I. Settecento, Illuminismo, Enciclopedismo: significato di una sinonimia - II. Il progetto di Diderot e d’Alembert nel contesto dell’enciclopedismo settecentesco - III. La voce Dieu dell’Encyclopédie - IV. Voltaire: la ragione di fronte a Dio e al problema del male - V. Osservazioni conclusive.
L’Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (28 voll., Paris 1751-1772; suppl. in 5 voll., Amsterdam 1776-1777) fu la titanica impresa tentata da alcuni tra gli spiriti più rappresentativi dell’Illuminismo francese che catalizzò il meglio della cultura del XVIII secolo intorno all’idea di una sistemazione scientifica e razionale dell’intero sapere. Movendo dalla convinzione, espressa nel Discours préliminaire dell’opera (1751), che le «idee, che si acquistano attraverso la lettura e la società con gli altri, sono il germe di quasi tutte le scoperte», si venne a radunare intorno a Denis Diderot (1713-1784) e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) un coacervo di menti che prese il nome di “Società delle genti di lettere” e che al suo interno vide personaggi delle più diverse estrazioni e posizioni culturali. L’idea comunque era così forte e coinvolgente che la travagliata opera dei philosophes segnò l’intero secolo al punto che, in uno sguardo retrospettivo, tutto il Settecento viene sovente interpretato come il secolo dei lumi, il secolo dell’enciclopedismo.
I. Settecento, Illuminismo, Enciclopedismo: significato di una sinonimia
Lungi dall’essere un fenomeno regionale, l’Illuminismo (Aufklärung, Philosophie des lumières, Enlightenment, Illustración) è un complesso movimento filosofico e spirituale europeo che a un’atmosfera comune affianca interessi ed esiti diversi e spesso contrastanti. Pur nella varietà delle soluzioni, principalmente l’Illuminismo si propone di fugare coi lumi della ragione le tenebre dell’ignoranza, della superstizione e del pregiudizio, stabilendo come acquisizione definitiva del pensiero occidentale l’affermazione della capacità della ragione di ordinare il mondo con le sue sole forze, unitamente alla presa di coscienza non pessimistica dei limiti intrinseci dell’uomo. Sebbene siano diverse le direzioni in cui si è sviluppato — al punto che al suo interno possono trovare la loro collocazione il deismo, l’ateismo, il razionalismo, il materialismo, lo scetticismo, tanto l’impostazione costituzionalistico-liberale quanto quella che sfocerà nella rivoluzione del 1789 — l’Illuminismo si afferma quindi come una delle categorie fondamentali della moderna visione del mondo, caratterizzata da un comune clima di pensiero teso a rivalutare la “natura” e a celebrare la “ragione” quali sorgenti incondizionate di tutti i valori. Tale duplice esigenza si realizza nell’unico atto di coraggio con cui la ragione si libera delle costrizioni metafisiche, dogmatico-religiose, morali e tradizionali, giungendo a sostituire al sistema metafisico-tradizionale un sistema universale della natura che proceda esclusivamente dai dati dell’esperienza possibile ai sensi interni ed esterni.
A ragione è divenuta paradigmatica la definizione kantiana nello scritto Che cos’è l’Illuminismo (1784): «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo. A questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione»(E. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?,in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. it. Torino 1965, p. 141).
La ragione illuministica, come già l’intelletto di John Locke (1632-1704), è una facoltà naturale (si noti: non una “sostanza”, come nella tradizione razionalista cartesiana) comune a tutti gli uomini, identica nelle sue determinazioni fondamentali, il cui corretto uso viene spontaneo quando questa sia libera, cioè sia stata purificata dagli errori dell’ignoranza e della superstizione. Allo stesso tempo però essa, in quanto facoltà, è limitata, ossia incapace di sollevarsi al di sopra dei sensi. Tale limitazione, se da un lato determina il campo di applicazione della razionalità all’interno del quale la ragione è sovrana assoluta, dall’altro esclude dal suo orizzonte tutto ciò che non è possibile oggetto di conoscenza sensibile. Questo non vuol dire che l’Illuminismo sia espressamente ateo, ma sostanzialmente antimetafisico e sicuramente anticlericale: ciò che è oggetto di fede, cioè di rivelazione, non viene tematizzato dai philosophes illuministi (quindi nemmeno esplicitamente negato) ma solamente escluso dall’ambito dello scibile umano. Costretto dalla sua stessa definizione a muoversi nei limiti della conoscenza fenomenica, l’Illuminismo può inferire l’esistenza di Dio dalla natura stessa dell’universo, ma non per questo può ritenere per vero (il Fürwahrhalten di Kant) ciò che si sottrae a tali limiti.
