Mi trovo pressappoco nella stessa situazione in cui si trovò Cicerone, quando cominciò a trattare nella sua lingua argomenti di filosofia, che sino a quel tempo erano stati scritti solo in greco. Egli ci informa che le sue opere erano considerate inutili, poiché coloro che amavano la filosofia, essendovi data premura di cercarla nei testi greci, dopo avrebbero trascurato di leggerla nei testi latini, poiché considerati non originali; e che coloro che non avessero avuto interesse per la filosofia, non si sarebbero preoccupati di leggerla né in latino né in greco.
A ciò egli risponde che sarebbe accaduto esattamente l’opposto, ossia: coloro i quali non erano filosofi avrebbero avuto la tentazione di diventarlo per la facilità della lettura dei libri latini; e che coloro i quali lo fossero già per la conoscenza dei testi greci, sarebbero stati ben lieti di vedere come simili argomentazioni filosofiche fossero state trattate in latino.
A buon diritto Cicerone si esprimeva in questo modo. L’eccellenza del suo genio e la grande reputazione che aveva già acquisito, gli garantivano il successo di questo nuovo genere di opere che egli forniva al pubblico; ma io sono ben lontano dall’avere gli stessi motivi di fiducia in un’impresa quasi simile alla sua. Ho voluto trattare la filosofia in una maniera che non fosse filosofia; ho cercato di condurla ad un punto in cui essa non fosse né troppo arida per le persone comuni, né troppo frivola per i dotti. Ma se mi si dice più o meno come si disse a Cicerone, che una simile opera non è adeguata né ai dotti, i quali non vi possono apprendere niente, né alle persone comuni che non avranno voglia di apprendervi qualcosa, mi guardo bene dal dire ciò che egli disse. Può ben darsi che cercando un giusto mezzo in cui la filosofia convenga a tutti, io ne abbia trovato uno in cui essa non convenga ad alcuno; le vie di mezzo sono troppo difficili da tenere e non credo che mi venga voglia di accingermi una seconda volta alla stessa fatica.
Devo avvertire coloro i quali leggeranno questo libro e che hanno qualche conoscenza della fisica, che non ho affatto preteso di istruirli, ma soltanto di divertirli presentando loro in un modo più piacevole e più leggero ciò che essi sanno già più seriamente, e avverto coloro per i quali queste materie sono nuove, che ho creduto di poterli istruire e divertire nello stesso tempo. Entrambi andrebbero contro la mia intenzione: i primi se vi cercassero dell’utilità, e i secondi se non vi cercassero che il divertimento.
Non mi trastullerò a dire che ho scelto in tutta la filosofia l’argomento più idoneo a sollecitare la curiosità. È evidente che niente dovrebbe interessarci di più, se non il sapere come è fatto questo mondo da noi abitato, se ci sono altri mondi simili e se siano anch’essi abitati: ma, dopo tutto, si preoccupi di tutto ciò chi lo vuole. Coloro che hanno tempo da perdere, lo perdano su tali argomentazioni, tuttavia non tutti sono nella condizione di fare questo dispendio di fatiche inutili.
Ho inserito in questi Colloqui una donna alla quale si insegnano cose di cui non ha mai sentito parlare. Ho creduto che questa finzione mi servirà a rendere l’opera più suscettibile di consenso, e ad incoraggiare le signore con l’esempio di una donna che, non uscendo mai dai limiti di una persona che non ha alcuna dimestichezza con la scienza, non cessa di ascoltare ciò che le si dice e di imprimere nella sua mente, senza alcuna confusione, i vortici e i mondi. Perché le donne dovrebbero essere da meno di questa marchesa immaginaria, che capisce solo quello che non può fare a meno di capire?
In verità, Lei un po’si applica; ma che vuol dire in questo caso applicarsi? Non si tratta di penetrare con profonda meditazione una cosa per se stessa oscura, o spiegata oscuramente, ma soltanto non leggere senza rappresentarsi chiaramente ciò che si legge. Io non chiedo alle signore, per tutto questo sistema filosofico, se non la stessa applicazione che occorre dedicare alla Principessa di Clèves, se si vuol seguire bene l’intreccio e conoscerne tutta la bellezza. È vero che le idee di questo libro sono meno familiari alla maggior parte delle donne di quelle della Principessa di Clèves; ma esse non sono più oscure e sono certo che, tutt’al più, con una seconda lettura, niente sarà sfuggito loro.
