Venticinque anni or sono, il 15 novembre 1980, Papa Giovanni Paolo II si recava a Colonia per celebrare, nel giorno della memoria liturgica a lui dedicata, il grande dottore e patrono degli scienziati, sant'Alberto Magno (1200ca-1280), le cui spoglie riposano in quella città. Il discorso che il Pontefice pronunciò in quell'occasione, nel duomo di Colonia, sarebbe diventato un punto di riferimento per l'epistemologia non solamente del suo pontificato, ma per tutti coloro che intendono riferirsi al Magistero della Chiesa a proposito di scienza. Prima di questo discorso, infatti, l'attenzione dedicata alla scienza, da parte del Magistero, era stata prevalentemente orientata ad evidenziare, da un lato, l'atteggiamento di meraviglia di fronte all'ordine del cosmo che non può non suggerire la presenza e l'azione provvidente di un Creatore (sulla linea dell'insegnamento del Libro della Sapienza: cfr. Sap 13,5), di ammirazione per l'ingegno umano che è stato messo in grado di sondarne le leggi e di servirsene, seguendo la loro natura, per i propri scopi assoggettando la Terra (seguendo così il comando dello stesso Creatore: cfr. Gn 1,28); dall'altro lato, l'attenzione era stata orientata ai problemi etici che si accompagnano all'opera scientifica, soprattutto per quanto riguarda le sue applicazioni tecniche con le loro conseguenze sulla persona umana. Numerosi sarebbero i passi da citare in proposito: da Pio XII (ad es. il Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze , del 30 novembre 1941) al Vaticano II (ad es. Gaudium et spes, 5, 15, 19, 33, 36), a Paolo VI (ad es. Octogesima adveniens, nn. 40-41 ). L'attenzione alla questione più propriamente epistemologica era stata concentrata, per evidenti motivazioni legate alle situazioni storiche e dottrinali, principalmente al rapporto tra fede e ragione, piuttosto che al tema della scienza. Inoltre il Magistero, fino a quel tempo, aveva avuto principalmente il compito di indicare i pericoli e correggere le deviazioni dalle verità di fede e da quelle di ragione strettamente indispensabili per la fede, definendo dogmaticamente, solo quando necessario, quelle indiscutibilmente certe per la fede della Chiesa. Ai nostri giorni, invece, a causa dell'indebolimento del pensiero filosofico, il Magistero della Chiesa sembra talvolta doversi spingere più in là, svolgendo un'azione più ampia e maggiormente propositiva, quasi a supplire, o almeno ad instradare, la ricerca filosofica in una direzione maggiormente costruttiva.
Il discorso di Colonia, come del resto tutto l'insegnamento di Giovanni Paolo II, e ora quello di XVI, si presenta proprio con questa caratteristica di avvio di una sintesi propositiva. Già con Paolo VI si era visto qualcosa di simile, tanto per citare un esempio significativo, su una questione teologica come quella dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso, a proposito del quale egli propose quel modello inclusivo che oggi è alla base di ogni teologia dell'ecumenismo e delle religioni conforme al Magistero (cfr. Ecclesiam suam, nn. 11-113). Con il suo discorso Giovanni Paolo II ha esteso questo atteggiamento del Magistero dalle questioni teologiche anche a quelle più propriamente filosofiche e sociali. La sua “cura pastorale” per i fedeli e, più in generale la sua preoccupazione per l'uomo, si è così saputa tradurre anche in una modalità di elaborazione culturale. Si tratta di un insegnamento di importanza capitale per i credenti e per i pastori di oggi. In questo discorso egli ha indicato, anzitutto, una linea di metodo per un'indagine che è nel contempo filosofica e sociologica, quella stessa indicazione metodologica che è presente già fin dalla Redemptor hominis e che qui viene applicata alla questione della scienza. Questa indicazione consiste, in primo luogo, nel porre l'accento sul nesso causa-effetto che c'è tra i principi teorici sui quali si fonda la concezione della scienza (e più in generale dell'uomo e della società) e le conseguenze pratiche che essa produce nella vita dell'uomo e dei popoli. Là dove si riscontrano, esperienzialmente, elementi di contraddizione e di invivibilità occorre imparare a riconoscere che questi sono l'effetto di una concezione filosofica inadeguata dell'uomo, della convivenza sociale e, nel caso particolare in