Frankl, Viktor E. (1905 - 1997)

Anno di redazione
2002

I. Dati biografici - II. Ridare dignità all’uomo e riscoprire il ruolo dell’incontro - III. Una Weltanschauung fenomenologica al di là di ogni riduzionismo - IV. Una visione dell’uomo libera da pregiudizi - V. Essere e poter-essere - VI. Senso della vita, responsabilità e coscienza - VII. Dio nell’inconscio - VIII. Tre categorie di valori.

I. Dati biografici

Psichiatra austriaco, nato a Vienna il 26 marzo 1905 e ivi morto il 2 settembre 1997. Suo padre era impiegato ministeriale e attivo protagonista della vita culturale e politica viennese. Durante gli anni di liceo, a indirizzo scientifico, si interessò di filosofi naturalisti quali Wilhelm Ostwald (1853-1932) e Gustav Theodor Fechner (1801-1887) e prese a frequentare delle lezioni di psicologia applicata presso una Università popolare, occupandosi anche di psicologia sperimentale. Negli stessi anni fu in relazione epistolare con Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicoanalisi, che incontrò personalmente nel 1924. Grazie a tale relazione il suo interesse per la psicologia ebbe una spinta maggiore: infatti, risalgono a quegli anni alcuni scritti di indole introspettiva pubblicati su un giornale viennese, nella sezione dedicata alla gioventù, e che recentemente sono stati raccolti e pubblicati in traduzione italiana (cfr. Le radici della logoterapia, a cura di E. Fizzotti, Roma 2000). Lo stesso Freud volle che un saggio del giovane Frankl sulla mimica dell’affermazione e della negazione fosse edito nella Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse nel 1924 (cfr. ibidem, pp. 25-26). In chiave psicoanalitica fu anche il lavoro scritto degli esami di maturità, dedicato alla presentazione del pensiero di Arthur Schopenhauer (1788-1860).

Ciò non vuol dire che Frankl si sentisse discepolo di Freud: né la preparazione né la giovane età potevano orientarlo a un’adesione completa alle concezioni freudiane. Piuttosto trovò nella psicologia individuale di Alfred Adler (1870-1937) un terreno favorevole allo sviluppo delle sue intuizioni: cominciò a tenere conferenze a studenti e operai sotto la guida di Adler, pubblicò nel 1925 l’articolo Psychotherapie und Weltanschauungnell’Internationale Zeitschrift für Individualpsychologie (cfr. ibidem, pp. 27-29), nel 1926 partecipò al Terzo Congresso di Psicologia Individuale, tenutosi a Düsseldorf, nel 1927 fondò e diresse la rivista Der Mensch im Alltag, nella quale condusse una tenace battaglia a favore della fondazione di Centri di Consulenza per giovani bisognosi di aiuto psichico e morale. I suoi sforzi furono coronati da un lusinghiero successo: sempre più numerosi i giovani, afflitti da problemi esistenziali, da conflitti familiari, da disturbi sessuali, da affezioni nevrotiche o da questioni di carattere prettamente medico, si rivolsero ai Centri per chiedere consigli.

Radiato nel 1927 dalla Società Adleriana per contrasti ideologici, insieme con Rudolf Allers e Oswald Schwarz, Frankl si dedicò allo studio delle opere di Max Scheler (1819-1903) e proseguì nell’approfondimento degli studi nel campo clinico. Nel 1930 tenne conferenze a Berlino (su invito di Wilhelm Reich), a Praga e a Budapest, mentre all’Università popolare di Vienna organizzò il primo corso sull’igiene psichica. Nello stesso anno conseguì la laurea in medicina e, dopo aver lavorato sotto la guida di Otto Pötzl nel reparto di psicoterapia della clinica psichiatrica dell’Università di Vienna, passò alla clinica neurologica Am Rosenhügel. Nel 1931-1932 proseguì la sua formazione neurologica al Maria Theresien Schlössl di Vienna, sotto la guida di J. Gerstmann. Dal 1933 al 1937 lavorò nell’ospedale psichiatrico Am Steinhof, dove diresse il cosiddetto “padiglione delle suicide”. Conseguita la specializzazione in neurologia e psichiatria, nel 1936 aprì uno studio privato specialistico. Dal 1939 al 1942 diresse il reparto di neurologia del Rotschildspital, dove venivano curati solo pazienti ebrei. In tale periodo, mettendo in pericolo la propria vita, Frankl sabotò il programma di eutanasia messo in atto dai nazisti per i “malati psichici”, stendendo delle false diagnosi nel corso delle perizie mediche. Come frutto delle sue riflessioni sui rapporti tra quadro filosofico e attività psicoterapeutica, pubblicò nel 1938 gli articoli Zur geistigen Problematik der Psychotherapie e Seelenärztliche Selbstbesinnung (cfr. ibidem, pp. 115-130) e nel 1939 Zur medikamentösen Unterstützung der Psychotherapie bei Neurosen e Philosophie und Psychotherapie. Zur Grundlegung einer Existenzanalyse (cfr. ibidem, pp. 131-145).

La guerra era alle porte. La persecuzione antisemita coinvolse la famiglia Frankl. Per gli ebrei i tempi si fecero sempre più duri. Con coraggio non comune, molti continuarono la loro opera, a costo di mettere a repentaglio la propria vita. Per ben tre anni, fino al 1942, Frankl riuscì ad evitare l’internamento. Ma alla fine giunse anche per lui il momento tanto temuto e, avendo rifiutato, nel 1939, il visto per emigrare negli Stati Uniti, non ebbe paura di affrontare le conseguenze della sua scelta: nel settembre 1942 entrò quindi a testa alta, assieme alla giovane moglie Tilly Grosser, nel lager nazista di Theresienstadt (Böhmen), da cui venne trasferito, nel 1944, prima ad Auschwitz e poi a Kaufering III ed a Türkheim (filiali di Dachau). Percorse le tappe del suo experimentum Crucis non da psichiatra e ancor meno da medico, quanto da internato medio, uno dei tanti, un uomo qualsiasi, un numero: 119.104, lavorando da semplice sterratore, come addetto al mantenimento delle linee nella costruzione di ferrovie e realizzando da solo un tunnel per condotte d’acqua. Qualche mese dopo la liberazione, avvenuta il 27 aprile 1945, fece ritorno a Vienna, dove ricevette la notizia della morte della moglie.

Grazie alla collaborazione di Otto Pötzl e di Otto Kauders, suo successore come direttore della clinica psichiatrica dell’Università di Vienna, Frankl riprese a lavorare presso il locale Policlinico neurologico, assumendo il ruolo di primario che conservò per 25 anni. Nel 1946 diede alle stampe il suo primo volume, Ärztliche Seelsorge (tr. it. Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia 19774):fu un successo strepitoso. In tre giorni fu esaurita la prima edizione, e nel giro di tre mesi anche la seconda. In esso Frankl presentava in forma organica la sua teoria sul senso della vita e offriva un’originale interpretazione delle origini dei disturbi nevrotici, localizzandoli, diversamente da Freud, non nella sessualità repressa, ma nel vuoto esistenziale e nella sensazione di mancanza di senso della vita.

Il volume più significativo della produzione letteraria di Frankl, e che costituisce un gioiello della letteratura non solo contemporanea ma di tutti i tempi, è Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager (tr. it. Uno psicologo nei Lager, Milano 199911). In tale opera, divenuta un best seller negli Stati Uniti (finora ne sono state vendute oltre 9 milioni di copie, ed è stata tradotta in decine di lingue), egli descrive con fine sensibilità le impressioni e le esperienze dei tre anni trascorsi nei lager. Fu proprio in quei luoghi di martirio e di degradazione umana che Frankl comprovò l’efficacia delle intuizioni avute negli anni precedenti. Se egli giurò a se stesso di «non correre mai al filo», ossia di non lasciarsi mai andare alla sfiducia al punto di suicidarsi toccando i fili elettrici dell’alta tensione che circondava il campo di Auschwitz, ciò fu dovuto proprio allo spiraglio di speranze che intravide anche nell’oscurità dell’inferno nazista.

