Indice: Parte Prima: Il problema del male - cap. I: Il problema del male in Omero e nei tragici greci - cap. II: Il tema del peccato in Shakespeare, Racine e Dostoevskij. Parte Seconda: Il problema della sofferenza - cap. I: Il paradosso del “giusto sofferente” nella tragedia greca - cap. II: La santificazione dell’uomo attraverso la sofferenza in Shakespeare e Dostoevskij. Parte Terza: Il problema della morte - cap. I: I miti dell’aldilà in Omero, Platone, Cicerone e Virgilio - cap II: Il paradiso della luce in Dante.
«Che hanno in comune, dunque, Atene e Gerusalemme? L’Accademia e la Chiesa? Gli eretici e i cristiani? La nostra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva insegnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore. Ci pensino coloro che hanno inventato un cristianesimo stoico e platonico e dialettico. Non abbiamo bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca dopo il Vangelo. Quando crediamo, non sentiamo il bisogno di credere in altro, giacché noi crediamo prima questo, non esserci motivo di dover credere in altro». È difficile che non tornino alla mente le parole appena citate tratte dall’opera De praescriptione haereticorum di Tertulliano, quando ci si accinge a presentare un libro come Saggezza greca e paradosso cristiano, pubblicato da Charles Moeller nel 1948, del quale l’Editrice Morcelliana ha recentemente mandato in libreria la nona edizione della traduzione italiana. Tornano alla mente perché sono eloquentemente rappresentative di uno degli atteggiamenti che i cristiani delle origini adottarono ponendosi dinanzi al grandioso patrimonio ereditato dalla cultura classica, ovvero quello del rifiuto, operato in nome dell’assoluta alterità e novità del messaggio evangelico nei confronti di qualsiasi umana acquisizione; ma tornano altresì alla mente, perché ancora oggi il problema del rapporto tra fede e cultura o, meglio, tra fede e culture, è di stringente attualità e richiede di essere costantemente studiato e approfondito. È noto, tuttavia che Tertulliano appartenne ad una frangia radicale e minoritaria del cristianesimo dei primi secoli. Di ben diversa opinione furono autori come Giustino, Clemente di Alessandria e vari fra i Padri apologeti greci del II e III secolo. In realtà, pur con infinite modulazioni e sfumature, tra verità cristiana e cultura greca si determinò un’osmosi profonda. Così la pensa anche Charles Moeller, che apre il suo notevolissimo lavoro con le seguenti considerazioni: «Il cristianesimo si è unito con l’ellenismo, con una, cioè, delle forme più perfette di umanesimo, in un indissolubile vincolo. All’ellenismo esso deve, in gran parte, il suo trionfo nel mondo antico. È impossibile capire taluni aspetti del dogma senza ricorrere ai concetti greco-romani, che hanno contribuito ad elaborarli. Questa unione del mondo cristiano e del mondo antico ha salvato la civiltà durante il Medio-Evo […]. Il cristianesimo non ha soppresso ciò che l’umanità aveva creato di più grande prima di esso, bensì l’ha battezzato. In esso, i valori umani prima vengono convertiti, poi coronati: stanno a segnare la via sacra per il “Trionfo” dell’“eroe antico” più perfetto, il Cristo […]. La Chiesa cattolica si è sempre sforzata di salvare il più possibile dell’“uomo vecchio”. Sempre essa ha pensato che essere un santo era anche essere un uomo, che l’umanesimo non si contrappone alla santità, ma in essa trova il suo coronamento» (pp. 15-16).
Ma v’è un altro punto che Moeller, che scrive all’indomani dell’immane tragedia della seconda guerra mondiale, tiene ben presente, ed è quello dell’ineludibile scandalo del male e del dolore che segna da sempre la storia dell’umanità, uno scandalo che nessun ottimismo umanistico può spiegare e tanto meno cancellare: soltanto il paradosso cristiano, che parla apertamente di peccato e di sofferenza redentrice, è in grado di dire qualcosa all’uomo contemporaneo sempre più bisognoso di risposte radicali. E a questo riguardo, Moeller non esita a segnalare la profonda diversità esistente tra saggezza greca e annuncio cristiano e a sottolineare i limiti dell’umanesimo classico, fondando le sue affermazioni sulle seguenti celebri parole della Prima Lettera ai Corinzi: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1, 27-29).
Moeller sceglie dunque opportunamente questa linea interpretativa che non fa indebite confusioni tra classicità e cristianesimo, ma nello stesso tempo indica con chiarezza la presenza di fecondi punti di contatto fra le due realtà, nella convinzione che la verità cristiana non ha mai annichilito i valori più autentici, ma li ha esaltati e condotti a pieno compimento.
