Cosa è accaduto? Una ricostruzione delle origini dell’Homo sapiens

Analizzando i risultati della paleoantropologia e della genetica riguardanti i nostri progenitori, Ian Tattersall, curatore del Dipartimento di Antropologia dell’American Museum of Natural History di New York, inquadra in questo brano, tratto da Il cammino dell’uomo, il fenomeno umano più nella sua unicità che nella sua presunta superiorità rispetto agli altri esseri viventi. L'essere umano è un animale molto particolare, addirittura enigmatico: imparentato con tutti gli altri esseri viventi, ha però capacità cognitive assolutamente peculiari, che lo distinguono dagli altri animali. Esaminando le testimonianze giunte fino a noi, dai primi utensili realizzati da specie che hanno preceduto l’Homo sapiens fino alle espressioni pittoriche dell'uomo di Cro-Magnon, l’autore individua nella cosiddetta "esplosione creativa", avvenuta più di 30.000 anni fa, quel salto di qualità che ha permesso all'uomo di essere così diverso da tutte le altre specie animali. Oltre a criticare alcune interpretazioni ideologiche del darwinismo, Tattersall mette in discussione il gradualismo insito nella teoria classica di Darwin avvalorando l'ipotesi che l'evoluzione proceda tramite discontinuità e con veri e propri salti tra una specie e l'altra. Egli sostiene infine che alcune caratteristiche, come l’autoriflessione e la comparsa della coscienza dell’uomo, restano inspiegabili utilizzando i soli parametri dell'evoluzione biologica.

Nelle pagine di apertura di questo capitolo ho sollevato la questione della coscienza umana, quella qualità poco conosciuta che ci induce a sentirci così diversi dal resto del mondo. È un fattore che non possiamo ignorare, qualsiasi versione diamo della nostra evoluzione. Ma mentre le sue straordinarie conquiste sono indiscutibilmente uniche nel mondo animale, non possiamo dare per certo che solo l’uomo la possieda. In ultima analisi, l’affermazione, piuttosto frequente, che solo l’uomo ne sia dotato è una semplice questione semantica perché tutti gli animali sono individui senzienti, non automi. Strutturalmente, il loro cervello somiglia al nostro in caratteristiche essenziali, e se il nostro non è che una macchina, non lo è nemmeno il loro. All’inizio di questo libro abbiamo passato in rassegna gli attributi comportamentali delle scimmie antropomorfe, vedendo in loro una risonante eco di noi stessi. A causa della nostra netta sensazione di diversità dagli altri abitanti della Terra, preferiamo sottolineare le differenze, e non le somiglianze, che percepiamo fra noi e i nostri parenti più stretti, ma in ultima analisi dobbiamo ammettere che, a parte quelle anatomiche, molte di queste differenze sono semplicemente quantitative, e talora, forse, non esistono nemmeno.

Nella mia esposizione dello sviluppo umano mi sono concentrato sui comportamenti contraddittori che si originano almeno in parte dalla disordinata struttura del nostro cervello, il prodotto di un lunghissimo processo evolutivo di accrescimento e riorganizzazione. L’ho fatto perché è importante capire che il nostro passato evolutivo è sempre con noi, anche se alcuni dei nostri attributi mentali non hanno precedenti. Dopotutto, non siamo rimasti come eravamo nel momento in cui siamo stati plasmati con l’argilla. Tuttavia è egualmente importante renderci conto che il nostro comportamento non è prigioniero dei nostri geni, come vorrebbero farci credere gli psicologi evoluzionisti. Anche se giorno dopo giorno è sempre più evidente che, in quanto individui, la nostra personalità è influenzata, spesso anche pesantemente, dal nostro patrimonio genetico, le nostre capacità umane emergenti forniscono a ciascuno di noi una gamma di scelte comportamentali senza paragoni, che costituisce il fondamento della nostra libera volontà. E noi compiamo la maggior parte di queste scelte per ragioni economiche o sociali del tutto estranee alla diffusione dei nostri geni. Ciò detto, resta vero che non vi è nulla di essenzialmente unico nel fatto che i nostri comportamenti non siano stereotipati. Alcuni leoni sono codardi, altri coraggiosi; alcuni cani sono intelligenti (per essere cani), altri no; alcuni scimpanzé sono più simpatici di altri. Non c’è dubbio che molti altri animali possiedano, sotto qualche forma, una coscienza individuale, come sa benissimo chiunque abbia un cane. Al contrario, l’esempio dei sonnambuli dimostra che comportamenti umani molto complessi sono possibili anche quando la coscienza non è operante.