Fu ad Auschwitz che Frankl imparò che «sulla terra esistono soltanto due razze, e solo queste due: la “razza degli uomini per bene”, e quella dei “poco di buono”. Queste due “razze” sono diffuse ovunque, penetrano e s’infilano in tutti i gruppi» (Uno psicologo nei Lager, p. 144). Non solo, ma la fiducia di Frankl nella bontà dell’uomo trovò un appoggio nel vedere innumerevoli prigionieri che entravano nelle camere a gas «a fronte alta, sulle labbra il Padre nostro o la preghiera ebraica per la morte» (Homo patiens, p. 98). Incitato da tali esempi, fece appello alle sue risorse umane e morali, riuscendo a trovare un significato anche in quel genere di vita, cercando di comunicare ai compagni di sfortuna l’entusiasmo per la lotta, per lo sforzo di difendere sempre la propria dignità, per saper sorridere anche nelle sofferenze. Infatti, nei lager Frankl scoprì l’importanza di un compito, di un ideale, di una ragione per vivere. Solo coloro che avevano dinanzi a sé un compito che li aspettava per essere portato a termine trovavano la forza per superare quelle ignobili e degradanti situazioni. E fu così che il suo impianto teorico, che già negli anni precedenti aveva preso forma attorno al tema della ricerca del senso (gr. logos, e da qui la «logoterapia», come intervento per aiutare a ritrovare il senso della propria esistenza), trovò nel vivo dell’esperienza la sua conferma più nobile e significativa.

Nel 1947 Frankl celebrò il matrimonio con Eleonore Katharina Schwindt e nel dicembre dello stesso anno divenne papà di una bambina, cui venne dato il nome di Gabriele. Conseguita nel 1948 l’abilitazione in neurologia e psichiatria e la laurea in filosofia, divenne libero docente all’Università di Vienna. In quegli stessi anni, come frutto di conferenze e delle sue lezioni, apparvero varie opere: Trotzdem Ja zum Leben sagen. Drei Vorträge nel 1946, Die Psychotherapie in der Praxis. Eine kasuistische Einführung für Ärzte nel 1947 (tr. it. Psicoterapia nella pratica medica, Firenze 19744), Zeit und Verantwortung nel 1947, Die Existenzanalyse und die Probleme der Zeit nel 1947, Der unbewuflte Gott nel 1949 (tr. it. Dio nellinconscio. Psicoterapia e religione, Brescia 20004), Der unbedingte Mensch. Metaklinische Vorlesungen nel 1948, Homo patiens. Versuch einer Pathodizee nel 1949 (tr. it. Homo patiens. Soffrire con dignità, Brescia 19983).

Dopo aver fondato nel 1949 la Österreichische Ärztegesellschaft für Psychotherapie, di cui divenne il primo presidente, Frankl moltiplicò le pubblicazioni incentrate sul tema della ricerca di senso e sulle indicazioni terapeutiche per la cura di vari disturbi psichici e intraprese a viaggiare, accogliendo gli inviti che gli venivano rivolti da varie istituzioni universitarie. In modo particolare nel 1954 fu in Argentina, dove nacque laSociedad Argentina de Logoterapia Existencial, e nel 1961 all’Università di Harvard su invito di Gordon Willard Allport, il quale già negli anni precedenti aveva facilitato la traduzione in inglese di Ärztliche Seelsorge (The Doctor and the Soul. From Psychotherapy to Logotherapy, 1955) e quella di Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager (From Death-Camp to Existentialism. A Psychiatrists Path to a New Therapy, 1959), scrivendo anche una bella presentazione per la nuova edizione che, arricchita di una seconda parte, apparve con il titolo Mans Search for Meaning. An Introduction to Logotherapy (1963).

Nel frattempo, Frankl aveva pubblicato nel 1956 Theorie und Therapie der Neurosen (tr. it. Teoria e terapia delle nevrosi, Brescia 19782) in cui veniva sintetizzata la sua dottrina sulle nevrosi ed era riportata un’abbondante casistica clinica che comprovava la validità delle sue tecniche, in modo particolare la dereflessione e l’intenzione paradossa. Nel 1959 apparvero sia il poderoso Handbuch der Neurosenlehre und Psychotherapie, in cinque grandi volumi che Frankl curò assieme a Viktor F. von Gebsattel e Johannes H. Schultz e sia Das Menschenbild der Seelenheilkunde.

L’apertura di Frankl alla cultura americana divenne sempre più ampia attraverso la pubblicazione di due sue opere originali in lingua inglese: Psychotherapy and Existentialism. Selected Papers on Logotherapy nel 1967 e The Will to Meaning. Foundations and Applications of Logotherapy nel 1969 (tr. it. Fondamenti e applicazioni della logoterapia, Torino 1977 e, dal 1995, con il titolo Senso e valori per lesistenza. La risposta della Logoterapia, Roma 19982) e, soprattutto, con l’inaugurazione nel 1970 di una cattedra di logoterapia presso la United States International University di San Diego in California e la fondazione nel 1977 del primo Istituto di Logoterapia del mondo a Berkeley, sempre in California.

Membro onorario di numerose società mediche e psicoterapeutiche, dottore honoris causa in decine di prestigiose Università sparse in tutto il mondo, ricercato conferenziere, alpinista provetto, Frankl ha incarnato le aspirazioni e le problematiche esistenziali di ogni uomo, parlando a tutti, al sofferente e al sano, perché tutti hanno il compito di trovare il significato della propria esistenza, e tutti hanno sempre la possibilità di aprirsi al domani, di educarsi alla responsabilità, alla coerenza, all’amore, appunto perché tutti sono in grado di dire di sì alla vita.

Gli ultimi anni della sua esistenza sono stati particolarmente ricchi di produzione scientifica e culturale. Alle sempre continue ristampe dei suoi primi volumi si è aggiunta la pubblicazione di Psychotherapie für den Alltag nel 1971, Der Wille zum Sinn e Der Mensch auf der Suche nach Sinn nel 1972 (tr. it. Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata, Milano 19983), Der leidende Mensch nel 1975, Das Leiden am sinnlosen Leben nel 1977 (tr. it. La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per luomo doggi, Torino-Leumann 19923), The Unheard Cry for Meaning nel 1978, Der Mensch vor der Frage nach dem Sinnnel 1979, Die Sinnfrage in der Psychotherapie nel 1981, Logotherapie und Existenzanalyse nel 1987, Bergerlebnis und Sinnerfahrung nel 1992 (tr. it. Esperienza di montagna ed esperienza di senso, in “Attualità in logoterapia” 2 (2000), n. 2, pp. 39-43). Particolarmente significativa è risultata, nel 1995, due anni prima della morte, la pubblicazione dell’autobiografia: Was nicht in meinen Büchern steht (tr. it. La vita come compito. Appunti autobiografici, Torino 1997).

Nel 1992, a Vienna, si è proceduto alla fondazione del Viktor Frankl Institut, alla cui presidenza appartengono personalità del mondo accademico internazionale (Herbert Hunger, Giselher Guttmann, Franz Vesely, Eugenio Fizzotti) e membri della famiglia Frankl (Gabriele Frankl, Eleonore Frankl, Katharina Vesely), e del cui comitato scientifico fanno parte Javier Estrada, Robin Goodenough, David Guttmann, Dmitry Leontiev, Elisabeth Lukas, Hiroshi Takashima). Obiettivo del Viktor Frankl Institut è la sistemazione dell’archivio dello psichiatra viennese, la raccolta e la cura di tutta la bibliografia internazionale, la pubblicazione di una rivista semestrale (dal 1993 con il titolo Journal des Viktor Frankl Instituts e dal 1998 con il titolo The International Journal of Logotherapy and Existential Analysis), l’attivazione di un sito web che colleghi tutte le istituzioni internazionali, nate in quasi ogni paese del mondo per l’approfondimento e la diffusione della logoterapia.

In Italia, presso l’Università Salesiana di Roma, è attiva l’Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana (A.L.Æ.F.) che, oltre a organizzare periodici seminari, convegni, corsi di formazione e laboratori, pubblica la rivista quadrimestrale Attualità in logoterapia, alla quale collaborano i migliori specialisti in logoterapia sia italiani che esteri. E sempre in Italia, come citato in apertura, è apparso in esclusiva nel 2000 il volume Le radici della logoterapia. Scritti giovanili 1923-1942, nel quale vengono raccolti e tradotti tutti gli articoli pubblicati dal giovane Frankl, a partire da quando non aveva ancora diciotto anni fino alla deportazione nei lager nazisti.

II. Ridare dignità all’uomo e riscoprire il ruolo dell’incontro

L’espressione: «fede incondizionata in un significato incondizionato» della vita (Senso e valori per lesistenza, p. 164) non ha certo reso Frankl simpatico nel mondo degli psichiatri, sovente troppo preoccupati a cogliere solo il legame tra modalità di esistere e struttura neurologica, oppure in quello dei sociologi, orientati a vedere unicamente i condizionamenti culturali, familiari, politici, e non invece la radicale capacità — mai persa — della singola persona a saper assumere con dignità e coraggio un atteggiamento nei confronti dei condizionamenti, oppure ancora in quello degli psicologi, nella maggior parte dei casi capaci, al tempo dei primi scritti di Frankl, solo di vedere nei meandri della psiche le pulsioni inconsce che agiscono da detonatore quando meno ci si aspetti, abdicando quindi a qualsiasi possibilità di decisione responsabile.

