The Blind Why the Evidence of Evolution Reveals a Universe without Design, Norton, New York - London 1987
«Non potevo immaginare come avrei potuto essere ateo se fossi nato prima del 1859, l'anno di pubblicazione dell' Origine delle specie di Darwin.» (p. 23): queste parole si trovano nel primo capitolo di "L'orologiaio cieco" che è, dopo "Il gene egoista", la seconda opera divulgativa di Richard Dawkins, notevole successo editoriale, tradotta in molte lingue e vincitrice dei premi della "Royal Society of Literature" e del "Los Angeles Times". [Per maggiori notizie biografiche sull'A. si può vedere la recensione de Il gene egoista, disponibile su questo medesimo Portale]. Dalle parole sopra riportate si evince una sorta di filo conduttore all'interno dell'opera: fino ad un secolo e mezzo fa, l'antico "argomento teleologico" che, a partire dalla constatazione dell'ordine e della teleonomia insiti nel mondo naturale, deduce l'esistenza di un Creatore intelligente, era una tesi razionalmente sostenibile, anzi l'unica tesi in grado di spiegare la complessità organizzata dei viventi; adesso, grazie alla teoria dell'evoluzione, possiamo giustificare razionalmente quanto osserviamo nella natura, senza alcun bisogno di ricorrere all'idea di un Creatore. La teoria dell'evoluzione, scrive l'A., ci permette di spiegare la formazione di ogni struttura biologica, anche la più complessa, e ci dimostra che nella natura non esiste alcuna forma di finalismo. Notiamo subito che la prima affermazione, circa l'esaustività della teoria dell'evoluzione, è di natura scientifica e, come tale, si presta ad essere suffragata o confutata esclusivamente sulla base di considerazioni scientifiche; la seconda affermazione, quella che riguarda l'assenza di finalità nel mondo naturale, è invece di natura filosofica, per cui la sua discussione, pur tenendo conto dei dati forniti dalla ricerca scientifica, sfocia in un orizzonte ben più ampio, che include la riflessione metafisica e la domanda sul senso dell'esistenza. Se l'intento del libro fosse solo quello di difendere il darwinismo dalle critiche mosse contro di esso da alcuni autori, o confutare le accuse di incompletezza formulate nei confronti della teoria della selezione naturale, l'opera del biologo inglese si manterrebbe entro i confini di una discussione scientifica. La lettura del saggio mostra invece che fra le sue finalità ve ne è anche una di carattere filosofico, ovvero dimostrare come la teoria di Darwin sia compatibile solo con una visione atea e materialista del mondo naturale.
Spiegare il molto improbabile
Il titolo dell'opera si riallaccia ad alcune affermazioni del teologo anglicano William Paley, che aveva pubblicato alla fine del Settecento un'opera dal titolo Teologia naturale o sia prove della esistenza e degli attributi della divinità ricavate dalle apparenze della natura. In quest'opera Paley passava in rassegna alcune delle più sorprendenti forme di teleonomia presenti nel mondo naturale, quali erano conosciute dalla scienza del suo tempo, e mostrava come non fosse razionalmente possibile postulare che il puro caso stesse all'origine di strutture di tale perfezione e complessità, ma si dovesse necessariamente risalire alla volontà di un Creatore intelligente. Organi come l'occhio umano, argomentava Paley, superano per complessità e organizzazione delle parti i più perfetti orologi meccanici, perciò, come noi affermiamo che un meccanismo complesso come un orologio non può esistere senza un orologiaio che lo abbia progettato e realizzato, così non possiamo pensare che gli organismi viventi esistano indipendentemente dal piano di un artefice. Dawkins dichiara di ammirare molto il testo di Paley, per il modo in cui il reverendo inglese ha saputo mettere in luce molti aspetti meravigliosi del mondo naturale, sottolineando così l'esigenza, da parte della ragione umana, di cercare una spiegazione di fenomeni tanto sorprendenti. Paley cercò tale spiegazione in quella che era, ai suoi tempi, la sola prospettiva ragionevole, ossia l'esistenza di un "orologiaio" che, con intelligenza e sapienza, ha progettato l'universo; oggi la scienza ha aperto i nostri occhi, mostrandoci che tale orologiaio è cieco, non agisce in vista di alcun fine, e si chiama selezione naturale.