Quando osserviamo attentamente i fattori cognitivi che ci caratterizzano, spesso vi troviamo un parallelo in natura, particolarmente fra i primati con i quali abbiamo stretto legami di parentela. Anch’essi hanno capacità revisionali, valutano le proprie reazioni, sono capaci di perpetrare inganni, sebbene in modo rudimentale, e sono in gradi di provare sentimenti quali la gioia, l’affetto, la paura o l’irritazione. Nel più ampio contesto di tutto ciò che entra a far parte della nostra esperienza quotidiana come individui, le differenze fra noi e le antropomorfe sono realmente limitate, almeno quantitativamente. Il nostro cervello e i processi che è in grado di compiere non sono del tutto diversi da quelli delle antropomorfe. Ciò che è accaduto nel corso dell’evoluzione è che abbiamo acquisito nuove capacità, non in sostituzione delle vecchie ma in aggiunta. Ma allora, che cosa c’è esattamente dietro la nostra acquisizione della piena coscienza umana?

La risposta, paradossalmente, sta proprio nelle difficoltà che incontriamo nel definire la coscienza. In teoria potremmo scoprire che cosa c’è di unico in noi sia confrontandoci con le antropomorfe sia cercando nella documentazione fossile e archeologica le tracce dei cambiamenti che riflettono il raggiungimento della nostra modernità comportamentale. Ma in nessun caso è un compito semplice, per una ragione significativa: entrambe le fonti sono mute. Cominciamo con le antropomorfe. La ragione per la quale non possiamo conoscere i confini della loro coscienza è molto semplice: le antropomorfe non parlano. Non possono spiegarci quali sentimenti provino, o che cosa passi loro per la mente, perché non hanno il linguaggio articolato. E questo, come abbiamo visto, non consiste nella semplice emissione consecutiva di suoni, o nella mera comunicazione. È la complessa operazione di stabilire associazioni fra stimoli ricevuti dalle aree sensoriali del cervello e di tradurle in segnali in uscita dai centri che governano la produzione dei suoni nel tratto sopralaringeo. Ciò significa stabilire categorie e denominazioni per oggetti e sensazioni del mondo esterno e dell’universo interiore, compiendo associazioni ed esprimendo risultati secondo un insieme di regole del tutto arbitrario. La parola chiave in questo caso è associazioni, e sebbene tutti gli esseri senzienti abbiano una certa capacità di compierle fra differenti tipi di input cerebrali, è evidente che il linguaggio articolato non dipende solo da queste, ma permette anche il compimento di certi tipi di associazioni. Il linguaggio articolato, possiamo affermare, è più o meno sinonimo di pensiero simbolico.

Ciò non significa sostenere che la comprensione sia del tutto preclusa in assenza di linguaggio e di pensiero. L’intuizione non verbale può dirci molto sul mondo, e mentre non sarebbe esatto considerarla come linguaggio articolato inespresso, possiamo considerarla un suo precursore, o perlomeno una sua precondizione. Ma la pura intuizione ha limiti molto visibili. Essa è individuale e indirettamente esperienziale, mentre il linguaggio è condiviso e simbolico. Wolfgang Köhler, che diede inizio agli studi sull’uso di strumenti fra gli scimpanzé, mise a punto un esperimento che evidenziava con chiarezza le limitazioni imposte dall’assenza di linguaggio, pur rivelando che il problema era stato compreso. Lo studioso tedesco insegnò a una coppia di scimpanzé a ottenere una ricompensa in cibo tirando simultaneamente due corde pendenti a poco meno di dodici metri di distanza l’una dall’altra, cioè a una distanza tale da non permettere che uno degli animali potesse compiere l’operazione da solo, mentre l’azione concertata di due individui avrebbe raggiunto lo scopo. Quando entrambi ebbero imparato bene, uno dei due venne allontanato e sostituito da un altro a cui la tecnica non era stata insegnata. Lo scimpanzé che aveva esperienza soffrì momenti di estrema frustrazione nel vedere che l’altro non riusciva a portare a termine il compito: aveva una perfetta comprensione intuitiva del problema, ma non poteva fare tutto da sé e non era in grado di spiegare all’altro come ottenere il cibo. Ovviamente, pur sapendo che cosa doveva fare, non sarebbe giunto alla soluzione del problema con il proprio ragionamento, ed è estremamente improbabile che avrebbe potuto farlo in assenza delle capacità che rendono possibile il linguaggio. La capacità di arrivare alla soluzione e quella di comunicarla a un altro individuo, infatti, sono generate sostanzialmente dallo stesso meccanismo.

