Perché gli astronauti non dovrebbero essere religiosi?, da un’intervista di Oriana Fallaci a John Glenn

Oriana Fallaci
John Glenn

«C’è una domanda, colonnello, che desidero porle da moltissimo tempo. Questa: quando partì e poi fu lassù, aveva paura?»

Rispose con voce alta. squillante.

«Certo che avevo paura. E chi non l’avrebbe? O meglio: gli altri non so. Io si. Vorrei vederla in cima a quel razzo che oscilla nel vento mentre i fuochi si accendono in un rumore d’inferno. Siamo dentro, qualcosa di nuovo, un veicolo che nessuno ha mai usato, che forse funziona e forse no. Stiamo andando in un posto che non conosciamo: misterioso, infinito, pieno di insidie, cui non si è abituati. Certo che uno ha la sua paura. È umano, è normale. E con questo? Che importa? L’importante è che uno non si abbandoni alla paura, che non resti immobile come un idiota, che si scuota, si muova, faccia lo stesso le cose che deve fare. L’importante è agire attraverso la paura, superarla. Dimenticarla. E infatti poi si dimentica. Ciò la delude? » Parlava così come scrivo. Non sbagliava né un aggettivo né un verbo.

«Al contrario, colonnello. Mi riempie di sollievo e di stima. E mi induce al sospetto che gli astronauti siano davvero gli eroi che si dice, i superuomini che si dice».

Primo rossore.

«Macché eroe, macché superuomo! Mi sento proprio normale, io, un tipo assolutamente comune. E di conseguenza...»

«E di conseguenza, colonnello?»

«Di conseguenza non capisco proprio quel che la gente trovi di interessante in me. Come quando mi chiedono: cosa si prova John Glenn a essere un divo? Io non mi sento davvero un divo: tuttavia sembra inevitabile che mi si consideri un divo, un superuomo, un eroe». Una pausa, appena un po’ compiaciuta. «Il fatto è che la gente resta sempre affascinata dalle cose nuove, dai nuovi lavori, dalle nuove esplorazioni: soprattutto se attraverso di esse uno rischia la vita. Il rischio solletica sempre la fantasia, l’entusiasmo. E, bene o male, i voli spaziali sono rischiosi». Altra pausa. Compiaciuta anche questa. «E poi c’è il fatto di dover fronteggiare il mistero, l’ignoto, di avere esperienze che nessuno ha mai avuto. Voglio dire: quando si è i primi o tra i primi a posare un pezzo di cioccolata nel vuoto e a veder che non cade ma resta lì fermo, nel vuoto, si finisce per essere guardati come quel pezzo di cioccolata».

«E questo la infastidisce, colonnello? In altre parole: la diverte o la annoia questa mondiale pubblicità, il fatto stesso che io sia qui ad intervistarla?»

Secondo rossore.

«Oh, no! Non mi annoia affatto. Mi piace, anzi: mi sembra molto piacevole. Se lei mi intervista, ad esempio, vuol dire che il pubblico per il quale scrive si interessa ai voli spaziali e a ciò che stiamo facendo: questo mi rende contento come la gente che si congratula, che scrive le lettere, che applaude. Intendiamoci: qualche volta può esser noioso rispondere al telefono nel cuore della notte, sentirsi pressati dalla folla, o troppo osservati, o spiati. Causa problemi. Mai problemi insuperabili, però. Né si può rimproverare il prossimo perché ti trova bravo e simpatico. Parlo per me, evidente. Non per i miei compagni. Infine è piacevole perché la gente ti prende ad esempio e cerca di imitarti, seguirti...»

«Qualcosa di cui è molto consapevole, lo so. Non ricordo chi ha detto che perfino quando si fa la barba lei agisce come se dovesse dare il buon esempio a un boyscout».

Terzo rossore.

