Come i filosofi parlarono di Dio

Esempio di teologia apofatica e insieme di recupero della riflessione teologica positiva greca, Clemente Alessandrino mette in luce in questo brano la difficoltà nel poter parlare di Dio: «Come potrebbe infatti essere definito Colui che non è né genere né alterità né specie né individuo né numero, e nemmeno accidente né soggetto, cui qualcosa possa capitare come accidente? Né lo si potrebbe dire rettamente un tutto: il tutto è dell’ordine della grandezza, ed Egli è il Padre dell’universo. Né, infine, si può parlare di parti in Lui, poiché l’Uno è indivisibile; per questo è anche infinito, non nel senso dell'impossibilità di percorrerlo, ma dell'assenza di distanze e di dimensioni, e pertanto è senza figura e innominabile». Eppure, le deboli “definizioni” della filosofia che designano impropriamente Dio come l'Uno o il Bene o l'Intelletto o l'Essere in sé o Padre o Dio o Creatore o Signore, non indicano certo il nome Dio, ma nondimeno sono appellativi utili, perché il pensiero possa poggiarsi su di essi: ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono indicativi della potenza dell'onnipotente.

78. «Scoprire il padre e creatore di questo universo è difficile impresa, se poi lo si scopre, impossibile divulgarlo a tutti», «poiché non si può affatto spiegare come le altre conoscenze»: sono parole di Platone, amico della verità [Timeo, 28c]. Egli doveva bene aver saputo per tradizione che il sapientissimo Mosè, quando saliva al monte (attraverso la sacra contemplazione [egli saliva] al vertice dell'intelligibile), rigorosamente vietava che tutto il popolo salisse con lui [cfr. Es 19,12 e 20-24]. E quando la Scrittura dice: «Mosè entrò nella tenebra dove era Dio» [Es 20,21], vuol significare, a chi sa intendere, che Dio è invisibile e ineffabile e che la “tenebra” (tale è in realtà l’ignoranza dei più) si pone di fronte ai raggi della verità. A sua volta Orfeo il teologo trae utile spunto di qui quando dice: «Egli è uno, perfetto in sé; dall'uno tutti gli esseri come figli derivano» (o «sono per natura»: si trova scritto anche così); e aggiunge: « ... e nessuno dei mortali lo vede; ma Egli tutti vede». Poi conclude, più chiaramente: «Ma lui non lo vedo: solida nube gli si è posta attorno. Tutti i mortali hanno mortali pupille negli occhi, piccole, poiché insieme vi sono cresciute carni e ossa» [Orfeo, fr. 246 K].

79. A ciò che è detto qui apporterà poi la sua testimonianza l'apostolo, dove dice: «Conosco un uomo in Cristo, rapito fino al terzo cielo» e di qui «nel paradiso; e udì parole ineffabili, che non è lecito ad uomo proferire» [2Cor 12, 2 e 4]. Così egli allude alla ineffabilità di Dio. E non aggiunge le parole «non è lecito» in rapporto a una legge o per timore di qualche precetto, ma per rivelare che la divinità è inesprimibile per [la sua stessa santa potenza], se è vero che comincia a palarne solo da oltre il terzo cielo, come è lecito a quegli [angeli] che qui si trovano iniziare al mistero le anime elette. Io so infatti che anche Platone pensò a molti cieli (la penna mi trascura per ora gli esempi della filosofia “barbara”, e sarebbero tanti!, perché, fedele alle promesse precedenti, sa attendere il momento giusto) [Allude al piano dell'opera: IV, 1, 3.2 (Munck, 88-91)]. In ogni caso nel Timeo, incerto se dovere ammettere più mondi o questo unico, usa indifferentemente i nomi, parlando di “mondo” e di “cielo” come di sinonimi. Ecco le sue parole: «Abbiamo detto bene “un solo cielo! o sarebbe stato meglio dire “molti”, anzi “infiniti cieli”? Uno, se è vero che dovrà essere foggiato secondo il modello» [Timeo 31a (e Theod. IV 49): cfr. Philon. De opif. M. 61, 171-172].

