Hildegard Von Bingen (1098 - 1179)

Anno di redazione
2002

I. La vita, la personalità e le opere - II. L’essere umano e il suo posto nel cosmo - III. La fede e la conoscenza.

I. La vita, la personalità e le opere

Ildegarda di Bingen nasce a Bermesheim, nell’Assia Renana, da una nobile famiglia della Franconia; i genitori, Ildebrando e Metilde, la offrono ancora bambina a Dio come decima – era la loro decima figlia – e la affidano a Jutta di Sponheim, che nel 1112 si ritira sul monte di s. Disibodo (Disibodenberg), accanto al monastero benedettino fondato tra il VI e il VII secolo, per vivere da eremita insieme con alcune compagne.

Nel 1136 Jutta muore in fama di santità. Ildegarda le succede e regge con forza e dolcezza una comunità che intanto sta aumentando di numero. Tra il 1147-1150 lascia il Disibodenberg per fondare, alla confluenza del fiume Nahe con il Reno, il monastero di Rupertsberg: dalla solitudine dell’eremo al punto di raccordo delle più importanti vie di comunicazione, dalla periferia al centro. Nel 1165 fonda un secondo monastero ad Eibingen sulla riva opposta del Reno, quasi dirimpetto al primo. Umilissima e consapevole dei limiti della sua formazione teologica e letteraria, si trova ben presto, a motivo dei doni mistici e della sua singolare saggezza, ad essere ricercata per consiglio da persone di ogni condizione, che non solo dalla Germania, ma anche da altri paesi si rivolgono a lei; mantiene corrispondenza con i Pontefici Eugenio III, Anastasio IV, Adriano IV e Alessandro III.

Sempre di salute cagionevole e spesso gravemente malata, affronta faticosi viaggi per visitare monasteri che chiedono il suo aiuto e predicare pubblicamente a Treviri ed a Colonia contro il malcostume e contro l’eresia dei Catari. Il suo ultimo anno di vita è gravemente provato dall’interdetto lanciato contro il monastero di Rupertsberg, durante l’assenza del vescovo di Magonza, dal clero della città a lei ostile, a motivo della sepoltura concessa nel cimitero del convento ad un giovane scomunicato, che prima di morire si era riconciliato con la Chiesa. Ildegarda vi si sottomette, pur soffrendo assai per la privazione della S. Messa e dell’Ufficio Divino, fino a che la correttezza del suo procedere viene riconosciuta e l’interdetto revocato. Muore al Rupertsberg il 17 settembre 1179. Sebbene non sia stato istruito alcun processo canonico formale, il culto nei confronti di Ildegarda era già diffuso nel XIII secolo. Nel 1916, una memoria liturgica di santa Ildegarda viene inserita ufficialmente nel calendario liturgico dell’Ordine Benedettino per il giorno 17 settembre e, a partire dal 1961, viene introdotta nel Martirologio Romano.

Ildegarda ebbe sin dall’infanzia un’esperienza di Dio del tutto singolare. «Dall’infanzia godo del dono della visione nella mia anima, ed ora ho già più di settant’anni» (Epistolarium, 103R, p. 261). E nelle sue note autobiografiche che si trovano nella Vita Sanctae Hildegardis, scritta da Goffredo di Disibodenberg e Teodorico di Echternach, dice: «Fino a che raggiunsi i quindici anni fui come chi vede tante cose e di queste il più lo racconta semplicemente […]; perché io vedevo nell’intimo dell’anima mia molte cose, pur continuando ad aver presente quel che era al di fuori di me» (Vita, II, 2, p. 23).

Nella lettera di risposta al monaco Guibert de Gembloux, che chiedeva di essere meglio informato sulla visione, di cui tanto aveva sentito parlare, Ildegarda cerca di darne per quanto può una descrizione: «In questa visione l’anima mia sale fino all’altezza del firmamento. E quel che vedo non lo percepisco con gli occhi esteriori, e quel che odo non lo sentono gli orecchi esteriori né io lo avverto con i pensieri del mio cuore o per mezzo dei miei cinque sensi. Io lo vedo unicamente nell’anima mia, mentre gli occhi del corpo rimangono aperti, sicché mai ho perduto i sensi in un’estasi, ma da sveglia vedo tutte queste cose […]. La Luce che io vedo non è legata allo spazio ed è molto più luminosa di una nube che porta in sé il sole. E come il sole, la luna e le stelle si rispecchiano nell’acqua, così nella visione vengono per me evidenti, in piena luce, scritti, discorsi, forti impulsi ed alcune opere fatte dagli uomini» (Epistolarium, 103R, p. 261, sul “modo della sua visione”). Ed aggiunge: «Tutto quello che nella visione vedo ed apprendo, io lo conservo per lungo tempo nella memoria, perché penetra nella mia mente non appena lo vedo e lo ascolto. Quel che vedo ed ascolto, al tempo stesso anche lo so; e quasi al momento stesso apprendo perfettamente quanto so. Quel che non vedo neppure lo so, perché sono indotta» (ibidem, pp. 261-262).