questione, della scienza e della stessa razionalità umana. In secondo luogo, e come naturale sviluppo di questa prima indicazione di metodo, ne troviamo subito una seconda: quella che conduce al ritrovamento di fondamenti oggettivi come quello della nozione di verità, di natura, di legge naturale, e altri ancora, la negazione dei quali, da parte di concezioni riduttive della razionalità come quelle positivista, scientista, illuminista, nichilista, che conducono al “funzionalismo” della scienza, ha prodotto proprio quegli effetti negativi sull'uomo e quella diminuzione di vivibilità nella società che si sarebbero, invece, voluti evitare. In questo modo, la prospettiva fondante di tipo metafisico (propria della philosophia perennis), che il pensiero odierno ha tanta difficoltà (teoretica ma anche psicologica) a trovare (e tendenzialmente a non rifiutare a priori) si ripropone almeno come un'ipotesi difficilmente eludibile se si vogliono rimuovere gli effetti negativi che scaturiscono da una sua negazione. Si tratta di una sorta di “dimostrazione per assurdo”, che implicitamente suggerisce all'indagine epistemologica e, più in generale filosofica, di mettersi all'opera per ricercare anche una odierna fondazione “positiva” e “costruttiva” di una tale ipotesi metafisica.
Non a caso, vent'anni più tardi, sarà proprio Giovanni Paolo II, durante il Giubileo degli scienziati, ad indicare la necessità della ricerca sui fondamenti (cfr. Discorso di Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo scienziati, 25 Maggio 2000 ). Un suggerimento che si incontra in modo naturale con la linea di tendenza di una certa indagine scientifica sui fondamenti della matematica e sui quei problemi ontologici che oggi si sono prepotentemente affacciati alla porta della scienza con la questione della complessità, del rapporto mente-corpo, della finalità biologico-evolutiva e del progetto che governa l'intero universo, dalla cosmologia all'uomo. Si viene a stabilire, in tal modo, un terzo principio metodologico, questa volta di carattere filosofico generale e non appena interno alla teoria delle scienze, che è quello del legame inscindibile tra etica ed epistemologia . Non è possibile dare una valutazione etica della pratica scientifica senza un'epistemologia nella quale la nozione di verità oggettiva è riconosciuta. Diversamente tutto è convenzionale e funzionale. Ne deriva anche una impossibilità di libertà di ricerca per la scienza funzionalistica, in quanto essa non può che essere asservita al potere.
Un ulteriore elemento metodologico che viene indicato in questo “potente” discorso di Colonia è quello di una razionalità ampia. E qui, il riferimento storico alla figura di sant'Alberto Magno che fu scienziato, filosofo, teologo e che fu maestro del grande san Tommaso d'Aquino, consente a Giovanni Paolo II di riprendere in mano, a titolo di modello esemplificativo, alcuni caratteri della concezione della razionalità e della scienza di quel maestro. Si tratta di un modello epistemologico “non riduzionistico” (come direbbero gli scienziati di oggi), basato su una concezione non univoca di scienza, ma organica e analogica: la nozione di scienza si può attuare secondo modalità (statuti epistemologici) in parte differenziate, irriducibili le une alle altre, ma non incomunicabili tra loro, in quanto tutte fondate su una logica e una metafisica comune, che consente tra loro di dialogare e di integrarsi, a partire da punti di osservazione, diversi e complementari, di una medesima realtà. A questo livello anche le discipline filosofiche e la stessa teologia devono potersi strutturare come scienze secondo un modello loro proprio, ma per questo non meno rigoroso. Ciò che Alberto Magno e dopo di lui il suo discepolo Tommaso, furono in grado di realizzare, a partire dalle conoscenze disponibili ai loro tempi, si ripropone come un esempio anche ai ricercatori di oggi che, come Giovanni Paolo II ha spiegato suggestivamente, hanno la necessità teorica e pratica di attuare a partire dalle loro odierne conoscenze. Dopo venticinque anni dal discorso di Colonia, questa esigenza di una fondazione epistemologica e ontologica delle scienze, si presenta non solo come necessaria, ma anche praticabile e forse ormai anche abbastanza vicina ad una piena realizzazione.