I mirabili anni ’60 del XX secolo che portarono in brevissimo tempo dal lancio spaziale del primo uomo in orbita intorno alla terra, il russo Yuri Gagarin, il 12 aprile del 1961, alla discesa del primo uomo sulla luna soltanto 9 anni più tardi, l’americano Neil Armstrong il 21 luglio 1969, registrarono un grande interesse di tutta l’opinione pubblica per le imprese spaziali e le missioni scientifiche in genere. Numerosi giovani si avvicinarono in quegli anni ai temi della scienza non pochi di essi (compreso chi adesso scrive) maturavano la decisione di intraprendere futuri studi universitari orientati allo studio del cielo e alle scienze dello spazio. Il ventennio che seguì lo sbarco dell’uomo sul nostro satellite vide però la lenta ma progressiva caduta di interesse per le imprese spaziali, sia per la minore determinazione con cui Stati Uniti e Unione Sovietica vi si applicavano, sia per la scarsa chiarezza con cui il pubblico percepiva la finalità dei nuovi lanci, non più orientati alla conquista di mondi lontani ma solo preoccupati di collocare satelliti e stazioni spaziali attorno al nostro pianeta, il cui scopo scientifico sembrava adesso convivere con mire militari, o comunque di controllo delle comunicazioni e del territorio.
Quando esattamente 20 anni fa, il 24 aprile del 1990, lo Shuttle Discovery portava in orbita attorno alla terra il Telescopio Spaziale Hubble (HST), un riflettore Ritchey-Chrétien di circa 2,4 metri di diametro, corredato da sofisticati rivelatori progettati per la radiazione visibile, l’ultravioletto e il vicino infrarosso, un progetto realizzato congiuntamente dalla agenzia spaziale americana NASA e dalla europea ESA, il rapporto fra imprese spaziali e grande pubblico avrebbe conosciuto una nuova stagione. Stava per accadere qualcosa di probabilmente inaspettato anche da coloro che vi avevano lavorato a lungo (va ricordato in proposito che la progettazione e la costruzione del telescopio erano durate quasi vent’anni). Questa volta non erano uomini a mettere piede su altri mondi, né si raccoglievano reperti da riportare come preziosi cimeli nei laboratori terrestri. Hubble avrebbe soltanto visto, fotografato, misurato, cose che non si potevano toccare né modificare o estrarre, ma solo contemplare, in accordo con l’originaria e più profonda vocazione dell’astronomia, quella di osservare e di catturare solo con lo sguardo, ora occhi elettronici e sofisticati, ciò che l’uomo non poteva (e assai probabilmente non potrà mai) raggiungere. Eppure questa silenziosa contemplazione, che cominciava a giungere sotto forma di immagini a colori della Wide-Field Camera e dall’Imaging Spectrograph sarebbe stata destinata a generare negli umani un allargamento di orizzonti ben più entusiasmante di una conquista materiale, quello della conquista di una nuova e più profonda conoscenza.
I problemi iniziali del telescopio, dovuti alla necessità di correggere delle distorsioni riscontrate nella formazione delle immagini dello specchio primario, sono a tutti noti, come sono anche note le brillanti soluzioni implementate durante la prima missione di servizio realizzata nel dicembre del 1993 dall’equipaggio dello Shuttle Endeavour. Lungo i venti anni di vita di Hubble, molti degli strumenti di analisi della luce raccolta dal telescopio sono stati poi rimpiazzati e rinnovati con devices e rivelatori di generazioni successive, mantenendo lo standard di rendimento delle osservazioni al massimo consentito dalla corrente tecnologia. A partire dal 1993 i nuovi risultati scientifici andavano crescendo di pari passo con la sorpresa per la straordinaria estetica delle immagini profonde dei corpi celesti, ben al di là di quanto i maggiori telescopi spaziali terrestri, pur sempre avvolti dalla coltre della nostra atmosfera, potevano far presagire. La conferma delle lenti gravitazionali previste dalla relatività generale di Einstein, l’osservazione assai particolareggiata di getti di plasma e di dischi di accrescimento, prova indiretta ma inequivoca dell’esistenza di black holes massicci in praticamente tutti i nuclei galattici attivi, l’esistenza di numerosi pianeti extrasolari o i nuovi vincoli adesso imposti alla natura e alla quantità di materia oscura dell’universo, sono nuove scoperte che venivano immediatamente affiancate da nuove e stupende immagini. Erano quelle della Galassia sombrero, di Centaurus A o delle “Antenne di Arp”, i meravigliosi colori della nebulosa di Orione o il campo trapunto di galassie del Coma cluster o del Deep Field: tutte cominciarono a circolare rapidamente, favorite dalle nuove tecniche di digitalizzazione di immagini e dalla progressiva diffusione di internet e dei siti web dedicati all’impresa del Telescopio spaziale.