Dell’avvenimento che segnò una svolta determinante nella sua vita ci informa Ildegarda stessa nella Protestificatio, l’introduzione della sua prima opera, il Liber Scivias (il cui titolo proviene probabilmente dalla contrazione della frase «Conosci le vie del Signore»: Scito vias Domini), in quanto vuole essere una testimonianza a favore della assoluta autenticità delle sue visioni. Nel 1141 le appare la “Luce Vivente” (questo è il nome che lei dà alla visione) in una luminosità mai vista prima di allora e le ordina di scrivere quanto vede ed ode con i sensi dello spirito, perché gli uomini ne prendano conoscenza. È la chiamata a quella che sarà da allora in poi, sino alla fine della vita, la sua missione, ed insieme segna l’inizio della sua attività letteraria. Convinta della sua incapacità ad assolverla, ne è sgomenta, e solo dopo un primo deciso rifiuto e un successivo periodo di incertezza dà, quasi costretta da Dio, il suo consenso ed incomincia la prima redazione dei testi, che letti ed approvati nel 1147-1148 da Papa Eugenio III (1145-1153), allora al sinodo di Treviri, verranno a far parte del libro Scivias. A rassicurarla sull’origine della visione e sulla missione affidatale era pure valsa l’autorità di Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), cui si era rivolta per consiglio.

Ildegarda riconosce apertamente di essere indotta: lei è, sa di esserlo e non lo nasconde, una persona semplice (homo simplex). Le sue opere nei manoscritti dello scrittorio di Rupertsberg del XII secolo, non portano mai il suo nome, ma solo l’indicazione di essere le opere di una persona semplice (ad es.: Liber Scivias simplicis hominis). «Non ho avuto l’insegnamento di maestri». «Nessuno mi ha insegnato a scrivere». «Una donna senza cultura mi ha fatto da maestra». «Nulla so che io abbia appreso dall’insegnamento di maestri umani» dice Ildegarda. Dio si rivolge a lei e la chiama così: «O tu, miserabile terra e, nella tua qualità di donna senza alcuna cultura, incapace di leggere gli scritti degli scienziati e dei filosofi» (Scivias, II, visio 1, p. 111). Le esposizioni sul Salterio, sui Vangeli e sugli altri libri dell’Antico e Nuovo Testamento le apprende d’improviso –repente – come leggiamo nella Protestificatio; altre notizie al riguardo le abbiamo nei ricordi autobiografici riportati nella Vita. Nella risposta alla lettera di Guibert de Gembloux dice: «Non so di latino. Lo scrivo senza conoscere esattamente le desinenze dei verbi e dei nomi e l’uso dei casi. Quel che vedo lo metto per iscritto in latino, come posso, con parole non limate, perché nella visione non mi viene insegnato a scrivere come scrivono i filosofi» (Epistolarium, 103R, p. 262). Sa solo quel che ha visto nella visione. Per lei vedere equivale a comprendere, nel senso che quel che vede le si imprime nell’intelligenza e nella memoria con assoluta chiarezza. Per Ildegarda, «vedere» è la parola che sta a fondamento del conoscere, come sua risultante e insieme come riprova, in quanto nella sua semplicità e chiarezza offre qualcosa di indiscutibile e di evidente. Vidi et intellexi: vidi e compresi. Queste parole, o espressioni analoghe, tornano innumerevoli volte, come introduzione o conclusione delle sue visioni.

Ildegarda, semplice e indotta, apprezza la scienza che studia la Sacra Scrittura ed interpreta la parola di Dio. Guarda ai dotti con ammirazione, ricorda l’intelligenza dei filosofi, la loro prudenza nell’attingere la sapienza dai testi della Scrittura, i sapienti che trassero da questa il contenuto per le loro opere. Ricorda l’insegnamento degli antichi filosofi che erano in amicizia con Dio. Nello Scivias giunge a parlare di Dio, nel suo linguaggio simbolico, chiamandolo un «grande filosofo», il «cosí grande filosofo». Può ben darsi che la voce «filosofo» sia qui usata nel senso più generico di «sapiente», come spesso accadeva in molti autori del suo tempo; certo è però che, con essa, Ildegarda vuol indicare la massima autorità per sapienza e scienza. Ildegarda ricorda volentieri l’opera degli studiosi, dottori e maestri: essi resero fruttuoso per l’intelligenza il seme del Vangelo e fecero accessibili ai fedeli le oscurità dei testi della Legge e dei Profeti; indagatori profondi della Parola di Dio, furono validissimi ed instancabili nell’approfondire quanto nella Scrittura era ancora sotto sigillo (cfr. Scivias, III, visio IV, p. 397). La loro sapienza contrasta con la sua ignoranza: lei, semplice e indotta, può solo comprendere le esposizioni dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.