E fece scalpore, già nel 1945, il suo schierarsi deciso e convinto contro il concetto di colpa collettiva. «Ricevetti tirate di orecchi da parte di diverse organizzazioni. Ciononostante continuai a parlare contro la colpa collettiva e lo feci anche davanti a un generale che comandava le truppe francesi di occupazione, in occasione di una conferenza che ero stato invitato a tenere nella zona occupata dai francesi. Il giorno dopo venne a trovarmi un professore universitario, a suo tempo ufficiale delle SS, e mi chiese con le lacrime agli occhi dove trovassi il coraggio di schierarmi così apertamente contro il giudizio generale. “Lei non può farlo — gli risposi —, perché parlerebbe pro domo sua. Ma io, che sono stato il detenuto n. 119.104 a Dachau, io sì che posso farlo. Anzi, devo farlo. Mi tocca farlo: è un obbligo”» (Ciò che non è scritto nei miei libri, p. 102).

E non diversamente si espresse nella grande piazza antistante lo splendido palazzo municipale di Vienna 50 anni dopo, dinanzi a migliaia di persone. Coerente con la sua professione di fede nell’uomo, nella sua libertà, nella sua dignità e nella sua assunzione di responsabilità, pronunciò con voce ferma il suo rifiuto nei confronti di qualsiasi tentativo di minimizzazione e di riduzione della persona umana e, contemporaneamente, la sua profonda convinzione che, sempre e dappertutto, l’uomo è capace di trascendersi, di guardare oltre i ristretti orizzonti del quotidiano, di attingere alle profondità spirituali del proprio inconscio, non più, quindi, unico ed inesorabile ricettacolo di istinti ed impulsi ciechi, privi di qualsiasi spiraglio di autentica libertà, così come per decenni ha insegnato la psicoanalisi.

«Se non lo faccio io, chi lo farà? Se non lo faccio adesso, quando lo farò? Se lo faccio solo per me stesso, chi sono io?». Queste tre frasi del rabbino Hillel, vissuto verso la fine del I secolo a.C., ritornano come un ritornello nei testi di Frankl, per sottolineare tre aspetti centrali del suo pensiero: a) l’unicità della persona, al di là di qualsiasi tentativo di massificazione, b) l’unicità del momento presente, al di là di qualsiasi rifugio nel mondo illusorio dell’irresponsabilità e di un’eternità impersonale e priva di rapporti con il quotidiano tragico, c) l’orientamento verso il mondo dei valori e dei compiti, che ciascuno è chiamato a scoprire e a realizzare giorno per giorno, senza sperare tornaconti o ricompense. Il tutto in un contesto di riscoperta dell’incontro, come luogo di fedeltà all’essere, alla vita ed al rapporto, nella consapevolezza del facile rischio della manipolazione e della spersonalizzazione. Il che vuol dire chiedersi con sincerità: la persona che incontro è per me unica? ha per me un nome? dietro il suo volto, leggo una storia? partecipo della sua storia e lei della mia? Oppure è un semplice burattino, un anonimo personaggio funzionale alle mie attività e per me, perciò, avere di fronte lei oppure un’altra in fondo non fa alcuna differenza? In ultima analisi: è lei a rispondere ai miei desideri, ai miei bisogni, oppure sono io che mi pongo in ascolto attento della sua unica ed irripetibile esistenza?

L’incontro fra due persone uniche ed irripetibili — sottolinea Frankl — è realmente autentico nella misura in cui coglie «la dimensione immediatamente superiore, quella nella quale l’uomo viene trasceso in direzione di un significato e in cui tutta l’esistenza è messa a diretto confronto con il logos» (Logoterapia e analisi esistenziale, p. 275). Diversamente, un dialogo e un incontro non aperti al senso, e quindi non basati su un’intersoggettività autotrascendente, restano un dialogo ed un incontro senza logos, una pura mistificazione chiusa nel ristretto orizzonte dell’immanenza, alla ricerca solo delle radici, e per di più nell’unica direzione dei bisogni da soddisfare, e non invece degli scopi oggettivi, carichi di sfida e di provocazione, che hanno un carattere imperativo e chiedono di essere realizzati.

III. Una Weltanschauung fenomenologica al di là di ogni riduzionismo

La psicoterapia che Frankl ha creato si colloca all’interno del filone esistenziale che pone al centro delle sue attenzioni la persona esistente ed esalta l’essere umano nell’atto di emergere, di diventare, senza negare ovviamente i condizionamenti esercitati dal mondo pulsionale, ma sottolineando in termini espliciti e forti che mai è possibile spiegare o capire un essere umano concreto solo su tale base.

La metodologia da lui adottata è quella fenomenologica, caratterizzata dal prendere il fenomeno così come si presenta, sforzandosi di cogliere la realtà senza preconcetti, per arrivare ad afferrare la persona esistente in termini scientifici e riconoscendo la sua inalienabile capacità di scelta, la sua dignità, il suo orientamento verso valori e significati oggettivi. Concretamente, l’obiettivo è quello di penetrare la Weltanschauung del concreto essere umano, sforzandosi di vedere il suo mondo attraverso i suoi occhi. Ciò facendo, si aprono nuovi orizzonti e si getta nuova luce su argomenti quali il problema dell’Io, della volontà, della decisione; il concetto e l’esperienza di essere-nel-mondo; il significato del tempo, ecc.

Nel fare ciò Frankl parte dall’insoddisfazione per un’impostazione organicistico-causale, dall’affermazione inequivocabile della necessità di prendere in considerazione la “globalità” dell’uomo e dalla necessità di comprendere la “natura” di tale globalità. In tal modo la logoterapia si è venuta a proporre come un’alternativa, ma anche come un completamento, spesso in aperta contrapposizione, delle formulazioni freudiane e adleriane per quanto riguarda sia l’interpretazione della vita psichica che la concezione antropologica sottostante.

Frankl riconosce il valore della psicoanalisi, essendo fuori dubbio che nello studio delle nevrosi e delle loro cause Sigmund Freud ha offerto un preciso e sostanzioso contributo; contemporaneamente, però, egli afferma che la psicoanalisi «dovrà [...] condividere il destino di qualunque fondamento, cioè a dire, diventerà invisibile per tutta la misura in cui l’edificio si ergerà su di esso» (Senso e valori per lesistenza, p. 26). Se infatti il grande merito di Freud è quello della concretezza, dell’oggettività, che ha permesso alla psicologia di allinearsi tra le scienze della natura, il coraggio freudiano è poi slittato nella riduzione dell’essere dell’uomo a pura fatticità psicofisica, considerando tutte le attività psichiche e le manifestazioni ad esse collegate come derivazioni, per lo più inconsce, da forze primordiali, anch’esse inconsce e latenti.

L’assunzione del metodo delle scienze naturali come strumento adeguato alla comprensione dell’uomo ha così condotto Freud all’oggettivazione della soggettività e alla riduzione dell’uomo a pura effettualità biologica e psicologica. In tal modo l’organismo psichico è risultato scomponibile in elementi primordiali e irriducibili, e l’essere dell’uomo, sradicato dal suo mondo e stralciato dalla situazione in cui è immerso, negato nella sua apertura e nel suo autotrascendersi, è stato colto come esteriorità pietrificata, come “dato”. La sua struttura fondamentale di “essere-nel-mondo” è stata ridotta alla condizione della “cosa semplicemente-presente”; il conoscere scientifico è risultato essere una conoscenza esteriore che nega l’uomo in quanto essere reale; e la visione dell’uomo così ricavata è diventata un’astrazione postulata sul fondamento di supposizioni teoretiche.

È stato partendo da tali presupposti riduzionistici che la psicoanalisi ha elaborato una visione meccanicistica, atomistica, energetica, che vede nell’uomo “nient’altro che” l’automatismo di un apparato psichico spadroneggiato dall’Es (la parte più istintiva dell’inconscio freudiano) e finisce per trascurare e ignorare l’umanità dei fenomeni. Ed è chiaro che per l’orizzonte freudiano, alla cui base è collocata l’assolutizzazione dell’inconscio, il centro della nevrosi è situato nella rimozione, nel tentativo di dimenticare un fatto, un’idea, alcune esperienze che hanno una carica affettiva particolarmente indesiderata, disgustosa o penosa; il sintomo nevrotico è considerato una minaccia all’Io conscio e lo scopo dell’intervento terapeutico è quello di esplorare l’inconscio per rendere consci gli elementi turbolenti che si agitano in esso, così da rendere il paziente consapevole delle motivazioni della sua condotta, collegate in forma assoluta alla soddisfazione del principio del piacere.