All’Umanesimo di cui sono eredi, i philosophes, in seguito al confronto con la tradizione inglese, aggiungono il richiamo all’esperienza sensoriale, i motivi deistici, le dottrine del diritto naturale e del contratto sociale e le idee scientifiche in genere derivanti dalla rivoluzione newtoniana. Critico e razionalista, storicista e antistoricista, ateo e deista, l’Illuminismo non fa mistero della sua natura variopinta e a volte contraddittoria; anzi la sua ambiguità è la coerente conseguenza dell’applicazione, nei campi più diversi, dell’unico comune intento di abbattere ogni forma di tradizione e di superstizione. Tale intento assume, nella Francia del Settecento, caratteri marcatamente rivoluzionari, assenti nell’Illuminismo inglese. Per gli illuministi francesi, infatti, la critica della tradizione diviene radicale antistoricismo, l’empirismo diviene sensismo, l’utilitarismo degenera in edonismo egoistico, il deismo diviene agnosticismo di fatto e materialismo e, sebbene non neghino il divino, «la loro posizione, se sviluppata con coerenza, conduce all’ateismo» (Bosco, 1977, p. 20).
La tensione per il rinnovamento spirituale, da cui l’Illuminismo trae la propria energia, si realizza nell’esigenza di una presentazione sistematica dell’intero sapere che, peraltro, ha le sue radici nel secolo precedente. Già nel Seicento la ricerca filosofica era finalizzata alla riduzione del reale a elementi semplici (si pensi alla seconda regola del metodo cartesiano), determinati e controllati dalla ragione. Una tale esigenza trovava la sua espressione principalmente nel meccanicismo, ossia nella fiduciosa applicazione alla realtà degli schemi interpretativi della ragione umana allo scopo di cogliere le intime strutture del reale stesso. Ebbene, nel Settecento questo atteggiamento, pur perdurando, entra in crisi poiché si apre una sfasatura tra la ricerca scientifica e l’indagine ontologica. Gli illuministi infatti rimproverano ai filosofi del Seicento di aver interpretato la ragione esclusivamente in chiave ontologico-metafisica: per René Descartes (1596-1650) come per Baruch Spinoza (1632-1677), Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) e Nicolas de Malebranche (1638-1715), prima che una facoltà conoscitiva, la ragione era fondamentalmente “sostanza” tanto umana quanto divina; anzi era il sigillo divino nell’umano. La comprensione razionale del reale in chiave ontologica, che già nella sua definizione apriva all’interpretazione teologica o teologizzante del reale stesso, viene ora rovesciata nel razionalismo gnoseologico del Settecento: allo studio dell’essenza si sostituisce la ricerca della legge scientifica. In quest’ottica lo stesso Descartes appare eccessivamente dogmatico, mentre Isaac Newton (1642-1727) diviene il campione del nuovo corso della ricerca filosofica. Eredi della rivoluzione cartesiana, ma avversi alla stessa scolastica cartesiana, i giovani philosophes illuministi rinvengono nel metodo sperimentale della nuova fisica un dirompente elemento di fecondità scientifica, al punto che lo elevano al rango di criterio razionale e universale d’indagine da applicare a ogni campo del sapere.
In questa comune atmosfera, spesso forma e contenuto della ricerca filosofica vengono a coincidere. Entrambi divengono forieri dello stesso messaggio: la rinuncia alla ricerca dell’essenza, delle cause prime e al metodo deduttivo in generale, unitamente all’afflato antisistematico del tempo, sono infatti manifesti non solo nel contenuto delle opere di questo periodo, ma anche nelle forme di espressione predilette dagli stessi autori. L’aforisma, il dialogo, le lettere, il sogno, il paradosso sostituiscono lo sterile e, soprattutto, statico e impersonale trattato classico. Ne sono un esempio le opere di François M. Arouet (Voltaire, 1694-1778) collaboratore, peraltro assai poco sistematico, dell’Encyclopédie, al quale si devono le Lettres philosophiques del 1734, il Candide del 1759, il Dictionnaire philosophique del 1764, ma anche la Défense du Newtonianisme e la Historie de Jenni, dove si trova la celebre frase: «un catechista annuncia Dio e Newton lo prova ai saggi» (sul newtonismo ritorna con accenti simili la voce Attraction dell’Encyclopédie, redatta dal d’Alembert). Ma ne sono anche esempio, in generale, tutti i testi fondamentali delle lumières che vedono la luce tra il 1750 e il 1770, vale a dire negli anni della travagliata pubblicazione dell’Encyclopédie: l’Emile e il Contrat social (entrambi del 1762) di Jean Jacques Rousseau (1712-1778), i Pensée sur l’interprétation de la nature (1754) di Denis Diderot, l’Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc Buffon (1707-1788), il De l’esprit (1758) di Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), il Système de la nature (1770) di Paul Heinrich Dietrich d’Holbach (1723-1789), il Traité des systèmes (1749) di Étienne Bonnot de Condillac (1715-1800). Proprio la lettura dell’opera del Condillac è particolarmente rilevante per la chiarificazione della tensione, innovatrice sino alla rivoluzione e allo stesso tempo continuatrice del razionalismo seicentesco, che pervade l’Illuminismo in generale e in particolare l’Encyclopédie, sua portavoce ufficiale.