Osserviamo fin d'ora che la metafora dell'"orologiaio", usata da Paley e ripresa da Dawkins, pare più in accordo con l'opera di un Demiurgo che agisce su una materia preesistente, modellandola secondo delle forme, che con l'immagine del Dio cristiano che trascende la natura creandola ex nihilo. Il riferimento al Dio cristiano, identificato con l'orologiaio della metafora, porta Dawkins a contrapporre la nozione di creazione a quella di evoluzione, come recita il sottotitolo dell'opera [sulla compatibilità fra le due nozioni può vedersi la sezione V. della voce Creazione e il testo di un discorso di Giovanni Paolo II, in questo Portale]. Il lettore dovrà anche ricordare che nozione di "evoluzione", piuttosto ampia, non va necessariamente identificata con la teoria dell'evoluzione per selezione naturale. La prima è un fatto ampiamente testimoniato dai ritrovamenti fossili studiati dalla paleontologia, e, come tale, è indiscutibile. La teoria dell'evoluzione per selezione naturale è, invece, un modello di spiegazione dei fatti, elaborato per la prima volta da Darwin e Wallace nella seconda metà dell'800, e riproposto, alla luce delle attuali conoscenze sulla genetica, dal neodarwinismo della "sintesi moderna", al quale Dawkins si ricollega. Tale modello, come ogni vera teoria scientifica, potrebbe non essere definitivo e necessitare di integrazioni e aggiustamenti, suggeriti dal progredire delle conoscenze e, soprattutto, in quanto teoria scientifica, non può pronunciarsi intorno al senso ultimo di ciò che cerca di spiegare. La metafora dell'orologiaio, inoltre, contiene un limite implicito, quello di considerare l'universo come un enorme sistema deterministico (un "orologio" appunto), idea, questa, che oltre a non rimandare al Dio della Rivelazione biblica, non rispecchia neanche i risultati della scienza contemporanea, come Dawkins sa bene.
La complessità e il grado di organizzazione degli essere viventi raggiunge livelli davvero sorprendenti. Si tratta di un dato di fatto che l'A. non nega, anzi, evidenzia arricchendo il suo libro con interessanti esempi, nell'intento di mostrare che l'origine di qualunque funzionalità biologica, per quanto sofisticata, è spiegabile in termini di selezione naturale. Come Paley, anche Dawkins intende dunque narrare le meravigliose e sofisticate strutture e funzionalità del mondo vivente, che alla luce delle conoscenze attuali appaiono ben più sorprendenti e spettacolari che nel XVIII secolo, ma, a differenza del teologo anglicano, egli vuole mettere in luce il potere delle forze cieche della selezione naturale e non l'opera di un Creatore intelligente. L'analogia che sembrerebbe esistere tra le creature del mondo vivente e le disposizioni di un artefice intelligente conosce oggi esempi perfino più sorprendenti che in passato, come si può vedere nell'interessantissimo capitolo II, dedicato in gran parte a descrivere i meccanismi di ecolocazione sviluppati dai pipistrelli, che mostrano straordinarie somiglianze con le tecnologie del sonar e del radar, messe a punto dagli ingegneri militari. Considerazioni altrettanto interessanti si fanno intorno al funzionamento dell'occhio, infatti si possono riscontrare parallelismi tra le parti di quest'organo così complesso e i componenti di una fotocamera: l'iride e il diaframma, la pupilla e il foro stenopeico, il cristallino e la lente, la retina e la pellicola fotosensibile, e così via.