«Non esageriamo. Sono cosciente, questo sì, della responsabilità che viene dall’esser famosi. Non è una responsabilità? Pensi ai giovani che mi credono davvero un eroe, ai bambini, ai boyscouts. Che penserebbero se mi comportassi male, se facessi cose sbagliate? Io mi interesso molto dei giovani, dei boyscouts per esempio. Son quelli che trovano logico andare negli altri pianeti, quelli che vivon davvero nell’era spaziale. Consideri il fatto che vogliono diventar tutti astronauti. Bisogna pure spiegargli che i voli spaziali non costituiranno in futuro il solo interesse della società, che abbiamo e avremo bisogno di giovani nella politica, nella giurisprudenza, nell’insegnamento: non solo nell’astronautica. Bisogna pure spiegargli che non tutti son nati per diventare astronauti e ci vogliono medici, contadini, deputati, scrittori, droghieri, operai. Così vado in giro a dir questo. E poi mi dedico molto ai gruppi religiosi...»

«Lei è molto religioso, lo so».

«Sì, molto».

«Mi son sempre chiesta se gli astronauti lo fossero».

«Perché non dovrebbero esserlo?»

«Già. E lei, colonnello, lo era anche prima di andar nello spazio?»

«Sì, certo. Davvero non credo d’esser diventato più religioso dopo aver volato fuori dell’atmosfera. Però... sì... forse... decisamente ora sono, più religioso». Appoggiò un gomito sul bracciolo della poltrona, portò la mano alla tempia. «Devo spiegarmi. Certo non mi aspettavo di trovar Dio nello spazio o di aver qualche particolare esperienza religiosa perché ero nel vuoto; la fede in Dio è quella che è ovunque si vada: sulla Terra, sott’acqua, nello spazio. Tuttavia più cose vedo nei voli spaziali, più studio ed imparo, più mi convinco che la nostra religione è probabilmente valida. In altre parole non credo che imparando di più diventiamo capaci di sostituirci a Dio. Al contrario. Le cose che studiamo sono così incomprensibili e vaste, così misteriose, aggiungono tali problemi all’ignoranza e al mistero, che mi portano a concludere questo: deve pur esserci una forma di creazione del cosmo, un ordine».

«Per molti altri, colonnello, è diverso. Per molti altri i voli spaziali pongono domande terribili alla religione in cui siamo nati. Per molti altri essi sono un invito al dubbio, alla perdita della fede».

Alzò di scatto la testa, quasi lo avessi punto.

«Cos’è che invita al dubbio? Sentiamo».

«Via, colonnello: pensi a quel che afferma la Genesi. Parlo da un punto di vista teologico, s’intende».

«Cosa dice la Genesi? Avanti, voglio interrogarla io per un poco. In cosa porta al dubbio, la Genesi?»

«Nella Genesi è detto: E Dio creò la Terra in sette giorni... E al settimo giorno creò l’uomo, e lo creò a Sua immagine e somiglianza...»

«Ah! Ah, bene. Credevo che alludesse ad altre cose. Sul fatto di aver visto Dio nello spazio o cose del genere».

«Non ho mai immaginato Dio con la barba e il vestito bianco, colonnello. Fuorché quand’ero bambina».

«Bene. Che la Bibbia sia attendibile o no, parola per parola, non ha niente a che fare con la scoperta di altri pianeti. Costituisce semmai un antico conflitto tra scienza e religione, non tra i voli spaziali e la religione. O mi sbaglio?»

«Scusi, sa, colonnello: ma secondo me sbaglia, eccome. La scienza in generale non ci ha mai dimostrato che su altri pianeti esista la vita: ma i voli spaziali lo possono, eccome. E il giorno in cui lei incontra su un altro pianeta creature che non so immaginare, chiamiamoli "esseri-non-sappiamo-come", in qual modo si spiega la Genesi, signor colonnello?»

«La Bibbia non nega la vita su altri mondi. Le direi anzi che sarei molto sorpreso di non trovare su altri pianeti ciò che lei chiama "esseri-non-sappiamo-come". Li troveremo. Se in forma di esseri o vermi non so immaginarlo sebbene sia certo che un giorno, tra milioni e milioni di corpi celesti, ritroveremo anche l’uomo. Ma so immaginare creature diverse, che non si sviluppano col nostro ciclo di acqua e carbone, creature che si nutrono di rocce, ad esempio, che non hanno né sangue, né tessuti, né organi: e la Bibbia non nega questo. Non nega che Dio abbia creato anche loro a Sua Immagine e Somiglianza. Non nega la possibilità di amarli da veri cristiani».