Proprio la consultazione dei numerosi siti web sorti per raccogliere e rendere noti i risultati di HST, dei quali lo speciale che proponiamo qui ai nostri visitatori offre un esempio ragionato, può facilmente mostrare la grande ricaduta culturale, non solo scientifica, ma anche educativa, artistica ed umana in genere, che questa impresa ha recato con sé. La bellezza delle immagini catturate da Hubble ci ha regalato quel supplemento di contemplazione al quale non eravamo più abituati da tempo. Il cielo stellato che purtroppo non riusciamo quasi più a vedere dai luoghi della nostra esistenza quotidiana è stato di colpo squarciato da sguardi profondi che si spingevano fino a qualche miliardo di anni luce dalla terra, ovvero fino ad una frazione significativa dell’età del nostro universo; o almeno di quella che siamo abituati a chiamare la sua età anagrafica, poiché il suo periodo di gestazione nel seno della creazione, quel seno di fronte del quale le nostre leggi scientifiche si fermano, quasi in adorazione riverente, non potendole più rappresentare né formulare in modo consistente con i dati sperimentali, ci sono ancora (e forse per sempre ci saranno) precluse da tempi e lunghezze che portano il nome di Max Planck. Ad evocare la dimensione mistica che le osservazioni di Hubble parevano trarre con sé sono stati gli stessi titoli posti dagli astronomi alle immagini più suggestive, come i Pillars of Creation, i pilastri della creazione appunto, nome con il quale sono state battezzate le grandi nebulose che si ergono a forma di colonna, adesso ben visibili nella costellazione dell’Aquila.
Gli sguardi di stupore che solo pochi astronomi o il limitato numero di coloro che venivano raggiunti dalla divulgazione scientifica potevano dirigere verso questi oggetti, e a risoluzioni ben più basse, una divulgazione spesso affidata fino agli anni ’80 del secolo scorso alle ben note diapositive di celluloide, venivano nell’era del telescopio Hubble moltiplicati e messi a disposizione di centinaia di milioni, di miliardi di occhi umani. Prendeva così corpo una sorta di sessione perpetua di divulgazione scientifica, quella alla quale ciascuno poteva facilmente accedere attraverso le immagini dell’Hubble Heritage o degli altri programmi di presentazione e archiviazione offerti alla comunità internazionale, intelligentemente corredate da didascalie e informazioni didattiche alla portata di tutti. Ad esserne arricchito non è stato solo il mondo della scuola e dell’educazione, ma anche il mondo dell’arte, della pittura, della musica, della fotografia e perfino della poesia, come mostrato dagli stessi siti collegati con lo HST. Un successo anche dal punto di vista della comunicazione mediatica, come messo in luce da molti analisti del settore, che hanno registrato la pertinenza e la professionalità con la quale lo Space Telescope Science Institute (STScI) ha gestito la trasmissione dei risultati di Hubble e di quanto atteneva alla sua riparazione e manutenzione, causando un progressivo affezionarsi del grande pubblico verso quanto stava accadendo a quel nuovo enorme occhio collocato a 575 km dalla superficie della terra, capace di giungere enormemente più lontano nello spazio. Di fatto Hubble è diventato il nostro sguardo. In sostanza, eravamo, e siamo stati tutti, in orbita con lo Space Telescope.