È difficile specificare quali siano esattamente le correlazioni cognitive del linguaggio, in parte a causa del problema di comunicare con creature che non lo possiedono. Ma è certo (quanto può esserlo un’inferenza) che il linguaggio e le capacità mentali a esso associate hanno strettamente a che vedere con la capacità di pensare, che è il fondamento del successo della nostra specie. Il linguaggio, come il pensiero, comporta la formazione e l’elaborazione di simboli nella mente, e la nostra capacità di ragionamento simbolico è praticamente inconcepibile in sua assenza. Anche l’immaginazione fa parte dello stesso processo: solo dopo aver creato simboli mentali possiamo combinarli in nuovi modi e porci nuovi interrogativi. Il linguaggio è dunque molto più del semplice mezzo con cui spieghiamo i nostri pensieri a noi stessi e agli altri: è fondamentale per lo stesso processo di pensiero. Inoltre, queste vantate unicità umane, come per esempio la consapevolezza della morte – da cui deriva il senso religioso e che dà origine a tante nostre manifestazioni – sono probabilmente poco più di un’estensione della stessa capacità simbolica. Per quanto la possiamo temere o possiamo esserne ossessionati, la nostra morte non può essere parte della nostra esperienza individuale. Rimane un’astrazione per ciascuno di noi, indipendentemente da quante morti simboliche altrui possiamo vedere ogni sera in televisione o al cinema. La stessa essenziale capacità è sottesa anche all’“occhio della mente” che permette al cervello di oggettivare i propri processi, e a un altro strano alter – ego dell’occhio della mente, la nostra capacità di auto- inganno: entrambi dipendono in modo analogo dall’abilità di generare e ricombinare simboli mentali. Ma non è tutto: praticamente qualsiasi componente delle nostre capacità di raziocinio possiate indicare – dal senso dell’umorismo al concepimento di scenari apocalittici – si basa sulle stesse capacità mentali che ci permettono la produzione del linguaggio.

La documentazione fossile dimostra piuttosto chiaramente che i nostri antichi precursori erano non – linguistici. Come abbiamo visto, non possiamo arguire l’esistenza della capacità di linguaggio direttamente dalla morfologia dei calchi endocranici; d’altro canto, le strutture del tratto sopralaringeo che rendono possibile il linguaggio articolato determinano la curvatura della base del cranio. I primi artefici di strumenti litici possedevano certamente una chiara visione delle proprietà meccaniche dei diversi tipi di roccia ed erano in grado di prevedere le proprie necessità future, ma questa conoscenza intuitiva venne raggiunta in assenza delle strutture periferiche che rendono possibile il linguaggio articolato. Anche certe innovazioni successive, come il controllo del fuoco e l’edificazione dei ripari, sembrano essere state raggiunte solo attraverso l’affinamento della capacità intuitiva. Homo heidelbergensis è il primo ominide che, a quanto ci consta, aveva la base del cranio arrotondata sulla quale si inseriva la muscolatura di un tratto sopralaringeo di tipo moderno. Sapeva fabbricare strumenti efficienti, conosceva l’uso del fuoco, costruiva ripari e aveva un cervello piuttosto grande, ma la documentazione archeologica, dalla quale è stato possibile arguire i suoi comportamenti, non contiene traccia di attività simboliche. Ovviamente essa è selettiva, ma il contrasto con le popolazioni del Paleolitico superiore, che vivevano circondate di simboli, non potrebbe essere più stridente. Quasi certamente, dunque, la discesa della laringe e la riorganizzazione delle strutture sopralaringee necessarie per l’articolazione delle parole avvennero in un più generale contesto respiratorio. Da ciò consegue che il tratto sopralaringeo di morfologia moderna è un ex–attamento per il linguaggio: una condizione preesistente che rese possibile questa notevole innovazione una volta acquisiti i necessari collegamenti cerebrali.