Proprio a partire da considerazioni come queste, anche in tempi recenti, sono state mosse obiezioni, da parte di alcuni autori, alla teoria darwiniana: come avrebbe potuto, un organo complesso come l'occhio, essersi evoluto attraverso tanti piccoli passi graduali, quando solo l'esito ultimo della serie di mutamenti risulta funzionante e, quindi, può rappresentare un vantaggio evolutivo? Secondo Dawkins questo genere di obiezioni si regge solo su un fondamento psicologico, dato dalla nostra incapacità di immaginare un numero sufficientemente grande di passi evolutivi, tali che ognuno di essi abbia valore adattivo, per quanto piccolo. Il mondo naturale offre, al proposito, numerosi esempi di un "occhio" più rudimentale e impreciso di quello dei mammiferi, ma non per questo inutile: alcuni unicellulari possiedono pigmenti fotosensibili, certi vermi e polipi presentano delle fossette che fungono da camera stenopeica per la ricezione della luce. Tutti questi potrebbero essere considerati come alcuni dei gradini inferiori nella scala dell'evoluzione del nostro organo della vista. Una vista del 5 per cento, per quanto debole, è comunque preferibile alla cecità assoluta e rappresenta, per l'animale che la possiede, un vantaggio evolutivo; analogo discorso vale per qualunque altra capacità adattiva: «Ogni volta che in un animale vivente abbiamo una X, dove X è un qualche organo troppo complesso per poter avere avuto origine per caso in un singolo passo, allora, secondo la teoria dell'evoluzione per selezione naturale, dev'essersi verificato il caso in cui una frazione di X era meglio dell'assenza totale di X» (p. 132).
L'incredulità con cui molti guardano alla teoria dell'evoluzione è, secondo Dawkins, dovuta principalmente a due fattori. Anzitutto vi è l'incapacità, da parte dell'immaginazione umana, di figurarsi tempi tanto lunghi quanto quelli dell'evoluzione, poiché il nostro cervello è abituato a considerare quantità di tempo che non oltrepassano di molto la vita media di un individuo, mentre i tempi con cui ha a che fare l'evoluzione sono di centinaia di milioni di anni. In secondo luogo vi è quella che Dawkins chiama «applicazione intuitiva della teoria della probabilità» (p. 68), intuitiva ma inesatta, s'intende, in quanto giunge a confondere la selezione naturale con il "caso", quando invece casuale è soltanto la mutazione, ma non la selezione naturale.
I "biomorfi"
Nel capitolo III, certamente uno dei più originali di tutto il libro, l'A. descrive il funzionamento di alcuni programmi informatici di sua ideazione, che dovrebbero, in qualche modo, simulare i meccanismi dell'evoluzione, al fine di dare al lettore una dimostrazione del modo con cui opera la selezione naturale, e del suo potere di generare strutture altamente organizzate mediante l'accumulazione di piccoli mutamenti. Vale la pena parlarne brevemente.
Come esempio di una struttura organizzata, si può prendere un verso di Shakespeare, composto da 28 lettere. Se si calcola la probabilità di ottenere tale verso da una combinazione casuale di caratteri si ottiene, com'è facile vedere, una cifra incredibilmente piccola. Ora, il grado di complessità di un organismo vivente è ben superiore a quello di un verso di 28 lettere: come si può pensare, allora, che esso abbia avuto origine per combinazione casuale? È questa una delle argomentazioni che spesso adducono coloro che negano validità alla teoria dell'evoluzione, affermando, ad esempio, che le probabilità di ottenere, per combinazione casuale, una struttura complessa quanto un organismo vivente può essere paragonabile alla probabilità che avrebbe una scimmia di scrivere le opere complete di Shakespeare battendo alla cieca sui tasti di una macchina da scrivere. L'errore di tali ragionamenti, naturalmente, sta nel fatto che la selezione naturale non opera a passi singoli, come una scimmia che batta un tasto dopo l'altro, bensì attraverso quella che l'A. chiama "selezione cumulativa". Per spiegare tale concetto Dawkins mette in campo il suo programma informatico: esso comincia da una sequenza random di 28 caratteri, e la riproduce alcune volte, ma con una certa probabilità di errore