A giudicare dai suoi scritti, a questo primo inizio deve essere seguita ben presto una conoscenza approfondita dei testi dei Padri e Dottori della Chiesa e di altri autori sacri. Mancano però assolutamente dati che permettano di riferirsi con una certa sicurezza alle fonti: nelle opere di Ildegarda è sempre Dio che parla e la Sua parola non ha bisogno di conferma da parte degli uomini. Le uniche citazioni letterali, numerose e sempre esatte, sono quelle della Sacra Scrittura. Ciò che Ildegarda scrive è frutto di profonda riflessione e di un ripensamento di quanto può essere venuta a conoscere, sia per averne sentito parlare o per averlo ascoltato nelle prediche, sia per averlo letto; ed è sempre un adattamento a quanto sta meditando e scrivendo che richiede, di volta in volta, alcune modifiche ed una formulazione nuova. Nelle sue opere riporta non solo pensieri che troviamo nei Dottori della Chiesa latina e presso altri autori che godevano di grande autorità, da Isidoro di Siviglia (560-636) a Rabano Mauro (776-856), ma anche di autori molto letti al suo tempo, come ad es. Ruperto di Deutz, Ugo di San Vittore ed Onorio d’Autun. Ildegarda si mostra cauta nell’interpretazione di temi sub iudice e non si allontana mai dall’insegnamento della Chiesa, sola garante della retta e cattolica fede, alla quale guarda con assoluta fedeltà.

Un altro fatto singolare contrasta con le sue asserzioni di ignoranza: nei suoi scritti ci imbattiamo in vocaboli che troviamo documentati solo presso autori non molto conosciuti, quali, per citarne alcuni, Etico Istro, Asclepio, Claudiano Mamerto, Costantino Africano, Filastrio, come pure presso il più famoso Calcidio. Di alcuni di questi autori Ildegarda avrebbe potuto venire a conoscenza tramite i monasteri di s. Massimino e di s. Eucario in Treviri, con i quali era in amicizia, e nelle cui biblioteche, come risulta dai cataloghi a noi pervenuti, c’era una grande varietà di opere anche rare.

Nell’introduzione al “Libro dei meriti di vita” (Liber vitae meritorum, 1158-1163), la seconda grande opera dopo lo Scivias, Ildegarda elenca gli scritti composti nel periodo che va dal 1151, fine dello Scivias, al 1163. Essi sono: un trattato di scienze naturali e di medicina (Subtilitates naturarum diversarum creaturarum), una raccolta di canti ed una sacra rappresentazione (Symphonia harmoniae caelestium revelationum, Ordo virtutum), una raccolta di lettere (Responsa et admonitiones tam minorum quam maiorum plurimarum personarum), l’elenco di quasi mille vocaboli di una lingua ignota con il rispettivo alfabeto (ignota lingua et litterae), lettere con alcune esposizioni (litterae cum quibusdam expositionibus), sotto il cui nome si intendono probabilmente le 58 esposizioni dei Vangeli delle Domeniche e di alcune Feste (Expositiones evangeliorum) e vari scritti minori, come: la “Spiegazione della Regola di s. Benedetto” (Explanatio Regulae Sancti Benedicti), la “Spiegazione del Simbolo di s. Atanasio” (Explanatio Symboli Sancti Athanasii); la “Vita di s. Disibodo” (Vita Sancti Disibodi) e la “Vita di s. Roberto” (Vita Sancti Ruperti); le “Soluzioni delle trentotto questioni” su argomenti riguardanti per lo più la Sacra Scrittura (Solutiones triginta octo quaestionum). Non abbiamo l’originale del Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, di cui ci sono pervenute redazioni più tarde, mentre la parte riguardante le scienze naturali è stata divisa da quella sulla medicina; possediamo così, giunte per tradizioni diverse, due opere: l’una, la più ampia, con il titolo di “Fisica” (Physica); l’altra sotto quello di “Cause e cure” (Hildegardis causae et curae). Della numerosa corrispondenza sono rimaste 390 lettere.

La terza grande opera della cosidetta Trilogia, e senz’altro la più significativa ed importante, in cui Ildegarda mostra la piena maturità del suo pensiero e la straordinaria ricchezza delle sue conoscenze, è il “Libro delle opere divine” (Liber divinorum operum), che va anche sotto il titolo di “Libro dell’operare di Dio” (Liber de operatione Dei). Nel capitolo introduttivo ne viene datata la composizione (1163-1170), ma la redazione finale deve essere stata più tarda. Ildegarda, insicura delle sue conoscenze di grammatica latina, faceva rivedere i suoi scritti dal monaco Volmaro, perché ne correggesse gli eventuali errori, e nel 1175, alla morte del fedele segretario, aveva ancora bisogno di aiuto per poter portare a termine l’opera. Lei stessa ricorda in seguito con riconoscenza i nomi di coloro che furono pronti a prestarglielo.