Dal momento che non ho preteso fare un sistema campato in aria e senza alcun fondamento, ho fatto ricorso a veri ragionamenti di fisica, e ne ho usati tanti quanti ne è stato necessario. Ma fortunatamente in questo argomento si riscontra che le idee di fisica siano piacevoli per sé, e che mentre soddisfano la ragione, forniscono all’immaginazione uno spettacolo che è gradito, quasi fosse fatto proprio per appagarla.
Trovando alcuni argomenti che erano proprio di questa specie, ho dato loro attrattive diverse. Virgilio si è comportato così nelle sueGeorgiche, dove ha salvato l’essenza della materia, che è del tutto arida, con frequenti digressioni per lo più piacevolissime. Anche Ovidio ha fatto altrettanto nell’Arte d’amare, sebbene la sostanza della sua materia fosse di gran lunga più vivace di tutto ciò che poteva introdurvi. Evidentemente ha creduto che fosse noioso parlare di una stessa cosa, pur trattandosi di precetti di galanteria. Da parte mia, che più di lui abbisognavo dell’aiuto di digressioni, me ne sono tuttavia servito con una certa misura. Me ne sono giovato nella libertà naturale della conversazione; le ho poste nei punti dove ho creduto sarebbe stato gradito trovarle; le ho inserite per la maggior parte all’inizio dell’opera, dove la mente non è ancora assuefatta abbastanza alle idee principali che le offro; infine le ho assunte nel mio stesso argomento o molto vicino ad esso.
Non ho voluto immaginare sugli abitanti dei mondi, alcuna cosa che fosse assolutamente impossibile e chimerica. Ho cercato di dire quanto se ne poteva pensare razionalmente e persino le immagini che vi ho aggiunto hanno qualche fondamento reale. Il vero e il falso sono qui mescolati, ma facilmente distinguibili. Non tento affatto di giustificare una composizione così bizzarra; è questo il punto più importante dell’opera, ed è proprio ciò di cui non posso rendere ragione.
Non mi rimane altro, in questa prefazione, che parlare ad una categoria di persone; ma queste saranno forse le più difficili da accontentare, non perché non si possano offrir loro buone ragioni, ma perché esse hanno il privilegio di non appagarsi, se non vogliono, di qualsiasi buona ragione. Sono le persone scrupolose, le quali potranno credere che c’è un certo pericolo, riguardo alla religione, a immaginare abitanti oltre la Terra. Io rispetto persino le precauzioni eccessive che si assumono in fatto di religione; e quella stessa, l’avrei rispettata al punto da non toccarla in quest’opera, se essa fosse contraria al mio sentimento. Ma ciò che forse vi sembrerà sorprendente è che essa non riguarda soltanto questo sistema, dove riempio di abitanti una infinità di mondi. Occorre solo risolvere un piccolo errore di immaginazione. Quando vi si dice che la Luna è abitata, voi immaginate subito degli uomini fatti come noi, e poi, se siete un po’ teologi, eccovi pieni di difficoltà.
La posterità d’Adamo non ha potuto diffondersi fin sulla Luna, né fondare colonie in quel luogo. Gli uomini che si trovano sulla luna non sono quindi figli di Adamo. Ora sarebbe imbarazzante per la teologia se esistessero degli uomini che non discendessero da lui. Non occorre aggiungere altro, tutte le difficoltà immaginabili si riducono a questo, e i termini necessari per una più lunga spiegazione son troppo degni di rispetto per essere messi in un libro così poco serio come questo. L’obiezione riguarda dunque interamente gli uomini della Luna, ma sono coloro che la fanno ai quali garba porre gli uomini sulla Luna; io non ve li metto affatto. Io vi colloco abitanti che non sono per niente uomini; cosa sono essi dunque? Non li ho visti, non è per averli visti che ne parlo. E non pensate che sia una scusa di cui mi servo per eludere la vostra obiezione, quella di dire che non ci sono uomini sulla Luna: voi vedrete che è impossibile che ve ne siano secondo l’idea che ho della diversità infinita che la natura deve aver messo nelle sue opere. Quest’idea regna in tutto il libro, e non può essere contestata da alcun filosofo. Così, credo che intenderò fare questa obiezione soltanto a coloro che parleranno di questi colloqui senza averli letti. Ma è questo un motivo per rassicurarmi? No, al contrario, è legittimo temere che l’obiezione mi sia rivolta da diverse parti.