Die Zukunft einer Illusion, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Leipzig 1927
Opere complete (1886-1938), 12 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1967-1982 (con varie ristampe), L'avvenire d'una illusione (1927), vol. X, 1980, pp. 431-485.
L'Avvenire di un'illusione, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971
S. Freud, O. Pfister, L'avvenire di un'illusione. L'illusione di un avvenire, Bollati Boringhieri, Torino 1990
All'interno della contemporanea critica delle scienze alla religione la psicanalisi ha giocato e gioca un ruolo importante, necessariamente legato alla persona di Sigmund Freud (1856-1939). Già nel 1901, nella sua opera Psicopatologia della vita quotidiana, Freud si era occupato della psicologia della superstizione cercandone le cause nell'inconscio, mentre nel primo numero della rivista Zeitschrift für Religionspsychologie (1907) egli prospetta per la prima volta la tesi che la religione abbia il carattere di una nevrosi ossessiva universale. Nella più nota opera Totem e tabù (1913), offre una estesa interpretazione del fenomeno religioso e del suo rapporto con l'organizzazione sociale, fin dall'epoca primitiva. Ma sarà nel saggio L'avvenire d'una illusione (1927) ove il fondatore della psicanalisi cercherà di mostrare che la religione è uno dei principali aspetti sociali nato dalla repressione e dalla frustrazione della vita istintiva: la religione non avrebbe nulla di reale perché è una pura e semplice illusione. Commenteremo qui brevemente il contenuto di quest'opera, rimandando il lettore interessato al testo della voce Freud, Sigmund, on line in questo stesso Portale.
Al di là dell'aspetto terapeutico, l'influsso della psicanalisi è stato così profondo da aver interessato ogni ambito culturale, dalla antropologia alla sociologia, alla letteratura, al teatro, al cinema, alla morale e alla religione. «La psicoanalisi nella stessa produzione letteraria del suo fondatore si manifestava quale una teoria sistematica mirante a fornire una antropologia unitaria ed esaustiva dell'uomo e della società. La sua chiave ermeneutica veniva con successo applicata alla politica, l'arte, la storia, la morale, il diritto, la religione, ecc. È chiaro che in tal modo la psicoanalisi assumeva un significato filosofico, se per filosofia si intende, conformemente alla tradizione, una scienza delle cause ultime dell'uomo e del cosmo. Di conseguenza essa si poneva in tensione dialettica o conflittuale con le diverse dottrine metafisiche o religiose che aspiravano allo stesso fine» (P. Valori, Psicoanalisi e filosofia, in "Questioni di storiografia filosofica", La Scuola , Brescia 1978, vol. V, p. 770).
Già ad un primo sguardo parrebbe esserci dunque una certa conflittualità tra religione e psicoanalisi: si è ripetuto ad esempio che il sacerdote e la confessione non avrebbero ormai più senso, considerata l'azione terapeutica "liberatorio-salvifica" svolta dallo psicoanalista. In realtà, da un esame più attento forse emergono più punti di possibile contatto e di collaborazione che non di scontro (cfr. G. Torellò,Psicanalisi o confessione?, Ares, Milano 1989). Del resto fu lo stesso Freud a riconoscere che il pastore protestante Oskar Pfister attraverso la sublimazione religiosa otteneva il successo terapeutico più facilmente dei colleghi laici. Una delle traduzioni italiane de L'avvenire di una illusione (Bollati- Boringhieri, Torino 1990) sarà di fatto proposta insieme ad un carteggio fra Freud e Pfister. Ma in senso più generale, si dovrebbe dire che sia stata proprio la psicoanalisi a rivalutare il ruolo della religione (e viceversa), pur con tutte le riserve di entrambe le parti inerenti al proprio specifico: la religione riconosce l'importanza dell'analisi svolta dalla psicologia del profondo, però non può accettare di essere valutata come una "illusione" umana destinata a lasciare il posto al progresso scientifico.