Nella sua critica al sistema, de Condillac (ripreso esplicitamente dal d’Alembert nel suo Discours préliminaire del 1751) riconosce come sia proprio della natura umana tendere a una conoscenza totalizzante del reale ma, allo stesso tempo, afferma che tale esigenza sistematizzante contrasta con l’altrettanto umana esigenza di aderenza alla realtà. Il sistema seicentesco è quindi interpretato come il frutto di un astratto razionalismo che, in ultima analisi, costruendo sistemazioni chiuse dello scibile in un modo ritenuto simile a quello medievale, si riduce a mero arbitrio. Questo perché, nello sforzo di comprendere il reale, i razionalisti hanno smarrito la via della natura e, con essa, il valore dell’esperienza (cfr. la voce Système dell’Encyclopédie, redatta dal Diderot). In quest’ottica diviene inevitabile il ritorno all’albero del sapere del De digitate et augmentis scientiarum (1623) di Francis Bacon (1561-1626) di cui gli enciclopedisti formulano una lettura in chiave dinamico-genetica, rendendo cioè il sistema una compilazione aperta e collegiale che assuma il metodo sperimentale delle scienze nell’ordinazione e connessione delle conoscenze sotto l’angolo visuale del loro nascere e del loro generarsi nel soggetto.
Ai sistemi dei razionalisti i philosophes contrappongono una visione enciclopedica del sapere, incentrata sull’imprescindibile originarietà della natura. Il sistema della natura infatti si contrappone radicalmente all’antinaturalità delle costruzioni razionaliste. In modo paradigmatico, Diderot scrive nel suo Interprétation de la nature: «Lascerò che i pensieri si succedano sotto la mia penna nel medesimo ordine secondo il quale gli oggetti si sono offerti alla mia riflessione: perché essi rappresenteranno meglio i movimenti e il cammino del mio animo». A fronte di un periodare simile a quello delle Meditationes cartesiane (1641), come si vede, l’accentuazione dell’aspetto naturalistico è prevalente sulla ricerca razionale dell’evidenza razionale.
Dando voce al sistema della natura — nella precomprensione tipica dell’Illuminismo, di ascendenza lockiana, che lo stato di natura sia essenzialmente buono e che l’uomo per vivere nel vero debba semplicemente adeguarsi ad essa — il filosofo del Settecento interpreta il reale come un tutto organico del quale, se fosse possibile cogliere le connessioni interne di tutti gli oggetti, si potrebbe formulare un unico sapere enciclopedico di cui le singole scienze sarebbero gli elementi particolari. Non è un caso, quindi, che a partire dal 1750, data di pubblicazione del Prospectus di presentazione dell’Encyclopédie, si sia retrospettivamente ordinato in questo orizzonte tutto quel che precede nel campo della cultura. In definitiva, l’intero Settecento europeo appare permeato di enciclopedismo, al punto che alcuni autori hanno parlato di sinonimia tra Settecento ed Enciclopedismo (cfr. Abbattista, 2000).
Per dare un’adeguata espressione dell’organicità del tutto della realtà, i philosophes concepiscono quindi l’intero sapere non tanto come un albero della conoscenza quanto piuttosto come una carta geografica, un mappamondo, in cui è simboleggiata la concreta aderenza tra sistema reale e sistema concettuale, finalizzata all’orientazione del lettore nel sistema organico delle scienze nei loro rapporti reciproci. Gli autori dell’Encyclopédie, quindi, sono consapevoli che un’astratta e generica conoscenza enciclopedica degenererebbe nel vuoto dogmatismo qualora fosse ridotta a una sistemazione statica del sapere e, per questo, pongono mano a un’opera che espone l’intero sapere a parte subjecti, ossia dal punto di vista delle facoltà conoscitive più che da quello degli oggetti. Per dare voce a una tale differente impostazione, d’Alembert utilizza l’espressione esprit systématique di contro all’esprit de système. Ad ogni modo, le inevitabili ambiguità di fondo di una simile impresa — ovvero le difficoltà, di per sé insormontabili, che nascono dalla pretesa di trasporre il modello naturale a modello del sapere — saranno evidenti allo stesso Diderot, il quale in uno sguardo retrospettivo sull’intera impresa non lesinerà critiche al suo stesso lavoro in cui, a suo dire, erano confluite caoticamente «un’infinità di cose mal viste, mal digerite, buone, cattive, detestabili, vere, false, incerte e sempre incoerenti e disparate».
II. Il progetto di Diderot e d’Alembert nel contesto dell’enciclopedismo settecentesco
Al di là del valore scientifico dell’opera, l’Encyclopédie rappresenta la grande impresa dello spirito illuminista nel tentativo (in lotta con il sapere tradizionale e principalmente con la tradizione religiosa) di unificare il sapere e le scienze su basi esclusivamente razionali, facendo quindi convergere in un’unica sintesi lo spirito scettico e laico della cultura libertina, le aspirazioni etico-politiche della borghesia emergente e l’esigenza metodologica delle nuove scienze. In definitiva, si tratta dell’opera d’intelligente volgarizzazione del sapere compilata in un momento in cui, messa in discussione la fede nella religione e nell’autorità ad opera della libera ragione, veniva nascendo una nuova fede nelle possibilità della ragione stessa e nei risultati della scienza.