II. L’essere umano e il suo posto nel cosmo

Quando parla di “scienza”, Ildegarda si riferisce per lo più alle opere dei Padri della Chiesa o di autori sacri. Per quanto le sue opere testimonino una vasta conoscenza di scienze naturali, di medicina e di astronomia, ella non nomina mai le fonti; la scienza umana sembra interessarla solo in quanto mezzo per conoscere la grandezza e perfezione dell’opera di Dio nell’universo. Invece ella torna di continuo, in tutte le opere, sulla scienza del bene e del male, riportandosi al versetto della Scrittura (cfr. Gen 3,22): Adamo è diventato come uno di noi conoscendo il bene ed il male — sciens bonum et malum — e ripete senza stancarsi che l’uomo ha la scientia boni et mali, la conoscenza del bene e del male, e con questa la libertà di scelta. Ha bisogno di entrambe, ed avendole non gli manca nulla: con la scienza del bene ama Dio con le buone opere; con la scienza del male lo teme quando compie le opere del male. Averne una sola non gli gioverebbe, perché allora sarebbe quasi incompleta, non potendo iniziare o condurre a termine niente, né discernere la luce del giorno dalle tenebre della notte. Per questo, anche l’uomo è “come il giorno” quando fa il bene, e “come la notte” quando fa il male (cfr. Liber divinorum operum, I, visio IV, c. 71, p. 202). Egli è responsabile di ogni sua decisione, cioè della risposta che Dio attende da lui, sia al bene come al male: al bene per una conferma, al male per un rifiuto. L’uomo è al bivio: «O uomo — così ella scrive nello Scivias — poiché sei memore del bene e del male, sei posto come ad un bivio […]. Considera pure che ti è stato insegnato, e che quindi lo sai, di dover evitare il male ed operare il bene» (I, visio IV, c. 30 p. 87). La scientia mali, come già accennato, ha pure una funzione positiva di far conoscere, e quindi evitare, il male. Intelligenza e scienza sono state date all’uomo, perché ne faccia un uso responsabile: ammonizioni di Dio, a questo proposito, ritornano ripetutamente negli scritti della Santa.

Ildegarda ricorda come privilegio unico dell’uomo, insieme alla scienza del bene e del male, la razionalità (rationalitas). La voce ratio, ragione, è usata da Ildegarda con molto minore frequenza della voce rationalitas. La ratio è soprattutto qualità di Dio in sé; Egli è ignea ratio, ragione che è fuoco consumante. Con la parola razionalità – e qui si intende la razionalità increata, quella di Dio – Ildegarda vuole indicare il Principio divino nell’amore con cui conosce se stesso e si esprime, cioè l’Essere divino trinitario nella sua triplice e dinamica diversità; la razionalità vorrebbe spiegare, per così dire, sia l’intima vita di Dio che la creazione dell’universo. Razionalità è pensiero che comporta un’espressione, una parola. L’espressione della razionalità di Dio è il suo Verbo, perché è proprio della razionalità il non restar chiusa in se stessa, ma comunicarsi. Mentre la razionalità di Dio è increata, quella dell’uomo è creata; grazie ad essa, egli è l’unica creatura che possa esprimersi con la parola e gli è resa possibile la conoscenza delle cose celesti e terrestri. Nell’uomo la razionalità dà luce, è come la pupilla degli occhi. E la razionalità stessa — dice Ildegarda — ha due occhi, cioè la scienza del bene e del male (cfr. Liber divinorum operum, I, visio IV, c. 31, p. 167; c. 53 p. 179). La razionalità produce, dispone e discerne tutto quanto all’uomo è stato dato da Dio, perché non vi è nulla che essa non penetri e distingua con assoluta esattezza (cfr. Liber Vitae Meritorum, II, c. 26, p. 85). Con la razionalità l’uomo partecipa di Dio, della Sua igna vis, della sua forza di fuoco.

A motivo della razionalità, Ildegarda riconosce all’uomo un posto speciale nel mondo: egli vi si trova nel centro ed è omnis creatura, il microcosmo, il piccolo mondo, che ha in sé gli elementi che compongono l’universo; l’uomo è anche per lei medietas atque adunatio, come dice Giovanni Scoto Eriugena (sec. IX) (cfr. De divisione naturae, II, 9), riportando un pensiero di Massimo il Confessore. Medietas, perché la terra, un globo arenoso in mezzo agli elementi, è al centro del mondo (in medio sedet) e nel suo centro sta l’uomo: adunatio, perché ha in sé tutti gli elementi. Posto tra cielo e terra, in medio caeli et terrae egli può operare il bene e il male. Con il capo, con le mani e con i piedi, tocca il firmamento; ha in mano gli elementi e li muove come chi tiene in mano una rete (cfr. Causae et curae, I, pp. 18-19). Egli stesso è in questa rete ed ha parte delle vicissitudini di quanto lo circonda, ed in quanto dotato di razionalità, è responsabile di sé e dell’universo.

Dio ha formato il mondo «al modo di un fonditore che ha una sua forma e con quella fa i suoi vasi». Ildegarda studia e analizza le facoltà dell’uomo, l’anima e il corpo, e le mette in rapporto con la struttura dell’universo, riscontrandovi in senso figurato un’analogia che descrive attentamente (cfr. Liber divinorum operum I, visio IV, passim). Benché ora al centro dell’universo, l’uomo non ne è però il centro; anch’egli è una creatura tra tutte le altre. Come di ogni oggetto si vede l’ombra che esso origina, così pure è per l’uomo: egli è ombra, l’ombra di Dio. L’ombra dimostra l’esistenza di una realtà che l’ha prodotta: l’uomo dimostra l’esistenza di Dio Onnipotente, ma è appunto un’ombra, perché ha un inizio. Dio invece non ha né inizio né fine: se l’armonia celeste è specchio della Divinità, l’uomo è lo specchio di tutte le opere mirabili fatte da Dio nel creato (cfr. Causae et curae, II, p. 65).