Freud e la religione
Freud si è sempre considerato ateo. Nondimeno il suo interesse per la religione è stato costante, passando dalla ricerca della sua origine storica ( Totem e tabù), alla scoperta della sua componente psiconevrotica ( Atti ossessivi e pratiche religiose), alla constatazione della sua valenza sociale universale (L'avvenire di un'illusione ). All'origine della religione si troverebbe il "complesso di Edipo", quel rapporto di odio-amore che contrappone il figlio al padre nel desiderio della madre, tanto da volerne la morte. Ma subentra il senso di colpa e il bisogno di espiare, per cui il figlio nel pentimento interiorizza, idealizza e sublima la figura paterna come un qualcosa di assoluto e di invalicabile a cui rivolgersi soprattutto nei momenti di paura e di difficoltà. Il nucleo della religione quindi è dato dal «culto di un Dio,Padre onnipotente, legislatore e provvidente, in cui l'uomo si rifugia per cercare un appoggio nella sua condizione di impotenza e di angoscia. Scoprire pertanto l'origine della religione nello spirito umano, significa individuare il meccanismo psicologico che fa sorgere l'idea di tale Padre onnipotente, conducendo, al tempo stesso l'uomo a porsi con esso in rapporto di totale dipendenza» (C. Cantone, Introduzione al problema di Dio, La Scuola, Brescia 1973, pp. 98-99).
Religione perciò come sinonimo di "immaturità" umana che sfugge alle proprie responsabilità e delega al trascendente la soluzione dei problemi esistenziali nel senso più ampio del termine, dai fenomeni naturali inspiegabili, al senso della vita e della morte. «Non potendo sopportare la propria debolezza e il proprio abbandono davanti alle crudeli esigenze della natura e della società, l'uomo si rifugia in un regresso infantile proiettando su Dio il suo bisogno (ambivalente) di protezione e di sicurezza» (A. Plé, Freud e la religione, Città Nuova, Roma 1971, p. 20). Freud insiste molto su questo aspetto "infantile" della religione: è come se l'individuo rifiutasse di crescere interiormente, di prendere coscienza della realtà, di affrontare i problemi che lo condizionano. Si affida al sacro, alla fede, ai gesti rituali che lo possono proteggere, proprio come la persona nevrotica, costretta a ripetere simbolicamente determinati comportamenti per non sentirsi oppressa dall'angoscia dei sintomi che la ossessionano. Agendo in questo modo però il paziente non prenderà mai coscienza della propria condizione, negandosi così la possibilità di guarire. Anche l'uomo religioso rifugge dalla realtà per proiettarsi in un mondo illusorio, che lo lascia ad un livello psichico puerile e ascientifico.
È la tesi, appunto, che Freud sviluppa in L'avvenire di una illusione (Die Zukunft einer Illusion): «Si tratta delle relazioni tra l'insufficienza del bambino e quella che ne costituisce il seguito, dell'adulto, cosicché, com'era da aspettarsi, il motivo che la psicoanalisi adduce per il formarsi della religione è uno solo: il contributo infantile alla sua motivazione manifesta [...]. Il motivo del desiderio ardente del padre coincide pertanto col bisogno di protezione contro le conseguenze della debolezza umana; la difesa contro l'insufficienza infantile lascia il suo segno caratteristico sul modo di reagire dell'adulto contro la sua fatale impotenza, ossia sulla formazione della religione» (L'avvenire di un'illusione, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, pp. 163-164».
Come Feuerbach e Marx, anche Freud vede nella religione l'espressione della miseria dell'uomo e la proiezione dei suoi ideali di felicità e di perfezione. La religione è ciò che egli vorrebbe essere, è l'espressione dei suoi desideri più profondi; e più vede minacciata la sua "essenza" da una natura "matrigna", più si affida all'illusione di un Padre misericordioso e salvifico. Le rappresentazioni religiose «sono illusioni, appaganti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri. [...] Quando dico che tutto ciò è illusione, devo delimitare il significato della parola. Un'illusione non è la stessa cosa di un errore, e non è nemmeno necessariamente un errore» (ibidem, p. 170).