Una “concezione veramente storica” dell’uomo, invece, la si ricava ponendosi nell’atteggiamento metodico di chi, libero da schemi riduttivi precostituiti, intende cogliere nella sua immediatezza e originarietà l’esistenza che di continuo esplica se stessa e, attraverso questo continuo divenire, illumina il fondo del suo essere. «Il secolo passato — scrive Frankl — ed i primi decenni del presente hanno fornito dell’uomo una immagine del tutto sfigurata; hanno visto l’uomo costretto da molteplici legami ed hanno in particolare sottolineato la sua impotenza a sottrarsi ad essi, in una parola la sua determinazione biologica, psicologica e sociologica. Ma la libertà umana, vera e propria, la capacità dell’uomo di porsi liberamente di fronte a tutte queste determinazioni, quella libertà che appunto fonda l’essenza umana, è stata completamente ignorata» (Logoterapia e analisi esistenziale, p. 57). L’uomo infatti, prima ancora di essere, decide ciò che è, ossia si declina in esistenza. «Per essenza l’uomo è aperto al mondo. Essere uomo significa andare al di là di se stessi. L’essenza dell’esistenza umana si trova nel proprio autotrascendimento. Essere-uomo vuol dire essere sempre diretto verso qualcosa o verso qualcuno. Tale autotrascendimento sorpassa di gran lunga una visione monadologistica dell’uomo, secondo la quale questi non tenderebbe a valori o a significati che lo superano, e quindi non sarebbe orientato verso il mondo» (ibidem, p. 54).

Altrettanto riduttiva quanto quella freudiana risulta, a parere di Frankl, l’interpretazione psicologica di Alfred Adler secondo la quale se l’individuo non raggiunge lo scopo che si prefigge, ossia il farsi valere, entra in disagio psichico tutta la sua personalità e sorge la nevrosi che non sarebbe altro che una reazione morbosa al sentimento di inferiorità provocato dalla frustrazione della volontà di potenza. Compito del terapeuta, allora, è quello di rendere il paziente responsabile dei suoi sintomi e capace di adattamento e di sforzo ricostruttivo della propria personalità, così da affermarsi sul piano della comunità. Ebbene, se alla psicoanalisi di Freud si attaglia la virtù dell’oggettività, alla psicologia individuale di Adler va assegnata quella del coraggio: in tutto il procedimento psicoterapeutico, infatti, essa in fin dei conti non vede altro che il tentativo di incoraggiamento, allo scopo di favorire il superamento del complesso di inferiorità e il raggiungimento dell’equilibrio interiore che si realizza mediante l’adattamento dell’individuo alla “realtà” o alla “società”.

L’ambiente, però, a cui l’essere umano deve adattarsi è, nella prospettiva adleriana, ma anche in quella freudiana, soltanto qualcosa di “dato”, una realtà precostituita, preformata, in sé conclusa. Radicalmente estranea alla condizione umana, la realtà si pone come l’assolutamente altro dell’uomo e costituisce la negazione della possibilità umana di “progettarsi” nel mondo e di declinarsi in esistenza. L’assunzione del mondo come “dato” implica, quindi, il disconoscimento dell’uomo come entità formante e, di conseguenza, il disconoscimento del carattere di unicità e di singolarità dell’esistenza umana.

L’analisi esistenziale conduce, invece, Frankl ad asserire che «la [...] realtà [dell’uomo] è una “possibilità”, il suo essere un “poter-essere”. Egli non è per ciò che attualmente è, ma, perché ha un divenire, ha la possibilità di mutarsi da ciò che è attualmente. Essere-uomo significa essere-facoltativamente, non essere-fatalmente» (ibidem, p. 120). L’uomo è, nella sua essenza, storicità e non semplice espressione di natura; quindi è e resta formatore del mondo e della società. Il concetto di società, in tale contesto, si enuclea come «un compito che il singolo deve assolvere tra e con gli altri» (ibidem, p. 115), come il luogo delle sue possibilità uniche e irripetibili, per cui «il senso dell’esistenza umana supera gli stessi confini della persona, per inserirsi in quelli più ampi della comunità» (ibidem, p. 114).

Si evidenzia, in tal modo, il carattere di reversibilità della relazione che si instaura tra il singolo e la società. Infatti, «non è soltanto l’esistenza del singolo che abbisogna della comunità per acquistare un pieno significato; anche la comunità ne acquista dalla presenza e dall’azione del singolo» (ibidem, p. 115), da cui consegue che il riconoscimento e la giustificazione della società come compito che l’uomo è chiamato a risolvere si fonda su una visione antropologica, libera da pregiudizi ancorati a presupposti dottrinali di stampo riduzionista.

IV. Una visione dell’uomo libera da pregiudizi

Ponendosi in atteggiamento critico nei confronti sia della teoria freudiana che di quella adleriana, Frankl ha elaborato allora una nuova Weltanschauung che combatte l’homunculismo che innerva tutti i settori della scienza, specialmente la biologia, la psicologia e la sociologia, e si traduce in una nuova psicoterapia che si muove al di là del complesso di Edipo e del complesso di inferiorità, considerando l’intera esistenza umana nelle sue dimensioni fisico-psichico-spirituali.

La sua visione antropologica, ponendo l’accento sulla ricerca da parte dell’uomo del significato della sua esistenza, evidenzia poco alla volta alcuni concetti-chiave: l’uomo è una unità, un tutto psico-fisico-noetico, un essere caratterizzato dalla singolarità, dall’irripetibilità, dalla relazionalità, dalla finitudine; egli, inoltre, è soggetto a condizionamenti, ma conserva una qualità esclusivamente umana che gli permette di prendere un atteggiamento dinanzi ai limiti ambientali, biologici, psicologici; una tale libertà, infine, va legata intimamente alla responsabilità: l’uomo è “libero da...” e allo stesso tempo è “libero per...”, ossia è responsabile nei riguardi dell’individuazione e della realizzazione dei valori e del compito della propria esistenza.

Nell’elaborare la sua antropologia, con la sua naturale traduzione in una metodologia per la diagnosi e il trattamento di specifici disturbi psichici, Frankl non è rimasto isolato. Notevole sostegno ha avuto da parte di Rudolf Allers e di Oswald Schwarz. Validissimi spunti di riflessione gli sono venuti dal confronto con il pensiero di Ludwig Binswanger, di Martin Buber, di Karl Jaspers e, soprattutto, di Max Scheler. Ma una provocazione e una conferma non indifferenti ha ricevuto dalla tragica esperienza vissuta nel periodo di internamento nei lager nazisti.

Quali le fondamentali caratterizzazioni antropologiche alla base della logoterapia? Frankl introduce espressamente la nozione di intenzionalità, al fine di definire la struttura fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto esistente. In prospettiva intenzionale, infatti, l’esistenza umana è vista nel continuo superamento, nell’apertura all’essere: «l’essenza dell’esistenza umana si trova nel proprio autotrascendimento» (ibidem, p. 54). Il senso della tensione viene interpretato come dialettica tra l’essere di fatto e il dover-essere, tra l’essere e il significato. In tal modo il significato, nella sua evidente superiorità nei confronti dell’essere, si rivela come «guida dell’essere» (ibidem, p. 104). In altri termini, l’essere umano si scopre immerso nella radicale finitudine, ma nello stesso tempo avverte la tensione a trascendere il limite che lo determina. L’esigenza della trascendenza viene, in tal modo, vissuta come insoddisfazione, inquietudine e, quindi, come richiamo insistente a divenire ciò che ancora non si è. Questo significa che il divenire, insito nella tensione esistenziale, si configura come atto di scelta o di rifiuto nei riguardi di un significato oggettivo. Solo l’apertura al significato e al valore consente di orientare la propria intenzionalità verso la partecipazione alla pienezza dell’essere a cui si aspira. L’esistenza umana si prospetta, allora, come incessante tensione, come rinuncia a un equilibrio fisso, come disponibilità a riconoscere e ad accogliere le concrete possibilità di realizzare dei valori.

In tale prospettiva emerge con chiarezza l’ammissione di una dimensione spirituale, distinta dalla dimensione psichica. «Ciò che è dello spirito è irriducibile alla categoria dello psicologico e si sottrae ad ogni misura» (ibidem, p. 42). La componente spirituale, definita come esistenzialità e come personalità, costituisce per Frankl l’essenza della persona umana ed è sostanziata da contenuti di significato spirituale, i quali soltanto consentono all’uomo di attuarsi in quanto esistente. Nel caratterizzare l’elemento fondamentale della spiritualità, Frankl riconosce che «il sentimento esistenziale può essere molto più perspicace che non sia sagace e penetrativa la facoltà razionale» (Teoria e terapia delle nevrosi, p. 183). Appare evidente il richiamo alle ragioni del cuore che la ragione non sa intendere perché «noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i princìpi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnare la certezza» (B. Pascal, Pensieri, n. 144). Il cuore, nell’accezione pascaliana, altro non è se non la funzione spirituale del pensiero, e le riflessioni di Frankl si immergono decisamente in tale contesto.