L’idea di un’enciclopedia universale e ragionata aveva permeato, in vari modi, l’intera Europa settecentesca. I vari lessici e dizionari di cui l’epoca è disseminata sono altrettanti tentativi di esporre un inventario ragionato di tutte le conoscenze umane nella forma di un’enciclopedia. In particolare Pierre Bayle (1647-1706), con il suo Dictionnaire historique et critique (1695-1697), si era decisamente battuto per la formazione di un senso critico della storia, in lotta contro ogni forma di dogmatismo per la liberazione delle coscienze da qualsiasi principio d’autorità. La mancanza fondamentale di questi però consisteva, secondo l’opinione degli stessi enciclopedisti, nell’aver sostanzialmente ignorato le scienze e, di conseguenza, nell’aver reso «insipida» l’impresa (cfr. la voce Encyclopédie, redatta dallo stesso Diderot). Sebbene, difatti, l’opera del Bayle riveli sostanzialmente una concezione negativa della ragione, che non è in grado di sciogliere le dispute ed evitare gli errori, allo stesso tempo con questa e altre opere si era già entrati nell’ottica di una scansione del sapere universale che non fosse frutto di una concezione teologica del sapere, ma puramente razionale. La posizione dominante di un Dio quale garante dell’unità della conoscenza cedeva sempre più il passo a princìpi razionali, ma di matrice naturale, sensistica e materialistica. Del resto, qualsiasi forma di conoscenza (sia essa tecnica, sensoriale o metafisica) poteva a buon diritto essere compresa nell’unico sistema del sapere, in quanto si trattava pur sempre di conoscenza umana.
In quest’atmosfera operano gli autori dell’Encyclopédie nella loro analisi del sapere universale in tre grandi momenti: la storia, frutto della facoltà della memoria ossia del collezionare passivamente conoscenze dirette; le scienze teoriche, frutto della facoltà della ragione; le arti liberali e meccaniche, frutto della facoltà dell’immaginazione, ossia della capacità di imitare (si noti che nell’albero del sapere baconiano la ragione seguiva l’immaginazione come punto d’arrivo e culmine del sapere; qui invece la ragione è in posizione mediana, con la funzione di copula, anello di congiunzione dell’intero sapere).
Più che un’impresa scientifica quindi, l’Encyclopédie si innesta nella tradizione enciclopedica precedente già da subito come impresa filosofica, esclusivamente umana, e quindi esplicitamente contrapposta a ogni forma di sapere metafisico o religioso. Assai illuminante, a questo riguardo, è il celebre excursus sulla tradizione filosofica del Discours préliminaire del d’Alembert: vi si legge l’esplicito richiamo a Bacon, l’esaltazione delle dottrine di Newton e di Locke (colui che ridusse la metafisica «a ciò che doveva essere realmente: la fisica sperimentale dell’anima»), nonché la tendenza a svalutare l’intero pensiero medievale. La realizzazione, poi, come una sorta d’inventario storicizzato (dinamico-genetico) delle conoscenze umane nei diversi campi, aumenterà l’impronta rivoluzionaria dell’opera in campo non solo religioso ma anche politico. A poco serve quindi la breve e ossequiosa captatio benevolentiae di d’Alembert (sempre nel Discours préliminaire) nei confronti della religione rivelata, con la quale vuole in qualche modo bilanciare gli accenti marcatamente deistici, sebbene mai apertamente atei, di alcuni articoli dell’opera.
Nell’Encyclopédie si vengono quindi a modulare l’azione di propaganda politica contro ogni forma di conservatorismo culturale, religioso, politico e l’azione teoretico-filosofica finalizzata ad una radicale ridefinizione dell’intero scibile, in rottura ma, in un certo senso, anche in continuità con la tradizione filosofica dei secoli precedenti. L’impostazione teorico-sistematica e critica insieme permette quindi di distinguere l’opera di Diderot e d’Alembert da opere simili, quali: l’Enciclopedia (1630) di J. H. Alstedius; il Grand dictionnaire historique (1674) del Moreri; il citato Dictionnaire historique et critique (1695-1697) di Pierre Bayle; il Dictionnaire des arts et des sciences (1694) dell’Académie française, opera di Thomas Corneille (1625-1709), riedito dal Fontanelle nel 1732; il Dictionnaire universel français et latin del Furetière, detto Dictionnaire de Trévoux (1704); il Lexicum technicum or an universal english dictionary of arts and sciences (1704-1710) di John Harris; Dictionnaire économique (1709) di N. Chomel; il Dictionnaire universel de commerce (1722-1730) di Jacques Savary-Desbruslons; lo Spectacle de la nature (1732-1750) dell’abbé Pluche; il New general english dictionary (1737) di T. Dycke e W. Pardon, e altre opere ancora. Gli storici annoverano persino il progetto, datato 1737, di un Dizionario universale di tutte le arti liberali e di tutte le scienze utili, tranne la teologia e la politica ad opera dell’avventuriero cosmopolita André-Michel Ramasay, uno dei promotori della frammassoneria, cui avrebbero dovuto collaborare i membri di tutte le logge massoniche europee (cfr. Lettres de M. de Voltaire, avec plusieurs pièces de différents auteurs, La Haye 1738, p. 135). Sebbene i legami tra quest’impresa massonica e l’Encyclopédie del Diderot — il cui Prospectus di presentazione e divulgazione è del 1750 ed il primo volume del luglio 1751 — non siano documentabili, la notazione può essere utile allo scopo di delineare l’atmosfera culturale, nelle sue varie sfumature, all’interno della quale si viene a collocare l’opera in questione.