Per Ildegarda, Dio chiama l’uomo «cielo e terra». Quando Dio creò il cielo e la terra, vi pose al centro l’uomo perché egli ne fosse il signore e vi esercitasse il suo dominio. Egli è il signore della creazione, ma non per disporne a piacimento: mentre la regge, al tempo stesso ne dipende. Ha bisogno di essa non solo per vivere, ma anche per compiere l’opera che gli è stata affidata da Dio, nel realizzare la quale egli mostra la sua somiglianza con Dio. L’uomo vive degli elementi della natura e gli elementi della natura “rispondono” a seconda di come l’uomo li utilizza. Quando egli non agisce secondo la legge di Dio, contaminando con la sua azione gli elementi naturali, Dio dà ascolto al loro lamento, li purifica, castigando per mezzo loro chi li ha insozzati. L’uomo è per Ildegarda la più eccellente opera di Dio, opus plenum, opus operis Dei, ma la visione che ella ha del cosmo non è antropocentrica: è Dio ad esserne il centro. Il cosmo è visto sempre in rapporto a Dio; e l’uomo, in scambievole dipendenza con gli elementi del cosmo, dipende anch’egli da Dio.

La scienza è per Ildegarda una conoscenza che non può limitarsi a nozioni teoriche, astratte: essa deve entrare in relazione con la vita sotto ogni sua forma. La prima scienza dell’uomo riguarda la conoscenza di sé: «conosci te stesso!», conoscenza che deve precedere quella del cosmo e degli altri uomini.

Nello Scivias, la mistica parlerà di «tre vie» presenti nell’uomo: l’anima, il corpo e il senso. L’anima – scrive Ildegarda con linguaggio immaginifico – ha due “braccia”: l’intelletto e la volontà. L’intelletto è infisso all’anima come il braccio al corpo ed è capace di comprendere ciò che è bene e ciò che è male. La volontà è quasi come il suo braccio destro: con essa mette in movimento tutto il corpo, eseguendo ogni tipo di opera, buona o cattiva. La volontà ha poi nel cuore, nell’intimo dell’uomo, per così dire, una tenda, un tabernacolo. La ragione è come il “suono” dell’anima nell’intelletto e nella volontà, alla quale propone ogni sua opera. L’anima fa udire il suono della ragione nell’intelletto dell’uomo, permettendogli di condurre ogni opera al suo fine.

Il corpo è visto come la tenda e quasi il “punto di appoggio” dell’uomo; fino a quando rimane nel corpo, l’anima opera con esso, ed il corpo con lei, sia per il bene che per il male. L’uomo possiede inoltre il “senso”, la sua facoltà interna che riceve le impressioni esterne, a disposizione della quale stanno, come organi esterni, gli strumenti dei cinque sensi. Tra anima e corpo c’è però uno stretto legame. L’anima è, per così dire, la maestra, mentre il corpo è la sua ancella. L’anima regge il corpo e gli comunica la vita; il corpo si sottomette agli ordini dell’anima ricevendo da lei la vita: senza l’opera dell’anima, il corpo verrebbe a disgregarsi e a dissolversi. Quando l’uomo compie il male, e lo fa con piena avvertenza dell’anima, ciò risulta per l’anima così amaro, come lo è il veleno per il corpo. Ma con una buona azione l’anima si rallegra, come fa il corpo quando prende un cibo che gli piace (cfr. Scivias, I, visio IV, cc. 18-24, pp. 79-83). Ma non per questo Ildegarda disprezza il corpo umano, che ha il merito di porre l’anima in relazione con il mondo esterno attraverso i sensi. Il corpo è fatto di terra e questa è, per gli esseri viventi, come una madre; ma è l’uomo intero, anche in quanto animato dalla razionalità e dallo spirito di intelligenza, che Ildegarda vede fatto di terra; la terra è la materia dell’opera di Dio nell’uomo e l’uomo è la materia dell’umanità pura e santa del Figlio di Dio, dato alla luce dalla Vergine senza macchia (cfr. Liber Vitae Meritorum, IV, c. 21, p. 184).

È dovere dell’uomo conoscere il compito che gli è stato assegnato nel mondo. Così come gli angeli, l’uomo ha il compito di lodare Dio, lode che egli rende al Creatore anche attraverso le opere buone. Se per la lode che dà a Dio l’essere umano è associato da Ildegarda agli angeli, per le buone opere che egli compie si rivela il valore della sua umanità: in tal modo l’uomo viene ad essere l’opera perfetta, l’opus plenum di Dio (Liber Vitae Meritorum, V, c. 77, p. 257).