La religione, cioè, non è un errore proprio perché è l'espressione della reale condizione umana; ma è illusione in quanto le soluzioni prospettate non hanno alcuna possibilità di concretizzazione; e finché l'uomo non lo capirà, sarà destinato a perpetuare la sua condizione di infanzia psicologica. Freud opera a questo punto un inevitabile parallelo tra ontogenesi e filogenesi: «Sappiamo che il bambino dell'uomo non può portare a termine il suo sviluppo verso la civiltà senza attraversare una fase più o meno evidente di nevrosi [...] In modo del tutto simile potremmo supporre che, nel suo sviluppo secolare, l'umanità nel suo insieme sia incorsa in stati che sono analoghi alle nevrosi [...] La religione sarebbe la nevrosi ossessiva universale dell'umanità» (ibidem, p. 83).
Tuttavia Freud, al termine della sua indagine, è convinto che la maggior parte degli uomini avrà sempre bisogno della religione perché su di essa poggia tutta la civiltà. Dire all'uomo "comune" che Dio non esiste significa privarlo di ogni ritegno e abbandonarlo alle più sfrenate pulsioni egoistiche: se Dio non esiste, allora tutto è permesso. Si tornerebbe nel caos primordiale e le conquiste così sofferte della civiltà sarebbero irrimediabilmente compromesse. Freud però precisa: questo vale «per quanto riguarda la gran massa degli incolti", non certo per gli uomini dediti allo studio e alla scienza. "In essi, per quanto riguarda il comportamento civile, la sostituzione dei motivi religiosi con motivi diversi, laici, può avvenire senza strepito; essi sono inoltre in gran parte portatori di civiltà» (ibidem, p. 179).
C'è dunque in Freud una distinzione "nietzschiana" per quanto riguarda l'umanità, per cui la maggior parte degli individui rozzi e ignoranti permarrebbero nella illusione nevrotica della sfera religiosa, mentre sarebbero pochi i "predestinati", resi liberi dallo studio e dalla scienza. Evidentemente la preparazione medica dello psicoanalista viennese e l'influenza del positivismo hanno avuto su di lui un'incidenza particolare, tanto da indurlo a posizioni quantomeno preconcette, rimarcate dai suoi stessi allievi. Freud condivide inoltre un certo "determinismo psicologico", in base al quale predomina la convinzione che ogni aspetto dell'attività mentale possa essere considerato come effetto di tutta una serie di circostanze precedenti: conoscendo le cause, si possono prevedere gli effetti. Questa sicurezza in realtà non può essere condivisa: gli effetti, soprattutto per quanto riguarda l'uomo, sono la conseguenza di una concomitanza di cause di cui è difficile prevedere l'esito preciso e nessuna di esse, presa singolarmente può costituire una spiegazione sufficiente. E questo vale ovviamente anche per la presenza della religione nella vita del singolo e nella storia dell'umanità.
«Freud sembra avere sempre pensato che l'uomo religioso non può che rimanere nevrotico o infantile, oppure diventare ateo, quando considera, in altri campi, che le motivazioni inconsce, arcaiche, animistiche, nevrotiche possono essere superate, vagliate, elaborate. Non concepisce mai se non il fatto, tanto meno l'ipotesi, che un credente possa in quanto tale, accedere alla maturità umana» (A. Plé,Freud e la religione, op. cit., p. 82). Ma è proprio su questo aspetto che invece insistono i post-freudiani, superando l'atteggiamento riduttivo che il maestro aveva della religione.