Si comprende, a questo punto, come le considerazioni in merito alla struttura intenzionale della condizione umana richiamino il discorso sulla libertà e, in immediato collegamento, quello sulla responsabilità, in quanto il poter-essere si relaziona essenzialmente al dover-essere. Il “dovere” di un essere umano implica riferimento a un “significato”, al significato della sua esistenza concreta, e la responsabilità risulta diretta all’attuazione di un compito liberamente assunto. In altri termini, l’esistenza assume significato quando l’uomo, realizzando il passaggio dalla «vuota ricchezza del mondo della possibilità alla povertà intensa dell’accettazione del suo essere storico» (P. Prini, Storia dellesistenzialismo, Roma 1971, p. 109), si rende responsabile della sua situazione temporale e la riscatta mediante l’apertura alla trascendenza.

V. Essere e poter-essere

In tale contesto si comprende la centralità attribuita da Frankl alla libertà nella struttura dell’essere personale. «L’uomo è libero: il che non significa ch’egli oscilli liberamente e si libri in uno spazio vuoto. È stretto al contrario da moltissimi legami: ma sono proprio questi i punti di appoggio su cui si erge la sua stessa libertà: che non li ripudia affatto, ma anzi continuamente vi si riferisce. Lo spirito è legato alla materia, all’esistenza e alla sostanza. Ma non si tratta di relazioni di dipendenza. L’uomo nel suo andare trascende il terreno su cui avanza; ed in questa trascendenza il terreno viene ad assumere il significato di un trampolino di lancio.Luomo può essere definito un essere che sa liberarsi anche da ciò che lo determina (cioè le determinazioni biologiche, psicologiche, sociologiche che ne fanno un “tipo”); un essere insomma che, mentre vince o dà una forma singolare a tutte le sue determinazioni, in pari tempo si sottopone ad esse» (Logoterapia e analisi esistenziale, pp. 119-120). L’esistenza in tal modo si esplica e si costituisce nella tensione continua verso la liberazione, una liberazione che si fa progetto e diviene futuro. «Se l’uomo perde il suo futuro, la vita stessa si dissolve nella sua struttura» (ibidem, p. 140). Il che vuol dire che è solo la libertà, nel suo orientamento verso il futuro, a consentire all’uomo di realizzarsi attraverso il progetto.

Ciò posto, si coglie immediatamente che la realtà dell’uomo è una possibilità, il suo essere un poter-essere. Il possibile viene così riconosciuto e definito come struttura dell’essere-uomo, e l’atto di libertà con cui l’uomo progetta se stesso consiste essenzialmente nello svolgere le possibilità implicite nella sua esistenza. Il divenire, allora, si configura sul piano esistenziale come attuazione della libertà in quanto possibilità. L’atto della scelta costituisce la realtà che, scaturendo dal possibile, si definisce come il mutamento che comporta il divenire. Ora, ciò che è possibile può risolversi nell’essere come nel nulla e si coglie, immediatamente, il carattere di caducità delle possibilità che «si eclissano se non vengono realizzate» (ibidem, p. 123). La decisione, infatti, mentre conferisce esistenza reale ad alcune possibilità, implica necessariamente la condanna al non-essere di infinite altre.

Frankl afferma, a questo proposito, che «in ogni attimo realizzo una possibilità e non un’altra. Ogni attimo infatti racchiude in sé migliaia di possibilità, ma io non posso sceglierne che una sola se voglio realizzarla [...]. Ciò ch’io realizzo e faccio mediante il mio decidere, io lo salvo nella realtà e lo conservo per sempre» (ibidem, p. 71). In questo senso ogni scelta presuppone la nullificazione e l’annientamento delle possibilità non scelte e non concretate in realtà, e implica il rischio di escludere dall’essere delle possibilità di significato singolare per l’esistenza personale. Si prospetta, in tal modo, la radicale finitezza del poter-essere. La struttura di un essere possibile si costituisce nell’attuazione continua del suo fondamentale poter-essere. Ma non si esaurisce in ciò che è divenuto attuale. L’imperfezione dell’uomo si delinea e si esprime nell’essere essenzialmente tensione, instabilità, processo. Ciò vuol dire che nel fondo costitutivo dell’uomo è radicata una costante incompiutezza, che è condizione assoluta perché egli possa esistere. E quindi ogni atto di scelta tra le molteplici possibilità che si offrono in una situazione personale e storica richiama la fondamentale possibilità in cui si sostanzia l’essenza stessa dell’uomo.

La libertà umana, in questo suo articolarsi come apertura e come progettazione, viene a cozzare contro il limite insuperabile del suo essere letteralmente “gettata nel mondo”, in una situazione che è singolare e irripetibile. «Ciò che l’uomo deve fare è sempre legato all’hic et nunc, alla concretezza di una determinata situazione» (ibidem, p. 78). Da ciò discende l’essenziale problematicità dell’esistenza umana. Infatti, la temporalità conferisce il carattere di precarietà e di instabilità, il che consente a Frankl di enunciare tale massima: «Vivi come se tu dovessi incominciare a vivere per la seconda volta; e avessi sbagliato la prima volta, proprio così come sei in procinto di fare» (ibidem, p. 110). La libertà è originariamente carica di angoscia poiché, mentre «l’uomo in nessun momento della sua vita può sottrarsi alla costrizione di scegliere tra le varie possibilità che gli si offrono» (ibidem, p. 120), inevitabilmente è costretto ad assumere l’incertezza e il rischio connessi a ogni atto di scelta. «Se da una parte la coscienza lascia l’uomo nell’incertezza di aver trovato il vero significato, dall’altra parte egli non deve sottrarsi al rischio che corre nell’aderire ad essa» (ibidem, p. 80).

VI. Senso della vita, responsabilità e coscienza

L’esistenza si enuclea, quindi, come incontro tra la determinazione finita della situazione e l’originaria infinita apertura ontologica. Incontro che diviene compito, appello, problematizzazione. E questo per tutti e per ognuno, in una dimensione talmente personalizzata che sfugge a qualsiasi generalizzazione. La ricerca del significato profondo della propria esistenza risulta, ed è effettivamente, il dinamismo primario.

«Il problema del significato della vita — avverte Frankl — è una questione tipicamente umana, anche se non sempre è chiaramente ed esplicitamente formulata nei suoi termini. Il porre in dubbio che la propria vita abbia un senso non dev’essere considerato di per se stesso come qualcosa di morboso: è invece espressione dell’esser-uomo, di ciò che nell’uomo vi è di più umano» (Logoterapia e analisi esistenziale, p. 61). Dinamicamente protesa verso un significato, la vita dell’uomo si struttura lentamente, nel rischio e nell’angoscia quotidiana, in una continuità unitaria. Ogni esperienza vissuta diventa significativa solo se rapportata al tutto unitario dell’esistenza e, quindi, solo se integrata in un significato. Infatti l’uomo, pur essendo una realtà situata nel tempo e definita dalla possibilità, è in tensione verso ciò che lo trascende come compito e come appello. Si rivela, così, nella sua essenza profonda, come impegno e come fedeltà verso ciò che deve essere salvato dal naufragio del tempo: la presenza attiva della scelta riscatta dalla precarietà e dalla dissoluzione, trascende il tempo e si pone come fedeltà che dura. E questo indipendentemente dall’età e dal grado di formazione, dalla specificazione sessuale maschile o femminile, come pure dal fatto che qualcuno sia religioso o meno e, se egli si professa religioso, indipendentemente dalla confessione alla quale riconosce di appartenere.

«Chi sa di avere uno scopo nella vita, un compito — asserisce Frankl —, ha in mano un valore ineguagliabile, sia dal punto di vista psicoterapico che dell’igiene mentale. Additare un compito ad un uomo è quanto di più adatto ci possa essere per fargli vincere ogni difficoltà interiore e ogni disgusto. Tanto meglio se questo compito è stato scelto dalla persona stessa che è in causa, tanto meglio se si tratta di una missione» (ibidem, p. 92). Splendono così e si chiarificano la singolarità e l’irripetibilità, come momenti costitutivi essenziali del significato. Dimensioni, queste, talvolta vissute nella drammatizzazione angosciante e paralizzante, in un disagio per il mondo della mondanità che impedisce l’azione. E il discorso scivola sulla massificazione, sull’annullamento nell’ambito della “chiacchiera” e del “si dice”, sull’abdicazione totale degli eterni e grandi ideali dell’uomo e dell’umanità. «Il compito che un uomo deve assolvere nella sua vita è in fondo sempre indicato e non è mai in sostanza inadempibile. La logoterapia si propone di far sentire agli uomini la loro responsabilità di fronte al concreto compito cui sono chiamati; e di dire ad essi che più sentiranno la loro vita come compito, tanto più essa apparirà loro significativa. Chi non è consapevole di questo dovere, accetta la vita come puro e semplice fatto; chi lo conosce, l’assume come consegna» (ibidem, p. 98).