L’uomo deve conoscere le sue attitudini ed inclinazioni naturali. Solo così potrà agire decidendo in piena libertà quale indirizzo dare alla propria vita: nessuno può farlo al suo posto e nessuno può, tanto meno, costringervelo (cfr. Scivias, II, visio V, cc. 45-46, pp. 213-214). Nell’ambito che gli è dato dal suo essere creaturale, egli è libero. Limite della sua libertà è la sua natura, la libertà delle altre creature, ma prima di ogni altra cosa la legge di Dio; alla disciplina della legge, cioè alla sua osservanza, l’uomo si assoggetta per fede e liberamente.

Deve conoscere il mondo, in cui è nato e deve vivere, e che gli è stato affidato da Dio perché lo conservi. Egli è signore del mondo, costituito da Dio, ma non ne è il despota. La sorte del mondo è nelle sue mani. Deve conoscere il pensiero di Dio su di lui. Ancor prima della creazione del mondo, l’uomo era già presente nel pensiero di Dio. Ildegarda ricorda spesso nelle sue opere il “consiglio di Dio” (o la sua decisione), qualificandolo con gli aggettivi di grande, segreto, divino consiglio: un consiglio “antico”, perché preso prima dell’inizio dei tempi e dei secoli. L’antico consiglio è la decisione che Dio prende in merito all’incarnazione del Verbo e alla redenzione dell’uomo, che per Ildegarda, come per il suo contemporaneo Ruperto di Deutz (1075-1129), antecede la creazione e la caduta dei progenitori: con essa Dio vuole entrare nella storia del mondo per portare all’uomo la salvezza. Volontà di una storia di grazia che richiede una libera risposta. La storia della salvezza è la storia di una lotta tra il bene ed il male, incominciata con la ribellione del primo angelo e la sua conseguente caduta, lotta che durerà fino alla fine dei tempi. Di questa lotta il Verbo fatto carne ha alzato le insegne, il vessillo dalla sua santa croce; egli ha già vinto, ma continua a combattere accanto all’uomo e lo farà fino alla sconfitta completa del nemico (cfr. Liber Vitae Meritorum, I, cc. 20-22, pp. 21-22).

Nato da una negazione — la negazione di Dio — il male è il nulla, nihil: non è sorto per opera di Dio, ma ha avuto inizio dall’“antico serpente”. Ildegarda, che riserva al Prologo del Vangelo di s. Giovanni un posto speciale nella sua opera, ne legge in alcuni passi il versetto 1,3b così: et sine ipso factum est nihil (e senza di Lui, senza Dio, fu fatto il nulla). Il nulla ha la sola proprietà di negare (cfr. Causae et curae, I, p. 5), sicché anche le creature che vi si associano si riducono a nulla. L’uomo può prendere parte alla lotta per contrastare chi si oppone a Dio, milita nella fede, sostiene dure battaglie nell’anima e nel corpo, combattendo per Dio e con Lui la grande lotta contro il male come il più forte, il più glorioso ed il più santo dei soldati.

III. La fede e la conoscenza

La fede è anch’essa una scienza, la “scienza” delle realtà interiori e di quelle divine, una scienza capace di comprendere queste ultime meglio di ogni altra scienza (cfr. Liber divinorum operum, I, visio I, c. 11, p. 55). Per mezzo della fede si conosce Dio (Liber Vitae Meritorum, III, c. 39, p. 147; Liber divinorum operum, I, visio II, c. 27, p. 88 e I, visio IV, c. 49, p. 183). La vera fede è “retta”, “pura”, “integra”, “stabile”; è “cattolica”. Ancora: è “luce”, “occhio”, “chiarezza” e “splendore abbagliante” (candor), e nel tempo stesso è “ombra”: tende sempre ad un nuovo rispecchiarsi in Dio, per giungere a conoscerlo sempre meglio. Cos’è dunque la fede? L’uomo che grazie alla scienza conosciuta con il suo “occhio interiore” riesce a vedere ciò che all’occhio esteriore rimane nascosto, ed in ciò non dubita, questi ha la fede: così Ildegarda nella terza visione del secondo libro dello Scivias. Nell’ottava visione del terzo libro della stessa opera, l’autrice rappresenta la fede come una virtù che, insieme alle altre, discende in figura umana tra gli uomini, assieme all’umanità di Cristo Salvatore, per ritornare poi nuovamente in alto con la Sua divinità; ha una collana di color rosso sanguigno intorno al collo, perché caratteristica della fede è la fermezza, la forza e la perseveranza nel testimoniare la fedeltà a Dio fino all’effusione del sangue.

In un’altra immagine la fede è come un monte, ai cui piedi sta una roccia immensa, simbolo del timore di Dio: perché la fede è congiunta alla stabilità del timor di Dio, come il timor di Dio lo è alla fortezza della fede. Per opera del Figlio di Dio, mandato dal Padre, in tale visione la vera fede germinava rigogliosa; fondamento di ogni buona opera, essa nasce insieme ad altre virtù dal timore di Dio, per giungere poi fino a toccare Dio nella sua inaccessibile altezza. Ildegarda paragona ancora la fede ad uno specchio, speculum fidei, riportandosi alle parole dell’Apostolo: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa» (1Cor 13,12). Con l’occhio della fede si vede come ogni creatura tenda al suo Creatore, e che questo movimento non è mai concluso, così come non lo è l’atto di fede, perché mai Dio può essere completamente compreso dall’uomo. La fede tende ad un continuo rispecchiarsi in Dio, per giungere a conoscerlo sempre meglio.