«E se fosse necessario ucciderli, sterminarli, questi vermi o fratelli di roccia che non hanno né sangue né tessuti né organi... lei ne soffrirebbe, colonnello?»

Di nuovo appoggiò un gomito sul bracciolo della poltrona. Di nuovo portò la mano alla tempia.

«No. Non credo. Sarebbe spiacevole, mi duole perfino pensarci. Però potrei farlo. Sono un uomo che non vorrebbe veder morire nessuno, io: nemmeno alla guerra. Ma certe spedizioni saranno come andare alla guerra e l’essenza della guerra è la morte. E poi, scusi, perché pensa che dovremmo sterminare gli "esseri-non-sappiamo-come" di altri pianeti?»

«Perché potrebbero esserci ostili. Potrebbero essere tutt’altro che contenti di vederci arrivare, colonnello».

«Io sono ottimista: potrebbero esserci completamente amichevoli. Potrebbero anche essere buoni, contenti di vederci, e potremmo non esser costretti a sterminarli. Certo... certo sarei sospettoso vedendoli, pronto a difendermi... Mio Dio... di sicuro ne esistono su altri sistemi solari ma, finché viviamo io e lei, negli altri sistemi solari non ci andremo davvero. Questo accadrà tutt’al più fra cent’anni, duecento, e cent’anni o duecento son pochi, lo so, ma abbastanza da lasciarmi con domande così angosciose».

«Ho una domanda ancora più angosciosa, colonnello. Questa: se atterrando sulla Luna vi accorgeste di non poter ripartire... vi uccidereste? In altre parole: portate un’arma o una pillola letale con voi?»

«Non portiamo nulla, non ce n’è bisogno. Se uno vuole morire non ha che da staccare l’ossigeno o il casco: e in pochi minuti è spacciato. Se mi accorgessi di non poter ripartire... la sua è davvero una domanda tremenda... no... non credo che mi ucciderei. Lei lo farebbe?»

«Io sì, subito».

«Ma perché? Se fosse sicura di morire comunque, tanto varrebbe tentar di vivere più a lungo possibile. No, io tenterei di durare più a lungo possibile e solo in fondo, ma in fondo, mi lascerei morire».

«Allora, colonnello, se un tal rischio esiste, se tale possibilità esiste, se far l’astronauta costa pena e fatica e dolore, perché lo fa? Cosa la spinge, colonnello? Lo spirito d’avventura? La curiosità?»

«Ed io le rispondo con una domanda. Cosa significa scrivere per lei?»

«Un modo di vivere, di sopravvivere, di esprimersi: evidente».

«Non basta. Non è tutto.»

«Come no?»

«No, non è tutto. Dove pensa di arrivare col suo scrivere? Vuol diventare direttore di un giornale?»

«Dio me ne guardi, nemmeno per sogno».

«Vuol diventare come Hemingway, Steinbeck?»

«Sta tentando di farmi dire che sono ambiziosa, colonnello? Che ciò che mi guida è una feroce ambizione?»

Arrossì come non ho mai visto arrossire un uomo, o una donna, o un bambino. Un rossore paonazzo, bollente, un rossore che si mangiò tutte le sue lentiggini e poi sgorgò come un vomito in una allegra fanciullesca liberatrice risata. La vena bluette sembrava lì per scoppiare.

« No! No! No!» La vena bluette si sgonfiò un pochettino. «No. Voglio dire che scrivere per scrivere non le basta: certo non le piacerebbe chiamarsi Signora Nessuno».

«Può crederci o non crederci, colonnello, ma se fosse necessario firmare Signora Nessuno un libro che a me preme molto, io lo firmerei Signora Nessuno».