80. Anche nella Lettera ai Corinzi di Clemente Romano è scritto: «oceano invalicabile e i mondi che sono oltre quello» [I Ep ai Corinzi 20, 8]. Ed ecco corrispondente l'esclamazione del grande apostolo: «o profondità di ricchezza, di sapienza, di “gnosi” divina!» [Rm 11,33]. E può darsi che proprio a questo alludesse il profeta quando prescriveva di fare «pani azzimi, cotti sotto la cenere» [Gen 18,6 e Es 12,39]: egli significava così che il sacro discorso veramente “mistico” intorno all'Ingenerato e alle sue potestà deve restare nascosto. Lo conferma l'apostolo nella Lettera ai Corinzi, làdove dice apertamente: «Noi parliamo di sapienza con i perfetti, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei principi di questo mondo, destinati a perire; noi parliamo della sapienza di Dio che sta nascosta nel mistero»[1Cor 2,6-7]. E altrove dice ancora: «...per la piena conoscenza del mistero di Dio in Cristo, nel quale tutti i tesori della sapienza e della “ gnosi” stanno nascosti» [Col 2,2-3]. A queste parole appone il sigillo lo stesso nostro Salvatore, dicendo: «A voi è stato dato di conoscere il mistero del Regno dei cieli» [Mt 13,11], Dice ancora il Vangelo che il nostro Salvatore esponeva agli apostoli la sua parola in “mistero” [Sal 77 [78], 2]: dice infatti la profezia su di Lui: «Aprirà la sua bocca in parole e proferirà le cose nascoste dalla fondazione del mondo». Ed ecco che mediante la parola del lievito il Signore manifesta il significato nascosto; dice infatti: «Il Regno dei cieli è simile a lievito. Una donna lo prese e lo nascose sotto tre “sati” di farina, finché il tutto fu lievitato» [Mt 13,33-35]. Qui o vuol dire che l'anima, divisa in tre parti si salva con l'obbedienza, a causa della potenza spirituale nascostavi dalla fede, oppure che la forza del Logos comunicataci, intensa e possente, in modo nascosto e invisibile trascina a sé ogni uomo che la accoglie e la possiede entro di sé e conduce ad unità tutti gli elementi che la compongono.

81. Con somma sapienza pertanto sono state scritte da Solone queste parole intorno a Dio: «Difficilissima cosa è concepire l'occulta misura del sapere, la quale contiene in sé, essa sola, i limiti di tutto» [Solone, fr. 16 D]. Infatti la divinità, dice il poeta di Agrigento, «non è possibile avvicinarla sì da raggiungerla con i nostri occhi o afferrala con le nostre mani, che è il modo per cui larghissima la strada di persuasione scende no all'animo, per gli uomini» [Emped., 31 B 133D.-K.]. E l'apostolo Giovanni: «Dio non lo ha mai visto nessuno: l'Unigenito Dio, quegli che è nel seno del Padre, Egli lo rivelò» [Gv 1,18], Eli che nominò seno di Dio l'invisibile e l'ineffabile. Onde alcuni lo hanno chiamato abisso, perché tiene come avvolte e abbracciate in seno tutte le cose: irraggiungibile e infinito insieme.

Ed è precisamente questa la questione teologica più difficile da trattare: se il principio di ogni cosa è difficile a rintracciarsi, allora il primo e più antico principio sarà sommamente difficile da dimostrare, perché è esso anche per gli altri esseri tutti causa della nascita e dell'esistenza. Come potrebbe infatti essere definito Colui che non è né genere né alterità né specie né individuo né numero, e nemmeno accidente né soggetto, cui qualcosa possa capitare come accidente? Né lo si potrebbe dire rettamente un tutto: il tutto è dell’ordine della grandezza, ed Egli è il Padre dell’universo. Né, infine, si può parlare di parti in Lui, poiché l’Uno è indivisibile; per questo è anche infinito, non nel senso dell'impossibilità di percorrerlo, ma dell'assenza di distanze e di dimensioni, e pertanto è senza figura e innominabile.

82. E se mai vogliamo designarlo, e lo designiamo, impropriamente, o l'Uno o il Bene o l'Intelletto o l'Essere in sé o Padre o Dio o Creatore o Signore, non diciamo [queste definizioni] come proferendo il suo nome, ma in mancanza di meglio applichiamo egli appellativi, perché il pensiero possa basarsi su di essi senza aberrare con il ricorrere ad altri: ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono indicativi della potenza dell'onnipotente. Poiché le cose di cui si parla sono designabili in base alle qualità loro inerenti o alla relazione reciproca; ma niente di ciò può essere assunto a proposito di Dio. E nemmeno con la scienza della dimostrazione Egli può essere colto, perché quella si costituisce sulla base di premesse anteriori e più note, mentre all'Ingenerato nulla preesiste.

Resta quindi che noi pensiamo l'Ignoto solo per grazia divina e per il Logos che da Esso procede, proprio come Luca dice negli Atti degli Apostoli ricordando le parole di Paolo: «o Ateniesi, vedo che in tutto e per tutto voi siete più timorati degli dei [di altri popoli]. Infatti aggirandomi per le strade e osservando i vostri luoghi di culto, ho trovato anche un altare con l'iscrizione: “Al Dio Ignoto”. Ebbene, Colui che venerate senza conoscerlo, Quello io vi annuncio!» [At 17,22-23].

   

da Stromati, Libro V, cap. 12, tr. it. a cura di Giovanni Pini, Edizioni Paoline, Milano 1985, pp. 609-614.