Osservazioni critiche alla posizione freudiana
Per quello che riguarda l'interpretazione freudiana circa l'origine della religione, va osservato che l'idea che la tradizione ebraico-cristiana acceda alla nozione di Padre come materializzazione di un'esigenza di sicurezza e di protezione attraverso una proiezione inconscia, non sembra fondata. Per il popolo di Israele i contenuti associati a questo appellativo sono inaspettati, in quanto le proprie esigenze di sicurezza si dirigono verso l'immagine di un Dio-Signore, forte in guerra, garanzia di successo contro i propri nemici e di stabilità socio-politica: un Dio invocato come Signore, si rivela come Padre. Con la preghiera del Pater noster , ad esempio, che di quel rapporto ne è la magna charta , le prime aspirazioni che ci vengono messe sulla bocca e nel cuore sono quelle di santificare questo nome, di onorarlo, di far sì che ne venga compiuta la volontà, prima in Cielo e poi sulla terra; le richieste centrate sull'uomo, compresi i nostri bisogni vitali, compaiono solo in seconda battuta. La paternità divina presentata dalla Sacra Scrittura è certamente una paternità legata ad un compito morale, ma il comportamento che lega al Padre non è in primo luogo il senso di colpa suscitato dal peccato, bensì il richiamo ad imitarne l'esempio, l'invito ad entrare in una logica nuova, "paterna". Il discorso della montagna riportato dal Vangelo secondo Matteo è a questo proposito sufficientemente esplicito: l'immagine di un Padre che conosce le necessità dei suoi figli, e dunque li nutre e li assiste, ha per contesto la consegna della nuova legge "filiale", l'esortazione a compiere il bene per "essere come il Padre", ad esercitare la generosità, la carità ed il perdono "come fa il Padre".
Resta per il cristiano il rischio di manipolare questa paternità facendone esclusivamente un oggetto cui dirigere le proprie ansie di sicurezza - ed in ciò la critica freudiana mantiene un suo valore e torna utile alla vera fede -, ma questo atteggiamento si distaccherebbe dal cammino filiale rivelato dal Vangelo, trasformando la religione in idolatria. Il soggetto della filiazione evangelica è invece sempre desideroso di purificazione, disposto a compiere non la propria volontà ma la volontà del Padre. «L'importanza di queste purificazioni ci sembra rivelata dal "Padre nostro". È sorprendente che la primissima richiesta della sola preghiera che Cristo ci abbia insegnato, ci inviti a mettere al primo piano nei nostri desideri di credenti: "Sia santificato il tuo nome". Cioè che noi siamo purificati da ogni idolatria, da ogni "proiezione infantile", da ogni "nostalgia del padre", da ogni infantilismo o motivazione nevrotica della nostra ricerca di Dio. A questo fa eco una delle Beatitudini: "Beati i puri di cuore perché vedranno Dio" (Mt 5,28). [.] Il credente, infatti, progredisce nella sua fede perdendo le illusioni. Perdendole, la sua intelligenza (la fede), il suo desiderio (la speranza), e il suo amore (carità) conoscono le purificazioni auspicate, perché la realtà (divina) regola il suo piacere» (A. Plé, Freud e la religione, op. cit., pp. 120-121).
Dalle sue prime formulazioni freudiane ad oggi la psicoanalisi ha modificato il suo atteggiamento nei confronti della religione per un rapporto più positivo. Anche la teologia stessa però si è convinta della bontà di certe affermazioni della psicologia del profondo, pur non ritirando le sue riserve su una certa svalutazione del contenuto religioso ridotto a semplice atto psichico. «Il teologo non può non essere fortemente interessato e stimolato dalle analisi freudiane. Sottolineiamo: le analisi, e non gli errori, ignoranze, pregiudizi, che abbiamo dovuto rilevare» (A. Plé, Freud e la religione, op. cit., p. 86). In effetti, alcuni presupposti da cui è partita la critica psicoanalitica alla religione oggi sono stati superati.
Certamente le religioni hanno subìto dei cambiamenti lungo i secoli, ma non sicuramente secondo lo schema positivistico previsto da Auguste Comte (1798-1857), sul quale Freud si era ampiamente basato. Non è vero, ad esempio, che l'animismo sia la forma originaria della religione, ma ne è piuttosto un fenomeno tardivo e derivato. Né dall'esistenza di una comune ricerca di Dio da parte di tutta l'umanità si può derivare l'origine psicologica o immanente della coscienza religiosa, essendoci anche il modo, già con san Tommaso d'Aquino, di interpretarla come un comune "desiderium naturale videndi Deum", la cui origine rimanda, invece, alla trascendenza di Dio. Se si deve riconoscere che un certo modo patologico di vivere l'esperienza religiosa può rilevare infantilismo e alienazione, ciò non significa che la religione in quanto tale sia nevrosi. Dio può essere cercato come compensazione psicologica; però questo nulla toglie al fatto che Dio sia una Realtà in sé e non un'illusione.