È solo con l’arrivo dei Cro–Magnon in Europa (unitamente a stimolanti indizi ancora precedenti di modernità comportamentale in altre parti del mondo e, ciò che forse è ancora più significativo, in Africa) che la documentazione archeologica annuncia inequivocabilmente la comparsa di una popolazione dotata di una sensibilità di tipo moderno. E certamente non è una coincidenza che solo con i Cro–Magnon e i loro simili gli archeologi comincino a trovare affidabili testimonianze di strategie economiche paragonabili a quelle delle popolazioni di cacciatori – raccoglitori attuali, che riflettono la capacità squisitamente umana di interpretare e comprendere l’ambiente esterno. Persino i Neandertaliani, per quanto complessi e ammirevoli siano stati, erano probabilmente limitati a un livello di comprensione del mondo puramente intuitivo. Erano esperti artefici di strumenti litici ed erano in grado di imparare per imitazione, sebbene sia probabile che individualmente mostrassero scarsa originalità e modesta inventiva. Erano evidentemente capaci di empatia, e può darsi che nell’inumare il defunto deposto sul letto di fiori di Shanidar avessero pianto; inoltre siamo quasi certi che avessero modi molto complessi per comunicare. È fortemente probabile che tutto ciò fosse stato raggiunto in assenza di ragionamento simbolico, e forse addirittura senza la capacità latente di produrre il linguaggio articolato, come la presunta anatomia curiosamente primitiva della base del cranio di almeno alcuni di essi indicherebbe. I Neandertaliani non vissero, come viviamo noi, in un mondo in cui erano gli artefici, un mondo ricostruito nella loro mente, ma vissero invece in quello che aveva fornito loro la natura.

La documentazione archeologica che ci hanno lasciato è abbastanza esauriente da permetterci di affermare con certezza che non erano nostri uguali, ma dipingerli come una versione inferiore di noi stessi sarebbe gravemente semplicistico. Data la nostra incapacità di immaginare stati di coscienza diversi dai nostri, potremmo essere tentati di paragonare l’intelligenza di un Neandertaliano a quella della persona più stupida, priva di immaginazione, di senso dell’umorismo e della capacità di esprimersi che potremmo concepire ai nostri giorni. Ma questo sarebbe profondamente sbagliato. I Neandertaliani, nonostante tutte le loro somiglianze anatomiche e comportamentali rispetto a noi, erano creature diverse, e dovrebbero essere interpretati nei loro stessi termini. Quasi certamente mancavano della cruciale capacità di pensiero simbolico della quale il linguaggio è la manifestazione emblematica e di cui persino il più limitato intelletto attuale è capace. L’atteggiamento più proficuo, quindi, è quello di considerare la loro documentazione comportamentale non come un riflesso inferiore del nostro modo di fare le cose, ma come misure delle straordinarie conquiste che possono essere conseguite unicamente attraverso i meccanismi dell’intuizione.

Come e quando acquisimmo le nostre singolari capacità linguistico – simboliche? Come ho fatto osservare, nonostante la nostra ampia conoscenza della struttura del cervello umano, del modo in cui le informazioni vi fluiscono e di come certe parti funzionino in particolari comportamenti, i meccanismi attraverso i quali si genera la nostra complessa coscienza simbolica rimangono completamente oscuri. È chiaro, tuttavia, che dopo un paio di milioni di anni di irregolare espansione cerebrale e di altre acquisizioni avvenute nella linea umana, dovevano essere presenti gli ex–attamenti necessari per permettere il completamento dell’intero edificio attraverso una mutazione che in termini genetici era presumibilmente di minore entità. Nello stesso modo in cui la chiave di volta di un arco è solo una piccola parte dell’intera struttura, ma è vitale per la sua integrità, un cambiamento della struttura neurale relativamente modesto deve avere avuto questo notevole effetto convergente nel nostro cervello. E questa innovazione neurale deve essere stata acquisita nell’ambito di un’esigua popolazione nostra progenitrice quando tutte le strutture periferiche essenziali – l’apparato vocale, per esempio – erano già disponibili per permetterne l’espressione.

Tuttavia nessuno ha ancora capito esattamente perché l’espansione e l’aumento della complessità cerebrale siano stati così costantemente presenti, seppure in modo episodico, nella lunga storia evolutiva dell’uomo, anzi, in quella dei primati in generale. E non sappiamo nemmeno perché, al termine di questo processo, il cervello umano sia diventato così meravigliosamente ex–attato per il linguaggio e il ragionamento simbolico. Forse i vantaggi conferiti dai progressi compiuti nel ragionamento intuitivo furono di per sé sufficienti a portare avanti questo processo, anche se certamente deve esservi stato qualcosa di speciale negli antichi ominidi perché questo ex–attamento diventasse così fortemente caratteristico del nostro gruppo. È comunque innegabile che un ex–attamento in sé non è nulla di speciale. Per esempio, è stato recentemente dimostrato che le capacità di parlare e di scrivere sono localizzate ciascuna in uno degli emisferi cerebrali. La capacità di scrivere, quindi, non è una semplice conseguenza passiva della capacità mentale di formare parole parlate, ma dipende da circuiti neurali distinti. La capacità latente per entrambi i comportamenti fu certamente presente nel cervello dei primi uomini di tipo moderno, ma quella di scrivere non venne scoperta fino a circa 50 kyr dopo la comparsa del linguaggio articolato, e molti gruppi umani non la conoscono ancora oggi.