Il maggior ostacolo alla fede è dato dalla dimenticanza di Dio, dal non cercarlo, dall’oblivio cordis di chi si dirige a guardare soltanto le creature, come se esse potessero dare quel che davvero abbisogna. Per credere bisogna saper guardare in se stessi e vedere il mondo. «Non abbiamo mai visto Dio», dicono alcuni. «Ma Dio si rivela nella grandezza e nell’armonia del creato: non si vede forse Dio nell’avvicendarsi del giorno e della notte? Non lo si vede nel seme, che gettato nel solco viene irrorato dalla pioggia sicchè germina?». E perché non cercare nelle Scritture chi è il Creatore? (cfr. Liber Vitae Meritorum, 3, c. 2, pp. 124-125, 29).

Dio si vede con il volto della fede e ci si unisce a Lui con l’abbraccio della carità. Chi pretende di procedere oltre ai limiti segnati dalla propria natura, non raggiunge la sua meta. «Alza il dito e tocca le nubi». «Ma ciò non è possibile!». Così pure è impossibile raggiungere quel che all’uomo non è dato di conoscere (cfr. Scivias III, visio X, c. 5, p. 550). Non si raggiunge Dio con il solo desiderio, ma è necessario il serio impegno della vita, senza pretendere di disporre di Lui a proprio piacimento, ma formulando il fermo proposito di servirlo (ibidem, c. 6, p. 551).

La fede vuole che l’intelletto giunga a quella chiarezza che gli è resa possibile dalla sua natura. Fede ed intelletto collaborano senza mai sostituirsi. Due occhi ha l’uomo per vedere Iddio: la scienza e la fede. Vedere rappresenta per Ildegarda la prima fase del comprendere. Le verità della fede si rendono visibili all’occhio interiore e l’intelletto cerca di esporre quanto ha visto e di darne ragione. Nella visione contemplativa che le è propria, Ildegarda riveste i concetti della filosofia con un linguaggio vivo e li esprime appunto per mezzo di immagini, alle quali premette sempre un “quasi” o un “come”, ad indicare che quanto è venuta a conoscere nella visione non può essere reso adeguatamente con le parole.

Il valore del cosmo, come quello di ogni singolo essere creato, ha per lei un fondamento teologico. Il suo pensiero non si rivolge in maniera esclusiva all’essere delle cose in sé, a ciò che appartiene alla loro natura, ma vede ognuna in rapporto con il suo fine ultimo: tutte vengono da Dio e a Lui ritornano. La sua può essere considerata una filosofia dell’essere e risponde ad una ragione metafisica: non esistono per lei degli esseri creati che abbiano un valore indifferente. Ogni essere ha una sua verità, è un verum, perché l’eterna verità ha posto in esso un pensiero che deve realizzarsi nell’ordine assegnatogli dal Creatore. Nell’insieme delle cose create ogni creatura rappresenta un bene, come immagine di quel Bene assoluto, dal quale essa procede ed al quale ritorna. L’unico Essere vero è Dio, che è l’unica vera vita. Vita ed essere sono per Ildegarda un tutt’uno. «Io sono la vita perfetta — le dice Dio — ed ogni altro essere vivente sulla terra ha in me la sua origine». Nel parlare di Dio, Ildegarda usa in maniera equivalente i termini “vita” ed “essere”, e se preferisce il primo al secondo, ciò può forse avere la sua ragione nel fatto che considera Dio come qualcosa di vivente, di dinamico, come pienezza di vita (cfr. Urgrund, 1938, pp. 19-20). Dio è Vita e Verità; e la Verità è torre e baluardo, inespugnabile fortezza contro le insidie mortali del demonio (cfr. Scivias, III, visio VI, c. 31, pp. 454-455).

Ognuna delle tre maggiori opere di Ildegarda, e non solo la prima, Conosci le vie del Signore, sembra proporsi di far conoscere queste vie. Nel libro Scivias viene esposto il piano di Dio: la creazione dell’uomo e dell’universo, l’opera della salvezza, che viene continuata dalla Chiesa e dallo Spirito Santo che guida gli uomini e li aiuta nel cammino di ascesa verso Dio con la forza delle virtù. Nel Liber vitae meritorum vengono descritte le astuzie dei vizi per sedurre gli uomini ed al tempo stesso viene svelata la loro malizia e falsità. Infine, nel Liber divinorum operum l’uomo si vede messo in relazione con l’intero universo. Scienza e fede gli indicano la via: la razionalità e l’intelletto cercano il Dio vivo ed anelano a Lui (cfr. Scivias II, visio V, c. 40, p. 208).

 

Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Giovanni Paolo II, Lettera al Vescovo di Mainz in occasione dell’800° anniversario della morte di s. Ildegarda, 8.9.1979, Insegnamenti II,2 (1979), pp. 271-272.