Questo fatto richiama la responsabilità dinanzi alla propria coscienza: ma, perché ciò possa avvenire, è necessario che «la coscienza sia qualcosa di più del proprio io» (Dio nellinconscio, p. 54). Essa cioè è un fenomeno che trascende il puro essere-uomo: la conversazione dell’uomo con la sua coscienza deve essere un dialogo, e non un monologo. Solo a questa condizione essa può guidare alla scoperta dei significati racchiusi nelle singole situazioni. La coscienza, allora, richiama ciò che trascende l’uomo, ciò che si situa in una sfera di impenetrabilità e di inaccessibilità. La coscienza non è, come solitamente viene detto, quell’istanza che ci parla, che con la sua voce interiore e silenziosa ci guida nel rispondere ai compiti della vita. Essa è piuttosto già una voce, la voce della trascendenza. E se la coscienza è la voce della trascendenza, la conversazione dell’uomo con essa si trasforma in un vero dialogo, il cui interlocutore invisibile è un essere che supera il livello umano. La coscienza viene così ad assumere una duplice prospettiva: da una parte ci trasmette il messaggio che il trascendente ci invia, e dall’altra rappresenta la risposta al colloquio dell’uomo con il suo Dio. Infatti, se si concepisce la vita come una risposta a compiti specifici affidati all’uomo, e quindi una risposta ad una interrogazione fattagli in precedenza, la voce della coscienza viene ad essere proprio la risposta che si dà ad ogni impegno, e rappresenta perciò la risposta che si dà nel colloquio con Dio.

Ciò comunque non vuol dire che l’uomo ascolti sempre il dettame della sua coscienza: egli può benissimo reprimerla, così come è avvenuto in casi tragici. L’esempio di Hitler è indicativo per tutti gli altri. Se la coscienza è legata all’uomo, risente ovviamente della sua finitezza, partecipando in tutto alla precarietà delle sue situazioni contingenti (cfr. Logoterapia e analisi esistenziale, p. 79). Ma questo fatto ci dice che la possibilità di errori della propria coscienza implica la possibilità di giustezza della coscienza altrui: essa esige soprattutto un rispetto per la coscienza di un altro. Essere tolleranti vuol dire non giudicare l’agire altrui, perché non si sa se questi effettivamente in quel determinato momento segue la voce della “sua” coscienza (cfr. ibidem, p. 80).

La portata terapeutica di tale fatto è enorme: non è permesso in alcun modo al terapeuta influenzare le convinzioni e la visione della vita del paziente. Il neutralismo nel giudicare gli altri deve essere portato anche nell’ambito della relazione interpersonale che sorge tra l’uomo angosciato e colui al quale si rivolge per ricevere conforto, aiuto, sostegno. Il terapeuta non deve approfittare del clima di fiducia e di comprensione per influire sulle idee del paziente. Il rispetto della individualità implica l’assenza assoluta di qualsiasi intervento indebito. Tuttavia, ci sono dei casi-limite in cui il terapeuta non deve restare attaccato al suo neutralismo, e questo dipende dall’acutezza del singolo, che è capace di captare l’occasione per aiutare il sofferente a prendere un giusto atteggiamento di fronte alle situazioni più tragiche della vita. La regola d’oro in ogni psicoterapia, secondo Frankl, è quella di evitare in qualsiasi modo di imporre al paziente la propria Weltanschauung. «Nessun logoterapeuta ha mai affermato di avere la risposta pronta per ogni problema. Non fu un logoterapeuta bensì “il serpente” dell’Eden a promettere alla donna: “Tu diventerai come Dio, capace di conoscere il bene e il male”» (Senso e valori per lesistenza, p. 80).

Se la coscienza è la capacità intuitiva di scorgere il significato di una situazione, essa è anche una capacità creativa: la coscienza cioè può spingere l’uomo ad agire in un determinato modo che contrasti dei valori e delle convinzioni generalmente accettate e condivise dalla società. Non sempre cioè le regole sono adatte a risolvere situazioni concrete intricate: a volte è necessario superare delle norme, magari agendo in modo contrario a quanto prescrivono gli stessi comandamenti. In tale prospettiva, la coscienza viene ad essere uno strumento di progresso umano, perché riesce a vedere delle verità nuove dietro quelle vecchie (cfr. ibidem, p. 77).

VII. Dio nell’inconscio

La consapevolezza della propria responsabilità nel rispondere sempre e comunque all’appello rivolto dalla vita viene vissuta da alcuni nella dimensione della trascendenza, che fonda e giustifica la percezione del compito unico e originale. «È questa la condizione dell’homo religiosus, che è consapevole e responsabile del suo tempo terreno come dono e come introito alla conoscenza di Dio» (Logoterapia e analisi esistenziale, p. 96). In tale prospettiva la vita diviene trasparente e si verifica una sorta di “rivoluzione copernicana”: «l’uomo non ha nulla da chiedere: è piuttosto lui stesso l’interrogato, colui che deve rispondere alla vita, di cui è responsabile. E le risposte dell’uomo non possono essere che concrete risposte, a concrete domande; si fondano sempre sulla responsabilità connessa all’esistere, giacché è appunto soltanto esistendo che l’uomo può rispondere all’appello» (ibidem, p. 98).

Il punto di sutura tra l’appello a un significato e la fede dell’uomo viene da Frankl individuato nell’espressione di Albert Einstein, secondo cui «chiedersi quale significato abbia la vita vuol dire essere religioso» e che può essere completata da un’analoga espressione di Paul Tillich, che dice: «essere religioso vuol dire porre appassionatamente la domanda sul senso della nostra esistenza» (Dio nellinconscio, p. 95). Diversamente Freud, per il quale «nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati…» (S. Freud, Lettere 1873-1939, Torino 1960, p. 402), mentre «ci si potrebbe arrischiare a considerare la nevrosi ossessiva come un equivalente patologico della formazione religiosa, e a descrivere la nevrosi come una religione individuale e la religione come una nevrosi ossessiva universale» (S. Freud, Azioni ossessive e pratiche religiose, in Opere, Torino, vol. V, 1979, p. 349). Eppure, «se Freud ha affermato che l’uomo spesso è non solo più immorale di quanto creda, ma anche più morale di quanto pensi, allora si potrebbe aggiungere: talvolta egli può anche essere più religioso di quanto sia disposto ad ammettere» (Dio nellinconscio, p. 141).

Non sorprende, allora, se Frankl parla del «Dio inconscio», nel senso che «esiste una spiritualità inconscia, una moralità inconscia e una fede inconscia» (Alla ricerca di un significato della vita, p. 95). E la religiosità inconscia «non appartiene [...] alla sfera dell’inconscio impulsivo, ma a quella dell’inconscio spirituale. Io non sono spinto verso Dio, ma occorre che ogni volta mi decida pro o contro di lui. Non vi è istinto religioso, almeno nel senso in cui si potrebbe parlare “come di un istinto di aggressione”, e non vi è neanche – nell’interno della sfera della spiritualità inconscia – un istinto morale, nel senso in cui vi è un istinto sessuale, per non parlare della fede inconscia. Io non sono spinto dalla mia coscienza: succede piuttosto che davanti alla mia coscienza io mi debba ogni volta decidere» (ibidem, p. 96). E all’orizzonte della vita umana si delinea la realtà di un significato molteplice che stimola l’uomo ad agire, ad avventurarsi. «Dietro il Super Io dell’uomo non c’è l’Io di un Super Uomo, ma il Tu di Dio. Mai e poi mai la coscienza potrebbe essere una parola di forza nell’immanenza, se non fosse la parola-Tu della trascendenza» (Dio nellinconscio, p. 67).

Qui si chiarisce, per Frankl, la differenza tra l’uomo religioso e l’uomo non-religioso: il primo si pone a livello di trascendenza, vede la sua esistenza come un appello e un dono, e sente la responsabilità di rispondere ad un’istanza che non è se stesso (⁄ Religione, VI.1). Invece, «l’uomo irreligioso è colui […] che prende la coscienza nella sua fatticità psicologica: di fronte a un tale fenomeno puramente immanente egli quasi si ferma, sosta prima del tempo. Potremmo dire che considera la coscienza come l’ultima istanza di fronte a cui essere responsabile. […] Egli è giunto per così dire a una cima immediatamente inferiore alla vera vetta. Perché non procede oltre? Semplicemente perché non vuol perdere il “terreno sicuro sotto i piedi”. L’ultima cima, la più alta, si sottrae al suo sguardo, avvolta nella nebbia, ed in questa nebbia, in tale incertezza, egli non osa avventurarsi. Solo l’uomo religioso è capace di correre un simile rischio» (ibidem, p. 64). Rischio che costituisce un atto di fiducia radicale nel significato e nel sovra-significato, al di là delle piccinerie confessionali e delle miopie religiose che vorrebbero vedere in Dio un adescatore e un accaparratore di anime.