casuale nella copiatura, dando origine così ad un certo numero di copie imperfette ("mutanti") della combinazione originale. A questo punto, il programma seleziona, tra le copie mutanti, quella che assomiglia di più al verso di Shakespeare, seppur molto alla lontana e, a partire da questa, ripete il processo. Si può osservare, come dichiara di aver fatto l'A., che il verso di Shakespeare comparirà, presumibilmente, entro poche decine di cicli di generazione e selezione delle frasi mutanti, ben poca cosa rispetto ai milioni di milioni di milioni di tentativi che sarebbero necessari per giungere allo stesso risultato in maniera assolutamente casuale: questo ci dà un'idea del modo in cui opera la selezione naturale, e di cosa essa può ottenere avendo a disposizione intere ere geologiche. Dawkins descrive poi un secondo "programma di evoluzione", più spettacolare perché non genera sequenze di caratteri bensì piccoli disegni, combinazioni di segmenti prodotte con un procedimento di composizione ricorsivo, che ricorda quello che dà origine ad alcune curve frattali, come quella detta "di Koch". Ciascuno di questi disegni è definito da una ennupla di otto valori numerici interi, che determinano la lunghezza dei segmenti, la loro angolazione, il numero di reiterazioni e così via; su tale ennupla agisce il programma come nel caso precedente, creando copie mutanti e ripetendo il processo a partire da una di esse. La differenza significativa, rispetto al primo programma, sta nel fatto che, in questo caso, la selezione del disegno da cui produrre nuove copie mutanti non è affidata al programma, ma è compiuta dall'operatore al computer, che può scegliere quello che più colpisce e stimola visivamente la sua fantasia. Giocando con questo programma a partire da un grafo elementare a forma di Y, Dawkins è riuscito, con un numero esiguo di cicli, a ottenere figure dalle forme curiosamente simili ad animali, cui egli ha dato il suggestivo nome di "biomorfi". L'analogia con la selezione naturale è chiara: i valori delle ennuple svolgono la funzione dei geni, gli errori della copiatura sono le mutazioni casuali, e l'occhio di Dawkins svolge il ruolo dell'ambiente naturale, che seleziona gli individui più adatti.
Ci siamo dilungati un poco nella descrizione di questo capitolo III, perché ci permette di fare alcune considerazioni. I programmi ideati da Dawkins sono certamente interessanti dal punto di vista didattico ma, allo stesso tempo, mostrano, a nostro avviso, alcune contraddizioni quando se ve vogliono trarre conseguenze di ordine filosofico. Relativamente agli scopi di Dawkins, dimostrare cioè che l'orologiaio è cieco e che nell'evoluzione è assente ogni forma di finalismo, queste simulazioni dei meccanismi naturali potrebbero perfino rivelarsi un'arma a doppio taglio. Il primo programma infatti funziona proprio perché possiede già in partenza ciò che deve ottenere, ossia il verso del poeta, e solo grazie a questa informazione iniziale esso è in grado di selezionare la stringa di caratteri che assomiglia maggiormente all'esito desiderato. Nel secondo caso a svolgere l'operazione di selezione è addirittura lo stesso Dawkins, vale a dire un cervello umano, capace di creatività e fantasia! Se questi esempi, come vuole l'autore, sono un modello del funzionamento della selezione naturale, allora essi dimostrerebbero in maniera piuttosto chiara che la teoria di Darwin presuppone proprio ciò che si vorrebbe negare, ossia l'esistenza di un finalismo naturale. Lo stesso Dawkins dice infatti: «la selezione naturale è l'opposto stesso della casualità» (p. 69); ma sorprendentemente egli sembra non rendersi conto che affermare questo significa già ammettere che l'evoluzione è un processo caratterizzato da una direzionalità. Perché ci sia selezione naturale occorre che ci sia un ambiente che seleziona gli individui più adatti, tale ambiente è necessariamente dotato di caratteristiche, definito da delle forme, che determinano delle direzionalità. Questo non significa necessariamente il determinismo nel raggiungimento di mete specifiche, ma la presenza, innegabile, di linee preferenziali definite dalle leggi naturali.