Sfortunatamente, sia la documentazione fossile sia quella archeologica sono incomplete per il periodo critico della nostra evoluzione durante il quale emerse la capacità umana simile a quella attuale. Vi sono convincenti testimonianze del fatto che l’uomo anatomicamente moderno sia comparso in Africa, ma per il momento sembra che questo sia stato un evento molto antico rispetto alle prime indicazioni di complessi comportamenti simbolici paragonabili ai nostri. Come ho sottolineato, non vi è ragione di supporre che la comparsa di nuove tecnologie e di nuovi comportamenti debba necessariamente procedere di pari passo con l’arrivo di nuove specie, ma è comunque importante sapere come l'Homo neanderthalensis riuscì a coesistere nel Levante per oltre 60 kyr con gli artefici dell’industria musteriana che nell’anatomia ossea erano Homo sapiens. Questo lungo periodo di coesistenza e di affinità culturale significa forse che i cervelli di questi ominidi erano di fatto identici? Se sì, i collegamenti interni del cervello di morfologia moderna devono in qualche modo essersi formati parecchi millenni dopo l’acquisizione della nostra struttura scheletrica attuale, come, in realtà, è stato proposto. Ritengo che non sia facile crederlo. Se fosse stato così, infatti, gli uomini comportamentalmente moderni avrebbero acquisito la base anatomica delle loro capacità simboliche piuttosto tardi, e ciò non avrebbe dato all’uomo caratterizzato da questa nuova morfologia fisica molto tempo per diffondersi dal suo presunto luogo di origine africano e sostituire in tutto il mondo le popolazioni che avevano lo stesso aspetto scheletrico ma un cervello più arcaico (anche se all’aspetto poteva apparire identico). Per di più, nella nostra documentazione, pur nella sua limitatezza, non compare nulla che possa avvalorare questo scenario.

L’unica alternativa evidente è che l’anatomia ossea di tipo moderno sia giunta insieme con il cervello di tipo moderno ex–attato, e che questo sorprendente nuovo organo sia rimasto inattivo, così come effettivamente fu, fino a quando uno stimolo culturale (quasi certamente l’invenzione del linguaggio), lo mise all’opera nell’ambito di una popolazione locale. È addirittura possibile che la capacità umana si sia originata perlomeno in parte in un evento epigenetico, legato allo sviluppo, piuttosto che in un cambiamento di grande entità avvenuto nella struttura cerebrale geneticamente programmata. Lo sviluppo cerebrale dopo la nascita comprende la formazione di specifiche vie da una complessa massa di interconnessioni neurali, prevalentemente attraverso processi di eliminazione selettiva. Durante l’infanzia è facile imparare le lingue, anche parecchie contemporaneamente, ma dopo i dieci anni le vie neurali specifiche si sono formate e l’acquisizione di nuove lingue è molto più difficile. Ne consegue che le capacità linguistiche coinvolgono la strutturazione del cervello nel corso del suo sviluppo. Non è dunque troppo difficile immaginare, almeno sommariamente, come una prima forma di linguaggio, relativamente rudimentale, possa essere stata acquisita – chissà, inizialmente, addirittura fra i bambini – attraverso mezzi comportamentali, affinandosi e diversificandosi nel corso dei millenni fino a produrre la stupefacente varietà di lingue che oggi vengono parlate in tutto il mondo. Certamente la comparsa del linguaggio così come ci è universalmente familiare oggi non può essere stata un evento rapido. Comunque sia, è molto più plausibile immaginare che esso, con le capacità mentali e le complessità comportamentali associate, si sia diffuso (e diversificato) dal suo luogo di origine attraverso il contatto e la diffusione fra popolazioni umane bene affermate che già possedevano la capacità potenziale di acquisirlo, e non fra quelle numerose popolazioni di individui i quali, pur essendo fisicamente uguali a noi, mancavano di quella capacità, e che quindi furono eliminate in tutto il mondo in un periodo di tempo relativamente breve.