Una corrispondente della rivista americana Time chiese, nel corso di un’intervista a Frankl, se la tendenza attuale non portasse lontano dalla religione. Egli rispose dicendo che, a suo parere, «la tendenza di oggi non allontana dalla religione, bensì da quelle confessioni che sembrano non aver altro da fare che contrastarsi di continuo, sottraendosi reciprocamente i credenti» (ibidem, p. 96). La giornalista, allora, domandò se ciò volesse preludere all’avvento, prima o poi, di una religione universale. Egli rispose negativamente: «piuttosto che verso una religione universale, ci stiamo incamminando verso una religione personale — verso una religiosità profondamente personalizzata, partendo dalla quale ognuno scoprirà le parole più intime, più personali, più originali per rivolgersi a Dio. Ciò non vuol affatto dire che debbano scomparire rituali e simboli comuni. Del resto, c’è un’infinità di idiomi, e tutti hanno quale base comune il medesimo alfabeto. In un modo o nell’altro, le specifiche religioni, nella loro diversità, richiamano appunto i diversi idiomi; nessuno oserà proclamare che la propria lingua sia superiore alle altre. In ogni lingua l’uomo può giungere alla verità — all’unica verità —, così come in ogni lingua l’uomo può sbagliare, anzi anche mentire. Allo stesso modo, attraverso l’intermediario di ogni religione, l’uomo può giungere fino a Dio, fino all’unico Dio» (ibidem, pp. 96-97). Ed in tal modo Dio non rappresenta il significato ultimo dell’esistenza umana, ma si pone come la sorgente in cui l’uomo si costituisce nella sua esistenza personale. Ed il significato e i valori vengono vissuti e assunti nella propria esistenza in riferimento a Dio, inteso come la radice originaria e assoluta dell’autenticità di ogni essere personale.

L’esistenza umana si prospetta, allora, di nuovo come la risposta ad un “appello” che la vita rivolge di continuo e la realtà si configura come un insieme di indicazioni che devono essere riscoperte, come un complesso di valori che esigono di diventare “vocazione”. E la vita si rivela, nel suo significato più profondo, come disponibilità ad accogliere e a realizzare i compiti che emergono in ogni singola situazione. In questo senso l’esistenza personale assume valore soltanto se è “consacrata” e, quindi, consegnata ad una realtà che la trascende. In sostanza, l’intenzionalità vissuta verso il valore, avvertito come un compito da attuare, consente all’uomo «di porsi al di sopra di se stesso e di entrare come cittadino nel mondo dello spirito e di ciò ch’è attributo di questo mondo (e cioè, appunto, il valore). [...] Chi non è consapevole di questo dovere, accetta la vita come puro e semplice fatto; chi lo conosce, l’assume come consegna» (Logoterapia e analisi esistenziale, pp. 95-96).

VIII. Tre categorie di valori

Tale consegna trova realizzazione a molteplici livelli, secondo una gerarchia di valori che, partendo dal lavoro, passa attraverso l’esperienza artistica, culturale, amorosa e culmina nella sofferenza, come attività di creatività del significato più profondo. I valori che consentono all’uomo la realizzazione del significato dell’esistenza si incontrano, infatti, su una triplice direttiva: una linea di creatività, un’altra di esperienza ed un’altra di atteggiamento.

I valori creativi corrispondono all’attività concreta di un uomo, al suo modo di intervenire nelle forze del mondo per strutturarle e dirigerle verso il bene e la promozione. Tutto ciò che egli fa, che egli realizza nel suo piccolo ambito, gli permette di vivere in modo significativo e quindi in modo umano. Rispondere alla situazione con il proprio lavoro risulta essere un elemento di valore non solo in sé, ma anche in vista di un trattamento terapeutico. Bisogna infatti che l’uomo sia fermamente convinto che «nel cerchio della propria responsabilità, ognuno è insostituibile ed indispensabile» (ibidem, p. 153). Ed allora l’uomo deve vivere la realizzazione di un’opera come un compito vitale offertogli dalla vita. Il lavoro deve essere “amato” e non invece travisato. Questo vuol dire che ciò che interessa maggiormente non è tanto la concreta professione che si esercita, ma la prestazione che si fa. Nel lavoro ciò che conta è la dedizione concreta, l’intensità con cui ci si applica, e non il tipo di lavoro che si svolge, l’ampiezza di diffusione, il raggio di azione che può raggiungere tanti e non solo pochi. Non è tanto importante il “che cosa” ma il “come”.

La seconda categoria di valori riguarda ciò che l’uomo può prendere dal mondo, e quindi si riferisce non solo all’esperienza classica, che è quella amorosa, ma anche all’esperienza artistica, a quella filosofica, a quella letteraria. Percepire la bellezza della natura è uno dei modi migliori per trovare il significato della vita, e ne abbiamo una conferma nelle opere artistiche che cercano di fissare le immagini più affascinanti e più sconvolgenti dell’universo che abitiamo. Anche l’arte può consentire di vivere in pienezza i valori di esperienza. Per un appassionato di musica è certo una gioia il poter ascoltare una sinfonia gradita, il poter assistere ad un concerto, così come per l’alpinista il panorama scoperto dalla cima di un monte significa un godimento interiore di grande profondità. Tuttavia, l’amore costituisce la forma più alta dei valori di esperienza. Sappiamo infatti che nell’amore si coglie un “Tu” nella sua singolarità ed irripetibilità. E nello stesso tempo si percepisce in profondità l’orientamento di fondo della propria vita. Frankl presenta tre diverse concezioni dell’amore: quella sessuale, quella erotica e quella spirituale. La concezione sessuale è quella che comprende la persona amata nel suo aspetto esteriore, nella capacità che questa ha di eccitare la propria fantasia e la propria sensualità. La seconda concezione, quella erotica, permette di cogliere meglio l’altro nella sua personalità, appunto perché non si ferma solamente all’aspetto esteriore, ma si situa su un piano più alto, che coinvolge la persona nella sua emotività, nel suo carattere. Il vero amore procede oltre e attinge la persona spirituale profondamente e completamente nella sua personalità, unendosi a lei in pienezza spirituale e dicendole veramente: Tu. L’amore, se è vero ed autentico, non si ferma all’organismo psicofisico, ma attinge l’io profondo, la personalità della persona amata. L’amore supera la corporeità, anche se non la rinnega. Colui che ama intende il suo partner al di là delle pure impressioni fisiche o psichiche, sforzandosi di comprenderlo nella sua spiritualità. Non rinnegando il momento fisico ed erotico, Frankl ribadisce che esso è solo un mezzo di espressione e che l’amore, anche se inizialmente è suscitato dalle caratteristiche fisiche, sarà veramente tale quando verrà compreso come espressione della sua spiritualità.

L’ultima categoria dei valori, quelli di atteggiamento, si riferisce alle molte situazioni nelle quali, impossibilitati a realizzare valori creativi e di esperienza in conseguenza di una malattia inesorabile, coloro che aspettano di ora in ora la propria morte hanno ancora un’ultima possibilità di rendere significativa la propria esistenza. Il modo come essi si atteggiano davanti alla loro sofferenza inevitabile permette di realizzare al massimo grado il significato della vita. Per Frankl, infatti, nella sofferenza si manifesta la grandezza dell’uomo, perché solo nella sofferenza si trova tragicamente messo a confronto con se stesso, con la sua capacità non solo di lavorare e di godere, ma anche di soffrire. Ciò vuol dire che non c’è solamente l’homo faber, come viene asserito in una società basata sulla produzione e sulla creazione di beni di consumo. C’è anche l’homo patiens ilquale, dal punto di vista della produzione, non rappresenta un elemento di attività, ma di semplice e forse ingombrante passività. Ebbene, l’homo faber è colui che si muove sulla linea di un’etica del successo. Egli cerca di ottenere vantaggi sempre maggiori, ed è quindi un uomo che compete con gli altri per il proprio tornaconto. La sua vita si snoda tra due estremi: il successo e l’insuccesso. E questo in una direzione unica, quella orizzontale, perché diretta in avanti, verso possibilità di guadagno migliori. L’homo patiens invece si trova nella direzione opposta e le sue categorie si trovano in una posizione ortogonale rispetto all’etica del successo. Quando l’uomo sofferente si innalza al di sopra della situazione penosa in cui si trova, quando i suoi interessi vanno al di là del successo e dell’insuccesso, egli potrà trovare l’appagamento di sé anche nel fallimento più completo.