L'esistenza di direzionalità non riguarda solo l'azione dell'ambiente, ma anche l'oggetto stesso della selezione, ossia gli individui e il loro patrimonio genetico. Le mutazioni genetiche infatti non si muovono nell'astratto universo del possibile, ma all'interno dei limiti posti dalle leggi naturali, in quanto i loro oggetti sono reali catene di molecole, parti della natura. Il corredo genetico non è potenzialità infinita, ma materia informata (nel senso aristotelico del temine), sistema complesso di macromolecole che esistono ed agiscono secondo le leggi della chimica e della fisica, quindi entità dotate di forme e virtualità specifiche. Per di più le relazioni tra il genotipo e il fenotipo sono determinate in grande misura dalle forme dei processi di embriogenesi, cosa di cui l'A. è, ovviamente, ben consapevole: «soltanto una minoranza delle cose che potrebbero concepibilmente evolversi sono in realtà permesse dallo status quo di processi di sviluppo esistenti» (p. 415). In qualunque modo la si voglia presentare, dunque, l'evoluzione per selezione naturale non può prescindere da questi due elementi: un ambiente che seleziona gli individui secondo direzioni preferenziali (rappresentato, nel caso dei biomorfi, dal senso estetico del loro autore, dalla totalità dell'universo e delle sue leggi, nel caso reale) e individui oggetto di tale selezione, cioè enti dotati di specificità formale (le stringhe di caratteri, nella natura virtuale dei programmi di Dawkins, le combinazioni di nucleotidi, nella natura reale). Solo in virtù di una presa di posizione, e non sulla base di vere considerazioni scientifiche, si possono fare affermazioni come questa, che si legge nel primo capitolo: «.il Creatore potrebbe essere infinitamente pigro. Le unità fondamentali originarie, che noi abbiamo bisogno di postulare per comprendere il venire all'esistenza di qualcosa, o consistono letteralmente in nulla (secondo alcuni fisici) o (secondo altri fisici) sono unità di una semplicità estrema, troppo semplici per aver bisogno di una cosa così grandiosa come una Creazione deliberata» (p. 35). L'affermazione che le unità fondamentali "consistono letteralmente in nulla" è priva di significato logico, nasce forse dal confondere il vuoto quantistico col nulla metafisico; dire che, per spiegare l'origine delle cose, sia sufficiente postulare una originaria "semplicità estrema" è atto alquanto tendenzioso, che non tiene nel dovuto conto quanto dice la scienza (per ulteriori spunti si può consultare la sezione I.2 della voce Creazione, in questo Portale)
Le "Teorie rivali"
Gran parte del libro è dedicata a difendere la teoria di Darwin dagli attacchi che le sono rivolti da alcune teoria rivali. Una particolare attenzione è riservata alla discussione della famosa "teoria degli equilibri punteggiati", proposta negli anni '70 dai paleontologi americani Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. Ciò che sta a cuore a Dawkins, è dimostrare che tale teoria, se compresa correttamente, non giunge affatto ad intaccare le basi dell'evoluzionismo darwiniano, come hanno voluto far credere i mass media, ma si colloca perfettamente in linea con il neodarwinismo ortodosso. Eldredge e Gould affermano che l'evoluzione non procede con velocità costante, ma è caratterizzata da lunghi periodi di stasi, in cui le specie si mantengono pressoché immutate, tali epoche di equilibrio sono interrotte da brevi periodi di veloci trasformazioni, in cui l'evoluzione subisce una "impennata" e nascono nuove specie. I termini "veloce" e "lento" vanno intesi, naturalmente, in senso relativo, poiché la durata dei periodi di "evoluzione accelerata" si conta comunque in centinaia di migliaia o milioni di anni. La teoria degli equilibri punteggiati permette, tra l'altro, di spiegare, almeno in parte, il problema delle "lacune" nella documentazione fossile, il fatto cioè che non si dispone di reperti fossili che documentino la continuità del passaggio da una specie ad un'altra, ma