Anche all’interno del panorama culturale italiano la sinonimia tra Settecento ed Enciclopedismo è, retrospettivamente, riscontrabile. È del 1729 la pubblicazione del Vocabolario della Crusca (in sei volumi, di cui l’ultimo nel 1738), mentre la seconda metà del secolo ha ne Il Caffè, pur nella sua brevissima vita, la sua massima espressione nell’originale connubio tra enciclopedismo e giornalismo. Sempre della seconda parte del secolo sono i Dizionari Universali (1744, 1746, 1757) di Gianfrancesco Pivani (1689-1764), le Notizie dei letterati (1772-1773) di Isidoro Bianchi (1731-1808) e l’impresa mai realizzata da parte del veneziano Alessandro Zorzi (1747-1779) della Nuova Enciclopedia Italiana che coinvolse molti illuministi italiani ma che non andò oltre il Prospetto del 1776. La stessa Encyclopédie subirà, nel suo successivo sviluppo, l’influenza dell’enciclopedismo italiano (che si concretizzerà nella partecipazione dell’italiano Fortunato Bartolomeo De Felice all’edizione di Yverdon dell’Encyclopédie in 58 volumi pubblicata fra il 1770 ed il 1780).
Comunque l’incipit alla realizzazione dell’impresa enciclopedica francese si deve a Ephraïm Chambers che nel 1727 pubblicava (con data editoriale 1728) la sua Cyclopaedia o Dizionario universale delle arti e delle scienze. Quest’opera ebbe subito grande successo e fu tradotta in varie lingue (tra cui in Italia a opera di editori di Napoli, Venezia e Genova). La novità dell’opera del Chambers consisteva (a differenza dei precedenti diretti sopra citati quali il Lexicum technicum o il New general english dictionary) nella connessione sistematica delle varie scienze ispirata all’albero del sapere di Bacon.
Brevemente i fatti: nel 1745 Gottfried Sellesius, studioso di origine tedesca, propose all’editore francese André-François Le Breton la traduzione dell’opera di Chambers. Già nella primavera del 1745 uscì un primo Prospectus esplicativo dell’opera, redatto dallo stesso Sellesius e dal ricco inglese John Mill. Il favore incontrato negli ambienti culturali francesi e l’adesione al progetto di alcuni finanziatori, quali Antoine Briasson, Michel-Antoine David e Laurent Durand, spinsero il Le Breton, nonostante il fallimento dell’intesa Sellesius-Mill, ad affidare nel giugno del 1746 la direzione dell’opera all’abate Gua de Malves (che però si ritirerà nel 1747) in collaborazione con Diderot e d’Alembert. Del novembre 1750 è il nuovo Prospectus in cui la traduzione dell’opera inglese cede il posto a un’originale opera enciclopedica. L’attesa era tale che già nel 1751 l’italiano Giambattista Pasquali chiese l’esclusiva per la traduzione (impresa che poi non portò a termine anche per il contemporaneo impegno degli editori di Lucca, concretizzatosi nel 1758). Del resto le sottoscrizioni dell’opera nell’arco di pochi mesi superarono la quota di quattromila e una tale adesione di pubblico permise agli autori di superare le difficoltà poste dalla, a dir poco eccezionale, convergenza di opposizione critica da parte di gesuiti e giansenisti, unitamente al partito devoto alla Corte. Già nel luglio del 1749, Diderot era stato arrestato a causa della manifesta vena eversiva dello scritto Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient, e solo l’intercessione del vicecancelliere conte di Argenson e del luogotenente generale di polizia Berryer ne permise la liberazione nel novembre dello stesso anno.
Dal canto suo, Diderot si mosse abilmente in campo politico coinvolgendo, tra gli altri, il ministro cancelliere d’Aguesseau nella nomina dei collaboratori, e affidando articoli di argomento più delicato (come quelli sulla religione e sulla teologia) a esponenti moderati o del clero stesso (Mallet, Yvon, de Prades, Pestré, Morellet, Formey, La Chappelle, Sauvages, Lenglet, Polire de Bottens, ecc.) e facendo apparire le affermazioni più innovative e rivoluzionarie in campo teologico solo negli articoli scientifici o, comunque, non espressamente dedicati all’argomento (con il preciso scopo di eludere l’attenzione dei censori governativi che infatti, in prima battuta, approvarono tutti gli articoli). Furono i gesuiti del “Journal de Trévoux” che per primi, nella figura di padre Berthier, denunciarono il carattere eversivo di alcuni articoli e dello stesso Discours préliminaire di d’Alembert. Nel caso furono coinvolti anche alcuni ecclesiastici, come l’abate De Prades che, collaboratore dell’Encyclopédie, ottenne il dottorato alla Sorbona con una dissertazione che riprendeva alcune tesi del Discours préliminaire provocando profondo risentimento negli ambienti ecclesiastici. Dopo il decreto di soppressione del 7 gennaio 1752, si riprese la pubblicazione grazie alla personale intercessione del direttore delle pubblicazioni, il Maleserbes. Ma una nuova condanna arrivò, più per motivi politici che altro, il 6 febbraio 1759, senza per questo fermare il lavoro che riprese ufficialmente nel 1766 con l’espediente di pubblicare solo le tavole illustrate, che certo non potevano contenere affermazioni dannose.