«Io no. E glielo spiego subito perché io non voglio essere e non vorrei mai essere il Signor Nessuno. Glielo spiego perché anch’io mi sono posto la sua domanda. Ed ho risposto in tanti modi: che era un modo di vivere, di sopravvivere, di esprimermi. Ma non bastava. E non bastava perché non spiegavo con questo la ragione per cui voglio essere più bravo degli altri, il più bravo di tutti. E allora mi son detto: perché John, vuoi essere più bravo degli altri, il più bravo di tutti? Cos’è che ti spinge? Ecco, mi spinge questo concetto: noi tutti temiamo il futuro, noi tutti ignoriamo ciò che il futuro porta. Facendo qualcosa che gli altri seguono, e facendola bene, giungendo alla cima, proprio in cima alla cima, noi controlliamo il futuro. Essere il primo, il più bravo, fare cose che gli altri non fanno per me significa controllare il futuro, prevenire il futuro. Influenzare il futuro. Ecco la parola giusta: influenzare il futuro. Conoscere la Luna o preparare...» Ebbe un’esitazione ma la superò quasi subito. «...o preparare gli altri a conoscere la Luna, per me significa influenzare il futuro. E l’idea di influenzare il futuro a me dà la stessa gioia che darebbe esser uno Steinbeck o un Hemingway».

«Colonnello: una vecchia logora domanda. L’hanno fatta anche a von Braun...»

Mi prevenne in un lampo.

«E lei l’ha fatta a Slayton».

«Come lo sa?»

«Lo so».

«Bene. Questa è un poco diversa, però. Se potesse portare cinque libri sulla Luna, quali porterebbe?»

«Libri? Sulla Luna? Non credo che avremo bisogno di libri sulla Luna. Una volta arrivati avranno... avremo abbastanza da fare, guardare, pensare, per poterci permettere il lusso di leggere libri. Scusi, sa, ma è come se io le chiedessi: che libri porta, stasera, se, viene a cena con me? Quando va a cena con qualcuno, lei avrà altro da fare che leggergli un libro in faccia. Il libro lo leggerà dopo. O domani».

«Molto abile, molto brillante, colonnello».

«Molto gentile, molto amabile».

Sfoderò il suo contagioso sorriso. Lo evitai.

«Giro la domanda, colonnello. Se qualcun altro, desideroso di influenzare il futuro, decidesse di bruciare tutti i libri della Terra, quali salverebbe? Me ne dica cinque, tre».

«Lo sapevo che arrivava a questo. Lei è ben maligna.» Di nuovo quel sorriso.

«Allora, colonnello? »

«Tre libri... tre libri... Guardiamo... tre libri...» Allargò le braccia, commovente, desolato. Non lo so. Oh, non lo so». « Ma lei cosa legge, colonnello? »

E dai, con quel sorriso. Non ho mai conosciuto nessuno che sapesse usar bene i denti come John Glenn. Solleva le labbra, li scopre, belli, bianchi, puliti, et voilà! Spara il colpo. Ma io gli guardavo la cravatta.

«Leggo molti libri di politica, di attualità, di tecnica. Leggo molti libri di storia, di esplorazioni, di scienza. Niente fantascienza. Leggo molto i giornali. Con molta attenzione. Non leggo romanzi né poesia, né cose del genere».

«Eh, già, colonnello. Sembra che certe cose non servano, mai. L’utile ha preso il posto del bello, la tecnologia il posto dell’arte. A cosa serve un’ode di Saffo o un quadro del Ghirlandaio? Ad andar sulla Luna?»

«Non sia così pessimista, non creda che i tipi come me ignorino ciò che disse un signore chiamato Shakespeare, non creda che il paesaggio lunare ci renda ciechi di fronte a una bella cattedrale o a un bel quadro. Io amo il passato quanto lei il passato mi serve come guida al futuro. Lei non sospetta vero?, che al posto del sangue abbiamo benzina, e al posto del cervello un calcolatore elettronico. Siamo uomini, mica macchine».

