Pavel Alexandrovich Florenskij

1882, Evlach, Azerbjdzian
1937, Leningrado

 

“Mi lasciò impacciato, trasognato, l'incontro con l'arciprete Pavel Florenskij” – sono parole di Elémire Zolla. “…uno degli uomini più eccezionali inghiottiti per sempre dall'Arcipelago [Gulag] …uno scienziato raro per il secolo XX” – sono parole di Solzenitcyn. “La legge è l'autentico recinto della natura; ma anche il muro più spesso ha crepe sottilissime attraverso le quali si infiltra il mistero” – queste sono parole dello stesso Florenskij.

Nato in Azerbajdzan nel 1882, Pavel trascorre i primi anni della giovinezza immerso nella natura aspra e coinvolgente del Caucaso: “Le mie convinzioni scientifiche e filosofiche uscirono non dai libri di filosofia, ma dalle mie osservazioni di bambino, e soprattutto dal tipo di paesaggio a cui ero avvezzo”. Dai genitori è educato ad una “visione scientifica del mondo”, per cui si interessa di scienze naturali, botanica, matematica, fisica, geologia e meteorologia. Nel profondo, però, si sente avvolto dalla “calda pienezza dell'essere”, con la natura che “si nasconde, tace oppure scherza, gioca con me per risvegliarmi alla realtà e vuole che io la comprenda. Talvolta ti incoraggia, scostando sbadatamente le sue cortine” (Ai miei figli).

Nel 1899 Florenskij attraversa una profonda crisi esistenziale, “soffocavo per mancanza di verità”, a seguito della quale decide di costruirsi una propria visione filosofica del mondo, possibilmente su basi matematiche. Si laurea in Fisica e Matematica all'Università di Mosca, con studi di storia, filosofia antica, psicologia, Platone, e una brillante tesi sul concetto di discontinuità, ma la sfida ormai è un'altra: “operare la sintesi tra la fede della Chiesa e il pensiero laico”. Nel 1904 entra all'Accademia Teologica, dove si occupa di spiritualità ortodossa, logica simbolica, teoria della conoscenza, archeologia e cultura ebraica: “Il positivismo mi disgustava, ma non meno mi disgustava la metafisica astratta. Io volevo vedere l'anima, ma volevo vederla incarnata”. Approfondisce Cantor e il rapporto tra finito e infinito, tra unità e molteplicità, che rimanda all'uni-trinità divina. Da qui inizia a prendere forma negli anni la sua sintesi tra spiritualità e cultura universale, nello sforzo di “far confluire l'intero insegnamento della Chiesa in una visione filosofico-scientifica e artistica del mondo”, fino al suo capolavoro, La colonna e il fondamento della verità , culmine della sua teodicea: “La conoscenza essenziale della verità, cioè la partecipazione alla verità stessa, significa entrare nelle viscere della Unitrinità divina, e non semplicemente attingere idealmente la sua forma esteriore… L'unità non è un fatto, ma un atto e quindi è un prodotto mistico della vita … il vero essere è relazione sostanziale con l'altro e moto di allontanamento da sé”.

Come faceva da bambino cerca di scrutare oltre la superficie del sensibile: “l'opera pittorica condivide con tutti i simboli in genere la loro caratteristica ontologica fondamentale, di essere ciò che essi simboleggiano…esiste la trinità di Rublev, perciò Dio è” (Le porte regali). La sua è una visione unitaria della conoscenza, in quanto le profondità segrete della natura sono a noi conoscibili “non per mezzo della mente in modo frammentario, bensì quando le cogliamo nel loro insieme, nell'esperienza personale e viva del reale”. È una proposta di “metafisica concreta” che coinvolge scienza e filosofia ( Il significato dell'idealismo ), teologia (Il cuore cherubino) e arte (Lo spazio e il tempo nell'arte): il pensiero è dialettico, la realtà è discontinua e lacerata da antinomie, ma proprio questo ci permette di percepire l'opera della verità. Sempre sul confine, sulla soglia “tra i due mondi”, preferisce “che il maggior riguardo usato a una religione sia la lotta aperta con essa piuttosto che la tolleranza, che livella tutte le religioni a un generale disprezzo” (Ragione e dialettica). E tra cristiani “dobbiamo riconoscere che l'autentica causa della divisione … non è data da particolari differenze di dottrina, … ma da una profonda e reciproca diffidenza in ciò che è fondamentale, e cioè nella fede in Cristo” (Cristianesimo e cultura). La sua visione scuote dalle fondamenta la cultura imperante, materialistica e superficiale: “non è possibile che l'uomo sia stato soggiogato definitivamente…sta per venire l'ora di un profondissimo cambiamento che investirà le radici stesse della cultura” (Il valore magico della parola).