L’impresa editoriale, pubblicizzata più che ostacolata dalle diverse censure, fruttò ai librai un guadagno superiore al cinquecento per cento, di cui solo una piccola parte rappresentò il compenso per Diderot che comunque fu pagato assai di più degli altri collaboratori (lo stesso d’Alembert si era ritirato dall’impresa nel 1758 proprio per motivi economici). Le successive pubblicazioni, che si susseguirono nel giro di pochi anni a opera di diversi editori, dimostrano quanto lo spirito del Settecento sia stato profondamente segnato dall’“evento” Encyclopédie.
III. La voce Dieu dell’Encyclopédie
Rimandando alla voce corrispondente la trattazione approfondita dei caratteri del deismo, allo scopo di comprendere la natura del rapporto tra scienza e fede nelle lumières risulta utile in questa sede prendere in esame la voce Dieu dell’Encyclopédie e la sua comparazione con l’omonima voce del Dictionnaire philosophique di Voltaire.
Il problema di Dio, e principalmente la questione della sua esistenza, è uno dei temi maggiormente presenti nel dibattito culturale degli illuministi. Pensatori deisti, filosofi atei e scienziati scettici si interrogarono senza posa su quello che, dopo Descartes, sembrava essere il nodo principale per un’adeguata comprensione della natura del sapere scientifico e di ogni conoscenza in generale. Proprio la spiccata propensione scientifica del pensiero settecentesco fece sì che la questione venisse letta maggiormente nell’orizzonte delle argomentazioni fisico-naturaliste (che poi Kant avrebbe affrontato nel suo argomento fisico-teleologico) piuttosto che con argomenti tipicamente metafisici (come quelli di Malebranche o di Spinoza). Si avviò pertanto un’aperta discussione sul problema di Dio non più in ambito teologico-metafisico, ma nell’orizzonte di una novella “filosofia della natura” che, come tale, si presentava senza particolari novità speculative, ma trovava la sua originalità nella diversa prospettiva nella quale inquadrava il problema di Dio.
La voce Dieu dell’Encyclopédie, redatta in modo sorprendentemente moderato dal predicatore riformato, professore di filosofia, giornalista e segretario accademico Jean Henri Samuel Formey (1711-1797), è la fedele presentazione di questo dibattito dal momento che, dal punto di vista strettamente contenutistico, gli enciclopedisti non hanno intenzione di produrre qualcosa di nuovo ma solo di offrire un quadro riassuntivo delle conquiste raggiunte dal sapere, dalla scienza e dalla tecnica, ponendone quindi i risultati a disposizione del grande pubblico.
La voce (di cui citiamo con nostra traduzione dal quarto tomo della terza edizione del 1772, pp. 891-898) si articola in tre momenti fondamentali: una breve introduzione intorno alla difficoltà della trattazione del tema del divino, dalla quale però è già possibile delineare l’orizzonte all’interno del quale si sviluppa l’intera voce e quello che sarà il basso continuo dell’intera trattazione e, in definitiva, di tutta l’Encyclopédie, ossia il deismo naturalistico e scetticheggiante nei confronti dell’elemento metafisico; una serrata critica nei confronti delle posizioni di P. Bayle, il cui scetticismo apre le porte alle deviazioni atee (lo stesso Voltaire definì Bayle «il primo dei dialettici e dei filosofi scettici»); e infine una lunga presentazione delle classiche argomentazioni metafisiche, storiche e fisiche a favore della esistenza di Dio, nella rielaborazione fornitane dai maggiori illuministi: l’argomento metafisico di Samuel Clarke (1675-1729), l’argomento storico di Jacquelot Isaac (1647-1708) e quello fisico di Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757).