È davvero frustrante arrivare alla fine della nostra storia e dover ammettere di sapere ben poco sul come, quando, dove o perché acquisimmo la nostra straordinaria coscienza. Sebbene tendiamo ad attribuire un’importanza eccessiva alle nostra capacità cognitive, di cui quelle linguistiche sono la sintesi, dobbiamo ammettere che esse fanno di noi qualcosa di diverso da tutti i milioni di altre creature del pianeta. Ma la latente capacità di formare ed elaborare simboli mentali non è chiaramente l’ineluttabile risultato di un processo durato eoni, anche se i fondamenti vennero stabiliti durante il lungo passato evolutivo umano. Piuttosto, la sua acquisizione fu un evento emergente probabilmente di scarsa importanza in termini di innovazione fisica o genetica, relativamente improvviso, che si presentò molto tardi nella nostra storia evolutiva. Questo evento capitale, purtroppo, non ha lasciato tracce visibili sulle ossa e sui denti che costituiscono la nostra documentazione fossile, mentre quella archeologica come abbiamo visto, è incompleta, altamente selettiva e rispecchia molto debolmente il comportamento dei nostri progenitori. Ma sebbene la probabilità iniziale che tutte le componenti necessarie per la coscienza umana di tipo moderno si trovassero riunite, così come in realtà accadde, fosse indubbiamente minima in termini statistici, altrettanto lo era la probabilità di comparsa di ciascuno dei milioni di specifici risultati del processo evolutivo. Visto sotto questa luce, l’evento in sé è molto meno notevole del suo risultato finale.

Che cosa, dunque, dobbiamo pensare di noi stessi? Molto più di tre miliardi di anni fa quando le prime forme di vita comparvero sulla Terra, noi, unici fra i milioni di discendenti del nostro progenitore comune, acquisimmo in qualche modo non solo un cervello voluminoso – anche i Neandertaliani lo avevano – ma una mente del tutto sviluppata. Questa mente è complessa, non nel senso in cui può esserlo un meccanismo, con numerosi componenti che lavorano insieme senza difficoltà nel perseguimento di uno scopo comune, ma nel senso che è un prodotto di antiche componenti riflessive ed emozioni, ricoperte di un sottile strato di raziocinio. La mente umana, quindi, non è un’entità del tutto razionale, ma ancora oggi è condizionata dalla storia evolutiva del cervello da quale emerse. Per quanto lungo sia il balzo che abbiamo compiuto passando dal resto del mondo vivente all’acquisizione del pensiero simbolico, non ci siamo del tutto emancipati dalle strutture cerebrali che governarono il comportamento di alcuni dei nostri progenitori più remoti. Ed è precisamente quest’interazione del vecchio con il nuovo che ci rende non solo unici in parecchi modi degni della più grande ammirazione, ma anche pericolosi come nessun’altra specie riesce a esserlo, sia per noi stessi che per il resto del mondo vivente.

Poiché la documentazione fossile e quella archeologica dimostrano che il passo finale verso l’ominazione fu più di una semplice estrapolazione da tendenze precedenti, non è compito del paleontologo tentare una spiegazione delle complessità del comportamento dell’uomo attuale. Egli può solo fare osservare l’interazione del vecchio e del nuovo che avviene all’interno dei nostri cervelli elaboratori di simboli e che sostiene la nostra coscienza, di cui siamo tanto orgogliosi. Ma non può spingersi oltre. L’interpretazione critica della nostra condizione attuale è di pertinenza di psicologi, neurobiologi, filosofi, cognitivi, romanzieri, drammaturghi, eccetera. Come dovremmo condurre la nostra vita (e come veniamo indirizzati a viverla) è di pertinenza dei filosofi morali e, che Dio ci assista, dei legislatori. In pratica, il fato dell’umanità è nelle mani dei politici e di miliardi di persone comuni. Ciononostante, al paleontologo è concesso di fare osservare che la natura, mentre ha posto nelle mani di Homo sapiens una capacità unica e potenzialmente distruttiva, non è tenuta ad assicurarsi che egli la usi saggiamente. Tuttavia, poiché è innegabile che siamo il prodotto di una lunga serie di cambiamenti, diventa inevitabile domandarsi se se ne profilino altri che possano davvero aiutarci a meritare la nostra denominazione zoologica di “ Uomo saggio”. In sintesi, che cosa possiamo aspettarci dal nostro futuro evolutivo? Questo sarà l’argomento delle pagine conclusive.