L'impresa di “testimoniare la verità” è epocale e coinvolge insieme, in modo indissolubile, il pensiero e la vita di Pavel: partecipa attivamente alla vita culturale di Mosca, pubblica centinaia di articoli, saggi e interventi con intuizioni che sembrano anticipare aspetti della ricerca scientifica e teologica contemporanea, dirige la rivista dell'Accademia teologica, sposa Anna Giacintova da cui avrà cinque figli e una felice vita familiare e, nel 1911, viene ordinato sacerdote ortodosso. Florenskij possedeva una straordinaria profondità di pensiero, ma anche la semplicità del bambino evangelico, come si vede nella commossa biografia che scrive in morte dello starec Isidoro, suo padre spirituale: “Fili invisibili lo univano al cuore segreto della creazione” (Il sale della terra).

Dopo la rivoluzione del 1917 iniziano le persecuzioni, ma Pavel rifiuta di seguire in esilio gli altri intellettuali, per rimanere a fianco della sua gente. Il Partito sfrutta le competenze del “pope-scienziato”, ordinandogli ricerche per l'elettrificazione della Russia, sui minerali, la radioattività, la standardizzazione dei termini tecnici e ben 127 voci dell'Enciclopedia Tecnica. Ma per la dittatura stalinista non è a lungo tollerabile questo “pope oscurantista” che, nonostante i divieti, continua ad andare in giro vestito da prete, parlando, scrivendo e componendo la sua “antropodicea”. Nel 1933 viene definitivamente arrestato e inviato prima in Siberia, dove compie importanti ricerche sul gelo perpetuo, infine nell'infernale lager delle Solovski, dove studia l'estrazione dello iodio dalle alghe marine. Gli ultimi tre anni prima della fucilazione, avvenuta probabilmente nel 1937, sono i più terribili, avvolto dalla brutalità e stupidità umana, dalla menzogna, dal non senso, dal torpore spirituale: “nell'anima ho poca luce”. Nonostante ciò, mantiene la sua fede, la sua visione unitaria del mondo, la sua creatività scientifica. Dal gulag scrive una lunga serie di lettere di amore e incoraggiamento, a sua moglie “Ricordati che i miei figli sono me e che guardando loro sei con me”, e ai suoi figli “Quando avrete un peso nell'animo, guardate le stelle o l'azzurro del cielo … allora la vostra anima troverà la quiete” (Non dimenticatemi); lettere che, nonostante la censura, contengono il suo testamento scientifico e spirituale.

Pascal russo, Leonardo da Vinci della Russia, come è stato definito, Florenskij scrive alla moglie dal lager: “Che cosa ho fatto per tutta la vita ? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà compatta, ma a ogni tappa della mia vita da un determinato punto di vista ”. Ma forse la migliore sintesi della sua vita, Florenskij la dà descrivendo l'eroe shakesperiano: “Amleto è vittima del processo storico e al tempo stesso è osservatore del suo punto più interessante, del suo vortice più impetuoso… egli finisce tragicamente non essendo stato capace di compiere una missione superiore alle sue forze: traghettare anzitempo l'umanità a una nuova coscienza religiosa” (Amleto). Oggi, riscoperto dopo 70 anni dalla morte, Pavel Florenskij può essere guida ed esempio per quella ricomposizione tra fede e cultura per cui ha speso il suo pensiero e la sua vita.

 

Bibliografia:

N. VALENTINI, Pavel Aleksandrovic Florenski, in DISF, vol. II, pp. 1750-1764

N. VALENTINI, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997

N. VALENTINI, Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia 2004

L. ZÁK, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998

 

Giulio Meazzini