le nuove specie sembrano apparire all'improvviso: questo, infatti, potrebbe essere dovuto proprio al fatto che la speciazione avviene in periodi di breve durata, relativamente ai tempi geologici. Il guaio, dice Dawkins, è che la teoria degli equilibri punteggiati è stata confusa, complice la cattiva informazione fattane dai mass media e il linguaggio talvolta ambiguo degli stessi Gould ed Eldredge, con il cosiddetto "saltazionismo", teoria che davvero si oppone al "gradualismo" di Darwin. Secondo i "saltazionisti" l'evoluzione procede per salti discreti, attraverso macromutazioni che si verificano tra una generazione e la successiva, e non attraverso piccole mutazioni che si accumulano nel corso di innumerevoli generazioni, come vuole invece Darwin. A causa delle analogie che presenta con l'idea di una creazione istantanea delle nuove specie, il "saltazionismo" è stato visto con interesse dai sostenitori delle teorie creazioniste. Eldredge e Gould però non sono affatto dei "saltazionisti", in quanto ritengono che a determinare l'evoluzione siano le piccole mutazioni graduali e non le macromutazioni, soltanto affermano che il ritmo dell'evoluzione non è costante ma conosce lunghi periodi di stasi, cosa che, del resto, lo stesso Darwin riteneva possibile; per questo Dawkins afferma che «la teoria degli equilibri punteggiati è soltanto una glossa secondaria al darwinismo, una glossa secondaria che lo stesso Darwin avrebbe approvato se il problema fosse stato discusso al suo tempo» (p. 340).
Tra le teoria rivali, naturalmente, viene ricordata anche quella di Lamarck, che talvolta rispunta, sotto diverse forme, nell'ambito delle critiche al darwinismo. L'opinione di Dawkins su questa storica teoria si può così riassumere: se anche venissero scoperti casi di trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti (cosa che, peraltro, andrebbe contro quanto sappiamo in materia di genetica), questo non sarebbe motivo sufficiente per mettere da parte il darwinismo, in quanto mancherebbe ancora una spiegazione convincente del perché alla prole vengano trasmessi solo i caratteri vantaggiosi, con valore adattivo, e non quelli negativi, acquisiti, ad esempio, in seguito a traumi e malattie. L'unica soluzione sarebbe ammettere che l'organismo ha una tendenza innata a selezionare, tra i caratteri acquisiti da trasmettere alle future generazioni, solo quelli vantaggiosi, ma come avrebbe potuto sviluppare tale tendenza se non per selezione naturale? Dunque, in un certo senso, la teoria di Lamarck presupporrebbe quella di Darwin: «la teoria lamarckiana può spiegare il miglioramento adattivo nell'evoluzione solo cavalcando, per così dire, la teoria darwiniana» (p. 400).
Un altro argomento che viene talora addotto per indebolire la validità del darwinismo fa riferimento ad alcune scoperte, compiute negli ultimi decenni, nel campo della microbiologia molecolare. Alcuni rimarcano il fatto che, a quanto pare, la maggior parte dei mutamenti che avvengono a livello genetico sono neutri, ossia non hanno valore adattivo. Tale considerazione, dice Dawkins, non inficia il valore della teoria darwinana; essa, infatti, ha lo scopo di spiegare la complessità adattiva degli esseri viventi e non le mutazione genetiche di per sé, le quali, quando sono neutre, sono invisibili alla selezione naturale, e non influenzano le caratteristiche morfologiche degli individui. Altri hanno sostenuto che l'evoluzione sia determinata non tanto dalla selezione, quanto dalla natura stessa delle strutture geniche. I mutamenti genetici non sarebbero, secondo i sostenitori di questa teoria, casuali, ma possederebbero un tendenza intrinseca verso le trasformazioni con valore adattivo. È naturale che Dawkins respinga fortemente questa idea, a motivo del suo forte carattere finalistico: «il problema, quando si veda nella mutazione l'unica forza evolutiva, è molto semplice: in che modo la mutazione potrebbe sapere che cosa sia bene per l'animale e che cosa no?» (p. 407).
