario seguito dalla riflessione di Agostino (cfr. Confessiones, III, 7, 12; VII, 12, 18; De civitate Dei, XI, 22), o di Tommaso d’Aquino (cfr. De malo, q. 1, a. 1; Summa theologiae, I, q. 48, a. 1; Contra gentiles, III, c. 8).
[11] Cfr. Tommaso d’Aquino, Contra gentiles, III, c. 71.
[12] Cfr. ad es. J. Moltmann, Scienza e sapienza, cit., p. 53, 140-143. «Se alla lotta per l’esistenza ora è subentrata quella per una vita diversamente connotata, bisognerà andare oltre i sistemi morali che scaturivano da quella lotta, ed elaborare modelli di vita che rendano possibile, sul piano di nuovi, razionali rapporti con il mondo, creatività ed amore. L’ethos della lotta per l’esistenza va modificato in un ethos della pace nell’esistenza. Il principio dell’autoconservazione contro gli altri può diventare principio di autorealizzazione insieme agli altri, cioè principio di solidarietà», ibi, pp. 141-142.
[13] Cfr. P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, Queriniana Brescia 2003, pp. 85-117.
[14] Cfr. Gen 3,15-19.
[15] Cfr. J. Moltmann, Scienza e sapienza, cit., pp. 38-42. Cfr. anche Idem, Dio nella creazione, Queriniana, Brescia 1986.