Il Formey esordisce quindi riportando le opinioni di due autori della classicità sulla difficoltà di definire adeguatamente la nozione di Dio. Al di là dell’espediente retorico per entrare in medias res, ben si comprende, soprattutto dal parallelo con l’omonima voce del Dizionario filosofico del Voltaire (vedi infra, IV), come queste poche parole iniziali, riportate quasi per dovere di cronaca, non abbiano solo un ruolo di contorno, ma al contrario in esse sia riposto un accento fondamentale del messaggio filosofico dell’Encyclopédie riguardo alla fondamentale questione di Dio. Il restante non sarà che una pedante e scolastica argomentazione critico-compilativa, ovvero una lunga divagazione finalizzata alla presentazione di ciò che si può dire su Dio (o «l’essere-esistente-per-se-stesso», l’être existant par lui-même, come più spesso viene chiamato) partendo da fondamenti puramente razionali e naturali. Non sfugge infatti il fatto che ad autori pagani o classici sia affidata l’idea di fondo dell’intera voce. Infatti, con un doppio rimando — che è una doppia presa di distanza — l’autore della voce fa riferire a Tertulliano (apologeta cristiano) le parole di Talete (padre della filosofia greca) il quale, interrogato da Creso sulla divinità, non sarebbe stato in grado di fornire altro che risposte vaghe. Allo stesso modo una raddoppiata distanza separa il lettore da Cicerone (indiscussa autorità classica) che riferisce di Simonide (poeta finissimo ed eclettico): anche questi, dopo vari indugi, non sarebbe stato in grado di rispondere alla domanda sulla natura Dio. «Dall’imbarazzo dei due filosofi — dice il Formey — si può concludere che non vi sia nessun argomento che meriti da parte nostra più circospezione nei giudizi di quello che riguarda la divinità: essa è inaccessibile al nostro sguardo […]» (voce Dieu, p. 892). Inoltre il Formey chiama a suggello dell’autorità classica (rappresentata da un filosofo e un poeta) l’autorità religiosa di s. Agostino: «In effetti, come dice s. Agostino, Dio è un essere di cui si parla senza potere dire nulla, e che è al di sopra di tutte le definizioni» (ibidem).
Una volta accertata e sancita, grazie all’autorità classica, la fondamentale incomprensibilità di Dio per la ragione indagatrice (sia essa filosofica, poetica o religiosa), l’autore si affretta a distinguere, dall’incomprensibilità, l’inesistenza. Questa infatti non solo non è deducibile da quella, ma è addirittura vero e dimostrabile il contrario. Secondo il classico canone deista, la comprensione dell’esistenza di Dio è evidente, fondata sulla sola osservazione del mondo naturale mediante il ricorso ad una filosofia della natura di stampo fisicista, senza necessità di una rigorosa mediazione metafisica, e certamente disinteressata ad alcun raccordo con una possibile rivelazione divina, non di rado esplicitamente negata. Si legge nella voce: «Ma per quanto Dio sia incomprensibile, non si deve inferire da questo che lo sia in tutto: se così fosse, noi non potremmo avere di lui nessun’idea e non avremmo nulla da dire. Al contrario noi possiamo e dobbiamo affermare di Dio che esiste, che ha intelligenza, saggezza, potenza, forza, perché Egli ha dato queste prerogative alle sue opere: Egli però ha queste qualità a un livello che supera ciò che noi possiamo concepire, avendole (1°) per sua natura e per la necessità del suo essere, non per comunicazione né per impronta; avendole (2°) tutte insieme riunite in un solo essere semplice e indivisibile e non come sono nelle creature, cioè in parti e disperse; avendole infine (3°) come nella loro sorgente, laddove noi le abbiamo come delle emanazioni dell’essere infinito, eterno, ineffabile» (ibidem).
Di per sé Dio è quindi incomprensibile, ma, nonostante ciò, la sua esistenza possiede un elevato grado di conoscibilità naturale che le deriva dal suo essere causa e ordinatore dell’universo e della natura. Si può infatti facilmente rinvenire in questi le tracce del “divin fattore” e, allo stesso modo, si possono attribuire a Lui tutte le qualità che la natura stessa possiede — con la sola differenza quantitativa ch’Egli le possiede al sommo grado. «Non c’è niente di più facile della conoscenza dell’esistenza di Dio — continua l’autore —, che questo sia eternamente esistito, che è impossibile che Egli non abbia in grado sommo l’intelligenza e tutte le buone qualità che si trovano nelle creature» (ibidem). Ne segue l’esaltazione, dagli accenti quasi lirici, della natura come effetto di una causa sommamente superiore all’uomo e, allo stesso tempo, come immagine che in ogni suo aspetto parla del suo creatore. L’argomentazione è quindi ben riassunta nella citazione di Racine che la chiude: «L’éternel est son nom, le monde est son ouvrage».
Con l’analisi delle argomentazioni del Bayle termina la breve introduzione teorica ed inizia la parte più propriamente compilativa della voce. Pierre Bayle, nella sua radicale vena critica, non solo aveva inteso negare validità metafisica e conoscibilità naturale alla nozione di Dio ma ne disconosceva persino la rilevanza per il senso comune predicando l’inattendibilità del “consenso delle nazioni” su tale argomento, l’irrilevanza di questo nella ricerca della verità e, infine, l’impossibilità di un’adeguata distinzione tra ciò che deriva dalla natura dell’uomo da ciò che invece gli viene dall’educazione (quest’ultimo argomento, in sintonia con l’affermazione hobbesiana della fondamentale negatività della natura umana, è in aperto contrasto con la dottrina di Locke, assimilata dalla maggioranza degli illuministi). A Bayle, Formey risponde che «v’è una grande differenza fra il conoscere che esiste un Dio e il conoscere la sua natura» ed ammette che questa seconda conoscenza sia preclusa ai nostri «deboli lumi». Ma comunque «è nella natura dell’uomo l’essere forzato dalla ragione ad ammettere l’esistenza di qualcosa ch’egli non comprende: egli comprende bene la necessità di questa esistenza eterna, ma non comprende affatto la natura di questo essere che esiste necessariamente, né la natura della sua eternità; egli comprende che ella è, e non quello che ella è» (ibidem).