«Uomini, colonnello: ma uomini talmente nuovi e talmente differenti... Differenti. Dica: lei saprebbe vivere senza aerei, senza automobili, senza televisione, senza... »

«Certo che saprei. Non sono che strumenti per renderci la vita più facile e gli strumenti vanno usati con saggezza: altrimenti la rendono più difficile, invece. La sua domanda mira ad altro, lo so: mira a stabilire che il progresso può diventare dannoso e che di conseguenza non abbiamo diritto a spingerci tanto lontano: fino alla Luna, a Venere, a Marte. Ma io le rispondo che no, la questione non va posta in questi termini. Spingerci fino alla Luna, a Venere, a Marte, non è un diritto: è un dovere. Dal dovere nasce il diritto di far questo sforzo e partire. Partire... Anche se non esistesse la Russia, anche se la Russia non fosse impegnata in questa corsa con noi, noi dovremmo fare ciò che facciamo. Ecco ciò che penso e che dirò sempre: a tutti e in qualsiasi sede, che continui o non continui far l’astronauta. Ecco perché io mi batterò sempre, con tutti in qualsiasi sede, per andar sulla Luna, su Venere, su Marte: costi quello che costi. Fino ad oggi c’è costato poco: solo fatica e denaro. Tanti uomini sono partiti, tanti uomini sono tornati. Ma non sarà sempre così, lo so, lo sappiamo. Alcuni di noi moriranno, glielo avrà detto anche Slayton, forse sarà un intero equipaggio a morire: ma ne vale la pena lo stesso, ricordi. E poiché ne vale la pena, accetteremo le perdite, continueremo con quelli che restano. Sono morti tanti piloti nella storia dell’aviazione; questo però non ha fermato l’aviazione. Sono morti tanti alpinisti a scalar le montagne: questo però non ha tolto coraggio a chi scala le montagne. Sono affondate tante navi dacché si solca il mare: questo però non ha impedito che le navi continuassero a solcare il mare. Si, dobbiamo andare lassù, dobbiamo. E un giorno coloro che sono contrari si guarderanno indietro e saranno contenti di ciò che abbiamo fatto».

Lo disse con molta passione, allo stesso tempo lanciando occhiate all’orologio. Io non capisco come si possa dire qualcosa con molta passione, allo stesso tempo lanciando occhiate all’orologio: però è cosi che faceva.

«Dica colonnello: lei ha conosciuto Titov in America. Ha parlato a lungo con lui, l’ha invitato a mangiare a casa sua. Cosa ne pensa di Titov?»

«Da uomo a uomo, mi ci son trovato molto a mio agio. Ho smesso di trovarmi a mio agio quando lui s’è messo a fare la propaganda comunista. Le nostre idee in politica non hanno molto in comune. E poi di Titov mi dette fastidio la frase: "Non ho visto Dio tra le stelle, né gli angeli". La ripeté anche a me ed io gli dissi che il Dio nel quale credo non va a spasso per le stelle come un mostro volante».

Riguardò l’orologio.

«Eppure sono sicurissima che sarebbe pronto a partire con Titov o qualsiasi altro russo».

«Guardi, io ho il sospetto che quando la gente si riferisce alla collaborazione spaziale pensi subito a un astronauta russo e ad un astronauta americano che viaggiano nella medesima capsula. Questo non potrà accadere per molto, molto tempo. Non riusciamo a scambiarci informazioni da terra, neppure le più innocenti, sono mesi che chiediamo ai russi qual è secondo loro il comportamento del cuore durante il volo, ci interessa saperlo, per Slayton, lo sa bene, e loro non rispondono neanche. Figuriamoci se posso volare con Titov. E poi come faccio a volare con Titov se oltretutto lui parla russo e io americano? Vogliamo aggiungere un seggiolino nel mezzo per portarci l’interprete?»

Aveva appena detto così che scoppiò un gran trambusto. Entrò un tale e disse che era giunta la telefonata da Washington. Poi entrò un altro tale e disse che la telefonata Washington era nell’ufficio di destra. Poi entrò un altro tale disse che la telefonata da Washington era nell’ufficio di sinistra. Poi tutti e tre insieme dissero che la telefonata da Washington era stata trasferita nell’ufficio del colonnello, il colonnello doveva correre subito. E il colonnello, diventò rosso rosso, balzò in piedi, mi porse la mano, disse: «Arrivederla, è stato un piacere, un vero piacere» e sparì in una ventata, com’era venuto.

 

da O. Fallaci, Se il sole muore, Rizzoli, Milano 1981, pp. 136-145.