La gente si è sempre interessata non solo della propria provenienza, ma di dove sta andando. Fin dal secolo scorso, con la comparsa del concetto di evoluzione, la nostra origine e il nostro destino sono apparsi indissolubilmente legati. Considerando che l’evoluzione viene vista dai più come un processo graduale e progressivo, non è difficile capire la nostra prontezza nello stabilire questa connessione: e la rapidità attuale dei cambiamenti culturali (che, ovviamente, si trasmettono in modo del tutto diverso dai cambiamenti evolutivi) ha superficialmente sostenuto questo punto di vista. Inoltre è significativo che la futurologia, con la sua popolarità dilagante, si basi sull’individuazione delle tendenze e sull’estrapolazione. Non vi è mai stata difficoltà ad ammettere che il passato è la chiave per conoscere il futuro, mentre gli autentici utopisti hanno sempre faticato per fare accettare all’umanità i concetti realmente nuovi.

Non c’è dunque da stupirsi che l’iconografia popolare della nostra specie ci dipinga come esseri provvisti di una testa grande per ospitare un cervello altrettanto grande e supremamente razionale. Sempre secondo questa iconografia, la nostra grande testa si trova in equilibrio precario su un corpo glaciale e dotato di arti esili, mentre il suo proprietario si bea nei miraggi di infiniti miracoli tecnologici. Come estrapolazione è abbastanza ragionevole, perché innegabile che nella sua lunga evoluzione il cervello umano sia aumentato di volume, che negli ultimi tempi il nostro corpo si sia fatto un po’ meno robusto, che la complessità della nostra tecnologia si sia moltiplicata, e che questa moltiplicazione, negli ultimi decenni, sia avvenuta con straordinaria rapidità. Ma possiamo realmente concludere che le nostre brillanti prestazioni del passato sono una garanzia di progresso futuro? Ne dubito profondamente.

Tanto per cominciare, è evidente che il cambiamento verificatosi durante il nostro passato è stato, nel migliore dei casi, sporadico. Anzi, in tutta la prima metà della nostra storia evolutiva non vi furono mutamenti con rilevanti conseguenze funzionali. Nemmeno i primi artefici di strumenti litici, a quanto sembra, apparivano molto diversi dai loro predecessori, e una volta che quei mutamenti si furono presentati, sarebbe trascorso un altro milione di anni prima che venisse compiuto un altro significativo progresso tecnologico. Ma questo non è l’unico esempio. Sia anatomicamente sia tecnologicamente la storia della nostra linea di discendenza è stata una storia di innovazione episodica, e non di graduale avvicinamento alla perfezione.

Per quanto ciò possa apparire deludente, si accorda piuttosto bene con il nostro emergente apprezzamento delle complessità del processo evolutivo. Se l’evoluzione comporta la diversificazione speciazione invece della costante accumulazione di piccoli cambiamenti, e se la storia delle singole specie è in gran parte routinaria, allora non dovremmo sorprenderci di scoprire che nella nostra linea di discendenza l’innovazione significativa è stata un fenomeno intermittente. Conseguentemente, sia che vogliamo affidarci alla teoria evoluzionistica oppure ai resti fossili del nostro passato come guida alla comprensione di quello che potrebbe essere il futuro biologico della nostra specie, l’interrogativo che dobbiamo porci è lo stesso: “Esistono le condizioni per nuovi sviluppi evolutivi a partire da Homo sapiens?”.

Abbiamo visto che sono le piccole popolazioni isolate, o quasi isolate, a essere sia il vero motore dell’innovazione evolutiva sia il bersaglio della speciazione. Queste antiche popolazioni umane erano sparse in gran parte del globo durante le crisi ecologiche e geografiche verificatesi nel corso delle glaciazioni, ed è in questo testo che comparve Homo sapiens ma oggi la situazione è radicalmente diversa. La popolazione umana mondiale è già parecchio al disopra dei cinque miliardi di individui, e sta crescendo vertiginosamente. I mezzi di trasporto annullano le distanze e le barriere geografiche. La gente non ha mai conosciuto una mobilità pari alla nostra. L’isolamento delle popolazioni umane è ormai una cosa del passato, e mai come ora per le persone provenienti da aree geografiche disparate è stato così necessario mescolarsi. Il risultato certo è che oggi non esistono più le condizioni per una vera e propria innovazione evolutiva all’interno della nostra specie. Noi formiamo un’unica numerosissima popolazione che si sposta sulla Terra, e mai nella storia di una specie le condizioni sono state meno propizie per l’affermazione di novità evolutive. E a meno che intervenga qualche calamità, non è probabile che ciò possa avvenire.