 

 

 

Bibliografia

Opere di Hildegard von Bingen: Nella raccolta del Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis, Brepols, Turnhout, che utilizziamo per i riferimenti alle opere di Ildegarda nel testo, sono apparse: Hildegardis Scivias, voll. 43-43A, 1978; Hildegardis Bingensis Epistolarium, Pars Prima, vol. 91, 1991; Pars Secunda, vol. 91A, 1993; Hildegardis Liber Vitae Meritorum, vol. 90, 1995; Hildegardis Bingensis Liber divinorum operum, vol. 92, 1996; Vita Sanctae Hildegardis, vol. 126, 1993; inoltre: Hildegardis Bingensis: Causae et curae, a cura di P. Kaiser, Tebner, Leipzig 1903 (ne esiste una rist. Basler Hildegard-Gesellschaft, Basel 1980). Sanctae Hildegardis abbatissae Opera omnia, a cura di J.-P. Migne, PL 197, Paris 1855 (rist. 1882); Analecta Sanctae Hildegardis, in “Analecta Sacra Spicilegio Solesmensi”, vol. VIII, a cura di J.B. Pitra, Typis Sacri Montis Casinensis, Montecassino 1882 (contiene varie opere); CETEDOC, Thesaurus Hildegardis Bingensis I, Brepols, Turnhout 1998. La bibliografia su ILDEGARDA DI BINGEN può trovarsi in: Hildegard von Bingen, Internationale Wissenschaftliche Bibliographie, Gesellschaft für Mittelrheinische Kirchengeschichte, Mainz 1998. Fra le traduzioni in lingua italiana: Ildegarda di Bingen, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, Mimesis, Milano 1998; Il centro della ruota. Spiegazione della Regola di San Benedetto (con testo critico latino), Mimesis, Milano 1997; Ordo virtutum: il cammino dell’anima verso la salvezza, a cura di Negarine di s. Pietro in Cariano, Verona 1999. Inoltre: Ildegarda di Bingen, Rivelazioni divine, a cura di S. Di Meglio, Messaggero, Padova 1993.
Altre opere: H. LIEBESCHÜTZ, Das allegorische Weltbild der heiligen Hildegard von Bingen, B.G. Teubner, Leipzig 1930 (rist. 1964); M. URGRUND, Die metaphysische Anthropologie der Heiligen Hildegard von Bingen, Aschendorff, Münster 1938; B. WIDMER, Heilsordnung und Zeitgeschehen in der Mystik Hildegards von Bingen, Helbig & Lichtenhahn, Basel 1955; O. D'ALESSANDRO, Mistica e filosofia in Ildegarda di Bingen, Cedam, Padova 1966; R. VAN DOREN, Ildegarda di Bingen, “Biblioteca Sanctorum”, Città Nuova, Roma 1966, vol. VII, coll. 762-766; A.Ph. BRÜCK (a cura di), Hildegard von Bingen, 1179-1979, Festschrift zum 800 Todestag, Gesellschaft für Mittelrheinische Kirchengeschichte, Mainz 1979; M. Klaes, Zu Schau und Deutung des Kosmos bei Hildegard von Bingen, in “Kosmos und Mensch”, a cura di A. Führkötter, Vertriebstelle beim Bistumsarchiv, Mainz 1987, pp. 37-115; F. CHAVEZ ALVAREZ, Die brennende Vernunft, Studien zur Semantik der “rationalitas” bei Hildegard von Bingen, Frommann Holzboog, Stuttgart 1991; S. FLANAGAN, Ildegarda di Bingen. Vita di una profetessa, Ed. Le Lettere, Firenze 1991; P. DRONKE, Platonic-Christian Allegories in the Homilies of Hildegard of Bingen, in “From Athen to Chartres”, a cura di J. Haijo, Brill, Leiden 1992, pp. 381-396; R. Schiller, Le cure miracolose di suor Ildegarda, Piemme, Casale Monferrato 1994; A. CARLEVARIS, Scripturas subtiliter inspicere subtiliterque excribrare, in “Tiefe des Gotteswissens. Schönheit der Sprachgestalt bei Hildegard von Bingen”, a cura di M. Schmidt, Frommann Holzboog, Stuttgart 1995, pp. 29-48;R. PERNOUD, Storia e visioni di Santa Ildegarda. L'enigmatica vita di un'umile monaca del Medioevo che divenne confidente di papi e imperatori, Piemme, Casale Monferrato 1996; E. FORSTER (a cura di), Hildegard von Bingen. Prophetin durch die Zeiten. Zum 900. Geburtstag, Herder, Freiburg 1997; M. ZÖLLER, Gott weist seinem Volk seine Wege. Die theologische Konzeption des “Liber Scivias” der Heiligen Hildegard von Bingen (1098-1179), Francke Verlag, Tübingen 1997; C. BURNETT, P. DRONKE (a cura di), Hildegard of Bingen. The Context of her Thought and Art, The Warburg Institute, London 1998; A. CARLEVARIS, Ildegarda e la Patristica, in ibidem, pp. 65-80; M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI (a cura di), Ildegarda di Bingen. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.