Il creazionismo
Veniamo, infine, alle pagine conclusive del libro, in cui Dawkins considera «la teoria che la vita sia stata creata, o che la sua evoluzione sia stata diretta, da un artefice cosciente». Può essere interessante riportare per intero le parole dell'autore, per meglio evidenziare alcuni posibili fraintendimenti filosofici. «A prima vista, dice Dawkins, c'è un'importante distinzione da fare fra quella che potremmo chiamare "creazione istantanea" e l'"evoluzione guidata". Teologi moderni di un certo livello hanno rinunciato a credere nella creazione istantanea. molti tra i teologi che si definiscono evoluzionisti. fanno però rientrare Dio per la porta di servizio: essi gli permettono una qualche sorta di controllo sul corso intrapreso dall'evoluzione, consentendogli di esercitare un'influenza nei momenti chiave della storia filogenetica (specialmente, com'è ovvio, nella storia dell'evoluzione umana ) o addirittura ingerirsi in modo più generale negli eventi quotidiani che, sommati determinano il mutamento evolutivo. Noi non possiamo certamente confutare convinzioni come queste, specialmente se si suppone che Dio abbia preso cura di far sì che i suoi interventi imitassero sempre nel modo più fedele ciò che si dovrebbe attendere dall'evoluzione per selezione naturale. Tutto ciò che possiamo dire su queste convinzioni è, in primo luogo, che esse sono superflue e, in secondo luogo, che presuppongono l'esistenza della cosa principale che vogliamo spiegare, ossia della complessità organizzata» (p. 422).
Può essere interessante riprendere più da vicino alcune delle precedenti affermazioni. La distinzione tra una nozione di "creazione istantanea", certamente incompatibile con i risultati della paleontologia, e di "evoluzione guidata", quest'ultima ritenuta accettabile da molti teologi moderni, sembra non essere stata compresa correttamente. Dawkins, parlando di "evoluzione guidata", sembra pensare all'azione di un dio che lascia il mondo in balia di sé stesso, riservandosi di apportare, di tanto in tanto, qualche impercettibile aggiustamento, intervenendo, nei momenti opportuni, sul corso naturale degli eventi, al fine di instradare l'evoluzione lungo il cammino da lui progettato. Questa concezione, però, non corrisponde né a quanto insegna la Rivelazione , né a quanto può affermare una seria riflessione teologica, che voglia tener conto dei risultati acquisiti dalle scienze. Ci limitiamo qui a ricordare che la filosofia tomista ci offre un modo ben diverso di pensare la creazione, in accordo con quanto rivelano le Sacre Scritture. La creazione è l'atto con cui Dio, che è causa prima di tutte le cose, fa sì che tutte le cose siano, e che possiedano una natura che le determina, è actus essendi con cui Dio si pone a fondamento dell'esistenza delle cose, ossia porta le cose all'esistenza e le sostiene nell'esistenza, dunque è un rapporto continuo di dipendenza, che lega le creature al Creatore. Così intesa la creazione non è dunque un atto compiuto da Dio soltanto all'inizio dei tempi, a cui si può aggiungere, eventualmente, una serie di interventi episodici, ma è azione divina continua, che accompagna tutta la storia del creato, atto fondativo dell'esistenza delle cose, in ogni istante. La creazione è dunque un concetto metafisico che, come tale, oltrepassa i limiti della scienza sperimentale, e si pone in un diverso livello di spiegazione. Pertanto è corretto affermare che, attenendosi ai soli dati empirici e limitandosi a considerazioni di carattere strettamente scientifico, non è possibile affermare né negare l'azione di un creatore intenzionale, cosa che, del resto, sembra ammettere anche l'autore, dicendo "noi non possiamo certamente confutare convinzioni come queste". Quello che Dawkins non sembra cogliere è la differenza ontologica tra il Creatore e le creature e, conseguentemente, la differenza qualitativa tra la causalità delle cause seconde e quella della Causa prima. Dawkins associa la creazione all'idea di un dio che opera nascostamente, allo stesso modo in cui operano le cause naturali, sul loro stesso