Ma questa calamità potrebbe non essere molto lontana. Qualche virus terrificante quanto l’HIV ma più resistente e più facilmente trasmissibile potrebbe essere in agguato. La tecnologia potrà probabilmente fare poco per mitigare le conseguenze globali di un impatto meteoritico simile a quello associato alla scomparsa dei dinosauri. Secondo la stima più recente, la probabilità di un simile evento è quasi zero per i prossimi centomila anni, ma a un certo punto esso si verificherà, inevitabilmente. Nell’immediato, una o più delle innumerevoli conseguenze dell’utilizzazione sempre più frequente delle alte tecnologie potrebbe sfuggirci di mano. Ugualmente preoccupante è la probabilità che l’esasperato sfruttamento dell’ecosistema mondiale conduca al suo collasso e alla nostra rovina. Le eventualità sono infinite, e qualsiasi fattore possa operare per ridurre e frammentare le popolazioni umane ripristinerebbe la possibilità di qualche mutamento evolutivo.

Ma, calamità a parte, quale importanza potrebbe avere uno qualsiasi di questi eventi? Be’, sotto certi aspetti forse qualcuno potrebbe averne, almeno nella misura in cui i racconti di fantascienza riflettono certi desideri del nostro inconscio collettivo. È ovvio, per esempio, che i creatori del personaggio di Spock della serie Star Trek hanno fatto centro inventandosi un essere così totalmente razionale. Non si può negare infatti che vi sia qualcosa di curiosamente seducente nell’idea di vivere liberi da tutto il bagaglio emotivo di cui ci carica la condizione umana. Dopotutto, il comportamento irrazionale , sospinto da oscure emozioni, sta alla base di molte delle infinite sofferenze che gli uomini hanno inflitto a se stessi e agli altri nel corso della storia documentata. Ma ovviamente c’è un rovescio della medaglia anche in questo, perché nessuno di noi vorrebbe essere un automa, e in una vita priva di emozioni non vi sarebbe posto per sentimenti come l’esultanza, l’amore, la gioia.

Le ipotesi prospettate dalla fantascienza per il nostro futuro non si fermano agli Spock. Una possibilità di cambiamento sempre più discussa è quella offerta dai viaggi nello spazio. Che cosa accadrebbe se piccole colonie umane dovessero stabilirsi su lontani corpi celesti? La popolazione sarebbe poco numerosa, quindi esisterebbero le condizioni favorevoli a un cambiamento evolutivo. Ma anche se a un certo punto i viaggi nello spazio di questo tipo diventassero una realtà, per il momento tutt’altro che certa, una simile colonia dovrebbe essere mantenuta in vita mediante collegamenti con la Terra. L’isolamento non sarebbe completo, e l’evoluzione di una nuova specie (che in ogni caso si verificherebbe abbastanza lontano da non avere importanza per il resto dell’umanità) sarebbe estremamente improbabile. E ammesso che per qualche miracolo una colonia stabilita nello spazio fosse in grado di sopravvivere in condizioni di isolamento qualora il cordone ombelicale con la Terra venisse interrotto, ciascuno sviluppo successivo sarebbe biologicamente irrilevante per la continuazione della vita umana sul nostro pianeta. Lo stesso vale per l’ingegneria genetica, un altro tema caro alla fantascienza come occasione per avere in futuro cambiamenti evolutivi. Nuovi genotipi artificialmente ottenuti potrebbero affermarsi soltanto isolando gli individui che li possiedono dal resto della popolazione. E nell’improbabile eventualità che fosse mai consentito di compiere simili manipolazioni su individui della nostra specie, le innovazioni ottenute in questo modo rimarrebbero necessariamente limitate a piccole popolazioni “di laboratorio”, quindi non riguarderebbero Homo sapiens nel suo insieme.

In sintesi, abbiamo una prospettiva buona e una cattiva. Quella cattiva è che se le cose continueranno ad andare più o meno come vanno attualmente, non possiamo aspettarci che né l’evoluzione né la tecnologia giungano in groppa a un destriero bianco, come è stato in passato, per salvare la specie umana dalle sue follie dotandola di un’intelligenza senza limiti o addirittura di buonsenso collettivo. Quella buona è che, se non interverrà qualche disastro, quasi certamente potremo continuare a essere in eterno creature contraddittorie, poco comprensibili e fortemente interessanti, come siamo sempre stati. A meno che non accada l’impensabile, non ci libereremo del nostro vecchio io familiare ma potenzialmente pericoloso. E dunque avremo urgente necessità di imparare a convivere con questo fatto nel migliore dei modi. La perfettibilità, come sempre, resta un’illusione.

 

Ian Tattersal, Il cammino dell’uomo, Garzanti, Milano 1998, tr. it. di Laura Montixi Comoglio, pp. 200-213.