Quando le possibilità e i valori perduti non sono più umanamente recuperabili o sostituibili, quando la solitudine costringe un essere umano a rinchiudersi nel “deserto” della sua esistenza, in ultima analisi, quando il destino impone una sofferenza ineluttabile, la logoterapia si trova di fronte a situazioni che non è possibile in alcun modo contrastare e si risolve nella “cura medica dell’anima”, nettamente distinta dalla cura sacerdotale dell’anima. Si tratta, in ogni caso, di situazioni-limite, quali la sofferenza, la colpa e la morte, che risultano incarnate nella condizione umana e si collocano sul piano delle esperienze vissute, in quanto determinazioni decisive dell’essere umano. Ne consegue che la persona non può non prendere posizione di fronte a tali avvenimenti decisivi o rifugiarsi in un atteggiamento di indifferenza che sta, in ogni caso, a testimoniare una fuga e un tentativo di livellare a puri accadimenti degli eventi incisivi. In tali situazioni-limite all’uomo resta la possibilità di «saper patire il proprio destino come destino, in tutta la sua crudezza», concretando «la più grande possibilità» di inondare di senso il proprio vivere (Teoria e terapia delle nevrosi, p. 188).

E si comprende l’importanza che assume, sul piano psicoterapeutico, la prospettiva enunciata da Frankl da cui risulta che in molti casi di malattia psichica il metodo migliore perché i pazienti si pongano in modo idoneo di fronte alle loro sofferenze è quello di aiutarli a rappacificarsi con il loro destino. Infatti, sembra che sia proprio la continua lotta contro la condizione “creaturale” ad esasperare la sofferenza. Chi, invece, riesce ad accettarla, sia pure con difficoltà, è in grado di superare la prova più agevolmente. E nella realizzazione dei valori di atteggiamento si verifica un «cambiamento radicale di fronte alla vita, […] assunta come compito» (Logoterapia e analisi esistenziale, p. 252).

In tale prospettiva risulta che l’esistenza umana «“ha senso” fino al momento dell’ultimo respiro o almeno finché si è coscienti, finché si sente la propria responsabilità verso i valori, anche se questi alla fine possono limitarsi solo a quelli di atteggiamento: giacché il dovere, cioè il compito che la vita ci dà di comunque attuarne, non ci abbandona mai» (ibidem, p. 85). E questo anche dinanzi all’evento della morte, intesa non come un fatto obiettivo, estraneo, come un “comune accadimento”, ma assunta nella sua significazione esistenziale, «quale limite insuperabile alle nostre possibilità ed al nostro futuro» (ibidem, p. 109). E dinanzi alla morte resta solo il passato che, nella sua irrevocabilità, non può essere intaccato né dal tempo né dalla distruzione.

E alla luce della morte Frankl sottolinea che ogni possibilità realizzata è salvata e conservata per tutta l’eternità, per cui «l’essere-stato è un modo di essere, e forse la forma più sicura di essere, poiché niente e nessuno può derubarci di quello che abbiamo depositato nel passato. In generale gli uomini vedono solo il campo di stoppie della transitorietà. Quello che essi non vedono sono i granai ricolmi del passato. Nei granai hanno ormai messo al riparo il raccolto della loro vita, e niente e nessuno può cancellare quello che vi hanno depositato, riposto, custodito, conservato» (In principio era il senso, p. 80).

Non diversamente va detto a proposito della religiosità che costituisce l’esperienza della frammentarietà e della relatività sullo sfondo dell’assoluto, un assoluto però che non può essere affermato né descritto, perché nascosto nella trascendenza. «Per l’uomo religioso Dio è sempre trascendente, ma anche perennemente oggetto della sua intenzione» (Logoterapia e analisi esistenziale, p. 268). Egli cioè è il sempre silenzioso, ma anche il sempre invocato; è il mai pronunciabile, ma il già pronunciato. E, molto opportunamente, Frankl ribadisce che «finché esisto, esisto nella prospettiva dei valori e dei significati; finché esisto nella prospettiva dei significati e dei valori esisto per qualcosa che necessariamente mi supera in valore, per qualcosa che essenzialmente è di rango superiore al mio proprio essere. In altre parole: esisto rivolto non verso qualcosa, ma verso qualcuno, una persona che, trascendendo la mia stessa persona, deve essere una “sovrapersona”. Finché esisto, allora, esisto sempre per Dio» (Homo patiens, p. 177).

Bibliografia

Opere di Viktor E. Frankl: Psicoterapia nella pratica medica (1947), Giunti-Barbèra, Firenze 19744; Logoterapia e analisi esistenziale (1946), Morcelliana, Brescia 19774;Fondamenti e applicazioni della logoterapia (1969), SEI, Torino 1977; Teoria e terapia delle nevrosi (1956), Morcelliana, Brescia 19782; Psicoterapia per tutti. Conferenze radiofoniche sulla psichiatria (1971), Paoline, Milano 19862; Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanismo (1978), Città Nuova, Roma 19902; La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi (1977), LDC, Torino-Leumann 19923; Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici (1992), in “Chi ha un perché nella vita...”. Teoria e pratica della logoterapia, a cura di E. Fizzotti, LAS, Roma 19932, pp. 83-106; Sincronizzazione a Birkenwald, La Giuntina, Firenze 1995; In principio era il senso. Dalla psicoanalisi alla logoterapia (1986), Queriniana, Brescia 1995; La vita come compito. Appunti autobiografici (1995), SEI, Torino 1997; Senso e valori per l’esistenza. La risposta della Logoterapia(1969), Città Nuova, Roma 19982; Homo patiens. Soffrire con dignità (1949), Queriniana, Brescia 19983; Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata(1972), Mursia, Milano 19983; Uno psicologo nei Lager (1946), Ares, Milano 199911; Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione (1949), Morcelliana, Brescia 20004; Le radici della logoterapia. Scritti giovanili 1923-1942, a cura di E. Fizzotti, LAS, Roma 2000.

Principali opere su Frankl: J. FABRY, Introduzione alla logoterapia, Astrolabio, Roma 1970; E. FIZZOTTI, La logoterapia di Frankl. Un antidoto alla disumanizzazione psicanalitica, Rizzoli, Milano 1974; IDEM, Angoscia e personalità. L’antropologia in Viktor E. Frankl, Dehoniane, Napoli 1980; F. BELLINO, Idea dell’uomo e scienze umane. Antropologia e ontologia dimensionale nella Existenzanalyse di V.E. Frankl, in Centro Studi Filosofici di Gallarate (a cura di), “Il problema dell’antropologia”, Gregoriana, Padova 1980, pp. 179-195;T. BAZZI, E. FIZZOTTI, Guida alla logoterapia. Per una psicoterapia riumanizzata, Città Nuova, Roma 1986;E. LUKAS, Dare un senso alla famiglia. Logoterapia e pedagogia, Paoline, Milano 1987; E. FIZZOTTI, Logoterapia, in Quale psicoterapia?, a cura di S. Marhaba e M. Armezzani, Liviana, Padova 1988, pp. 77-81; P. DEL CORE, Giovani, identità e senso della vita. Contributo sperimentale alla teoria motivazionale di V. Frankl, EDI OFTES, Palermo 1990; E. FIZZOTTI, R. CARELLI (a cura di), Logoterapia applicata. Da una vita senza senso a un senso nella vita, Salcom, Brezzo di Bedero 1990; E. LUKAS, Dare un senso alla vita. Logoterapia e vuoto esistenziale, Cittadella, Assisi 19913; IDEM, Prevenire le crisi. Un contributo della logoterapia, Cittadella, Assisi 1991; E. FIZZOTTI, A. GISMONDI, Il suicidio. Vuoto esistenziale e ricerca di senso, SEI, Torino 1991; E. FIZZOTTI (a cura di), «Chi ha un perché nella vita...». Teoria e pratica della logoterapia, LAS, Roma 19932; E. FIZZOTTI, I. PUNZI, Solidarietà come ricerca di senso. Il contributo della logoterapia nella formazione del volontario, Salcom, Brezzo di Bedero 1994; E. LUKAS, Dare un senso alla sofferenza. Logoterapia e dolore umano, Cittadella, Assisi 19953; E. FIZZOTTI, A. GISMONDI (a cura di),Giovani, vuoto esistenziale e ricerca di senso. La sfida della logoterapia, LAS, Roma 19982; E. FIZZOTTI, Per essere liberi. Logoterapia quotidiana, Paoline, Milano 19982; IDEM, Sulle tracce del senso. Percorsi logoterapeutici, LAS, Roma 1998; W. VIAL MENA, La antropología de V. Frankl, Editorial Universitaria, Santiago de Chile 2000;M. MARINELLI, L’irresistibile desiderio di un significato. Frankl e la riumanizzazione della relazione terapeutica, “Attualità in logoterapia” 2 (2000), n. 1, pp. 7-26.