piano ontologico, così che i suoi interventi imitano "nel modo più fedele ciò che si dovrebbe attendere dall'evoluzione per selezione naturale", insomma un dio la cui opera si pone, per così dire, in concorrenza con i processi naturali, risultando praticamente indistinguibile da essi. Non c'è dubbio che siffatta visione cade sotto l'azione del rasoio di Occam, che la dichiara non necessaria alla spiegazione scientifica. Per questo Dawkins dice che l'idea di una creazione è superflua. Tuttavia, a tale obiezione si potrebbe rispondere che affermare l'esistenza di un Creatore intelligente si rivela superfluo solo se si vuole restringere il campo della razionalità a quello della conoscenza scientifica. Le domande sul fondamento dell'esistenza e sul significato del mondo e della vita umana, le relative risposte che propone la riflessione filosofica e teologica, non sono meno razionali di quelle che attengono al dominio delle scienze, ma si collocano su di un diverso livello di spiegazione, che non ignora le acquisizioni della scienza, ma le comprende in una visione più ampia e completa. La scienza infatti, attraverso i metodi che le sono propri, può scoprire le caratteristiche dell'universo e, sulla base dei dati disponibili, formulare ipotesi sul suo passato e il suo futuro, ma non può dare ragione del perché ultimo del mondo e della sua esistenza, del perché ha proprietà tali da aver consentito il sorgere della vita umana, e non può dire, soprattutto, se esiste un senso, uno scopo, in tutto ciò.
La trascendenza della causa prima, quale integrazione filosofica all'incompletezza propria di ogni spiegazione scientifica, è un aspetto che Dawkins non prende in esame quando formula la sua obiezione alla prospettiva di una creazione, affermando: «spiegare l'origine della macchina per la duplicazione del DNA e per la sintesi delle proteine invocando un Architetto soprannaturale significa non spiegare assolutamente nulla, giacché in questo modo rimane inspiegata l'origine dell'Architetto. In questo caso si deve sostenere che "Dio esiste da sempre", e se ci si consente una scappatoia così facile, si potrebbe allora dire altrettanto bene che "il DNA esiste da sempre", o che "la vita esiste da sempre"» (p. 198). Un ragionamento come questo assume tacitamente che l'Essere Creatore sia totalmente immanente al mondo, uno degli anelli della catena causale, e solo per questo considera la sua eternità come "una facile scappatoia" al problema della sua origine; ancora una volta occorre sottolineare la differenza ontologica tra l'Essere del Creatore e l'essere delle creature. Intendere la Causa prima come il primo elemento di una serie di cause, tutte appartenenti allo stesso livello ontologico, è una soluzione insoddisfacente, come giustamente nota Dawkins, dicendo che "rimane inspiegata l'origine dell'Architetto". Ma non è questa la prospettiva di una corretta teologia della creazione, come spiegata ad esempio dalla tradizione tomista: quest'ultima, ponendo la distinzione tra l'essere dell'essenza e l'essere dell'esistenza, prevede che non solo la prima, ossia l'essenza, ma anche la seconda, l'esistenza, necessiti di un'azione causale, la quale ha la particolare forma della partecipazione all' esse . «Questa partecipazione è logicamente "perpendicolare" alla catena degli enti causati-causanti (la "Causa prima" non è l'ultimo causante all'indietro della serie: nozione assolutamente inconsistente), in quanto è ciò che dà consistenza metafisica all'intera catena causale e a ciascun suo anello (ente contingente). È dunque una causalitàindipendente dal tempo e dal divenire , perché logicamente e ontologicamente li tiene e fonda» (G. Basti: Filosofia della natura e della Scienza, vol. I, Roma 2002, p. 38). Non si tratta dunque di chiudere semplicisticamente la catena causale ipotizzando una complessità originaria quale "primo termine", ma di constatare, nella spiegazione causale di ordine fisico, una incompletezza che può essere superata, seguendo le esigenze proprie della ragione, solo postulando una causalità che non è di ordine fisico.