Il libro di Moeller consta di tre parti: la prima dedicata a Il problema del male, la seconda a Il problema della sofferenza e la terza a Il problema della morte. Trattando del male, l’autore si sofferma su Omero e i tragici greci e spiega perché il mondo ellenico non ebbe il senso del peccato, per poi concludere nei termini seguenti: «La malvagità reciproca degli uomini si può vederla senza perdere il coraggio quando si scorgono di lontano le torri di un’altra città, di un’altra Atene, diversa da quella dei Sofisti, una città del cielo, la Gerusalemme celeste […]. La visione cristiana dell’uomo peccatore è più “umana”, poiché è lo sguardo di un Dio di perdono sul gregge delle sue pecorelle» (p. 71). L’analisi del tema del peccato in Shakespeare, Racine e Dostoewskij conduce Moeller a sostenere che i tre sommi scrittori sono stati più grandi dei greci «perché si sono lasciati influenzare dal cristianesimo» (p. 114), magari pur non essendone sempre consapevoli. Non si deve affermare che essi hanno scritto le loro opere immortali alla luce di una ben precisa dogmatica cristiana, ma non si può disconoscere che tutti e tre, seppur con le dovute differenze, hanno respirato a pieni polmoni l’ossigeno del messaggio cristiano diffuso nella civiltà e nella cultura del loro tempo.
Al genio greco – prosegue Moeller – mancò la capacità di trovare un perché autentico alla sofferenza che lacera l’umanità, e ciò assai probabilmente a causa dell’oscurità in cui avvolsero il destino dell’uomo oltre la morte; le tenebre dell’aldilà non rischiarate dalla luce della resurrezione rendono ancora più opaco e impenetrabile l’enigma del dolore: tuttavia – annota l’autore – pur nell’assenza di una speranza oltremondana, i greci (si pensi ad Antigone) seppero mostrarsi coraggiosi e questo loro coraggio ammonisce i cristiani a essere degni del dono della speranza che il Signore ha loro elargito, non lasciandoli vagare nel buio. Inoltre – aggiunge Moeller –, il mondo ellenico non seppe che il dolore è un prodotto del peccato: il peccatore, commettendo il male, fa soffrire gli altri uomini e nello stesso tempo soffre egli stesso. Il cristiano sa che il peccato può essere sconfitto e con esso il dolore, perché, per quanto fragile sia l’uomo, potente è la bontà di Dio che ama e perdona: questa certezza è presente sia nelle opere di Shakespeare, sia in quelle di Dostoewskij, meno esplicitamente nelle prime, assai di più nelle seconde.
Sullo sfondo del pensiero greco si staglia la novità cristiana della libertà e del valore della storia. E con essa anche la corrispondente responsabilità che ne deriva. La nozione di peccato era nel mondo greco inestricabilmente mescolata a quella di fatalità. Non compariva l’idea che la creatura potesse godere di una libertà capace di opporsi al suo Creatore, in quanto la vita umana si muoveva in un universo dominato dal determinismo e da cause cieche, che l’uomo subisce senza poter mai controllare con il suo agire libero. Ed è assente l’idea di perdono. La saggezza greca, osserva l’A., è in fondo un grande grido verso un Dio di misericordia, verso un mondo divino che abbia la bellezza del mondo umano che i greci avevano sempre sognato.
Ma è di fronte alla morte che la novità cristiana si rende particolarmente visibile: la Resurrezione di Cristo e l’annuncio dell’instaurazione del regno di Dio aprono una pagina totalmente nuova nella storia del mondo, una pagina che la classicità non fu in grado di scrivere. I miti dell’aldilà presenti in Omero, in Platone, in Cicerone e in Virgilio palesano una sicura grandezza e, nel medesimo tempo, un altrettanto invincibile miseria, mentre la luce tutta cristiana che promana dal Paradiso di Dante squarcia definitivamente le tenebre dell’Ade.
La bella opera di Charles Moeller spiega bene in quale senso debba leggersi il rapporto tra saggezza greca e paradosso cristiano, e le seguenti acute osservazioni sintetizzano assai bene questa spiegazione: «L’anima antica – si legge in una densa pagina del libro – è vicina la cristianesimo. Lo presentiva, lo disegnava “a incavo”. E’ aperta. La cultura antica, soprattutto la greca, è infinitamente meno pericolosa, dato che lo sia, per un cristiano, che quella dopo il Cristo. L’orgoglio di un eroe greco non ha la durezza disperata del Sisifo di Camus. Mancano agli antichi alcuni valori essenziali (sentimento della colpa, bisogno di redenzione, gioia) ma solo perché mancò loro la Rivelazione. Questa Rivelazione non la negarono. Per la qual cosa il loro umanesimo conserva un’inspiegabile virile dolcezza. E permette di meglio capire il cristianesimo come coronamento e redenzione dell’uomo» (p. 234). Il lavoro di Moeller rappresenta ancora oggi un classico del pensiero cristiano, che il lettore interessato ai rapporti fra Rivelazione cristiana e pensiero filosofico potrà accostare ai noti saggi Jean Danielou (Miti pagani e mistero cristiano, tr. it. Roma 1995; Messaggio evangelico e cultura ellenista, tr. it., Bologna 1975). Da questo confronto, emerge la caratteristica eccedenza della Rivelazione cristiana rispetto alle domande religiose e filosofiche dell’uomo e, al tempo stesso, la sua sorprendente sintonia con quanto egli desideri o, perfino, non osi sperare.