La terza e ultima parte della voce analizza i contributi dell’illuminismo deista alla questione dell’esistenza di Dio in campo metafisico, storico e fisico. Samuel Clarke, discepolo di Newton, nel suo A demonstration of the being and attributes of God: more particularly in Answer to Mr. Hobbs (sic!), Spinoza and their followers (1705), vuole dimostrare le verità fondamentali della religione sulla base delle conoscenze scientifiche del tempo, al punto da giungere ad affermare che l’ateismo (in cui accomuna Hobbes e Spinoza) è imputabile o alla stupida ignoranza, o alla grave corruzione morale o infine ad una falsa filosofia. Da una prospettiva tipicamente deista, egli afferma che religione e scienza sono così pienamente concordi e lo sono tanto, aggiungiamo, da poter arrivare a sembrare quasi la stessa cosa (gli fa eco, in questo, la già citata affermazione del Voltaire, suo estimatore: «un catechista annuncia Dio e Newton lo prova ai saggi»); è in proposito quanto mai paradigmatico il fatto che l’autore enciclopedista presenti “l’argomento metafisico” esposto da un seguace di Newton: è ferma convinzione dei deisti, infatti, la sostanziale identità tra scienza della natura, o filosofia naturale, e metafisica.
In quest’ottica è doveroso evidenziare quindi lo slittamento semantico che subisce il termine stesso «metafisica». Essa è divenuta, dopo Newton, la dottrina dell’autonomia o della dipendenza ontologica della materia. Se infatti la materia viene interpretata come autonoma e ontologicamente sufficiente, capace di determinare con i soli suoi attributi e il suo movimento il tutto della natura, allora la filosofia naturale non può che avere un esito ateo; se invece la materia non risulta autonoma ma, nella sua organizzazione e nel suo ordine, richiede un’Intelligenza artefice e ordinatrice, ecco che la filosofia naturale si fa deista. Deismo e ateismo non sono quindi che due facce dello stesso materialismo post-newtoniano, il quale si dà il nome di metafisica per supplire, almeno nella parola, alla “debolezza” acquisita con la perdita o l’amputazione di ogni riferimento a ciò che esorbita i limiti dell’esperienza possibile.
Non intendiamo seguire qui l’argomentazione more geometrico che Clarke riprende da Newton e che il Formey riproduce fedelmente allo scopo di perorare la causa deista nei confronti dell’ateismo. È solo il caso di rilevare che con l’opera di Clarke, e con la sua definitiva volgarizzazione operata dagli enciclopedisti, si pone la definitiva pietra tombale sulla questione del contenuto della metafisica e si apre lo spazio per la successiva torsione “trascendentale” della ricerca: non più il contenuto quindi, circoscritto e canonizzato dall’enciclopedismo, ma la possibilità stessa della dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio e dell’elemento metafisico in genere, diverrà questione fondamentale.
“L’argomento storico” riferito al teologo protestante Jacquelot, la cui assoluta inattualità per un lettore del XXI secolo ci suggerisce di limitarci alla sua presentazione contenutistica essenziale, vuole confutare la validità di quelle argomentazioni di un certo empirismo materialista che, basandosi su fatti storici, pretende d’invalidare la dottrina della creazione del mondo e con essa l’affermazione metafisica della sua derivazione da un’Intelligenza superiore. Sebbene l’argomento sia basato sulla comparazione di citazioni bibliche e testimonianze storiche (si tratta infatti di dimostrare che non vi sono riferimenti storici certi anteriori a quella “data della creazione” dell’universo che si pretendeva collocare, deducendola dal racconto mosaico, a 2.140 oppure a 3.943 anni prima), è interessante notare come, ancora una volta, la disputa si risolva tutta sul piano dell’esperienza possibile: tanto l’argomento empirista quanto la sua confutazione deista non escono infatti dal piano puramente naturale a conferma del radicale ancoramento della ragione illuminista a quel limite, naturale appunto, che ad un tempo ne definisce il potere e ne circoscrive le possibilità.
Sullo stesso piano si muove anche la conclusiva “argomentazione fisica”, ripresa dal nipote del Corneille, lo scrittore Fontenelle, secondo la quale la generazione degli animali (peculiarità che nessuna osservazione ha mai smentito) richiede ancora una volta, riguardo alla sua origine, un’Intelligenza ordinatrice poiché le teorie casualiste non possono essere razionalmente accettate in base all’esperienza naturale. Un incontro fortuito di atomi, infatti, non avrebbe dovuto produrre gli animali nella fase iniziale del loro sviluppo (fase nella quale questi non sarebbero stati in alcun modo autosufficienti e non avrebbero potuto quindi porsi come iniziatori di una nuova specie) ma in quella matura o almeno intermedia (ormai in grado di sopravvivere e riprodursi): cosa evidentemente impossibile in quanto in contrasto con le leggi stesse dello sviluppo animale. Anche l’argomentazione fisica pertanto giunge alla conclusione dell’esistenza di Dio poiché gli esseri viventi, nella loro peculiarità della generazione, sono portatori di un sigillo (inscription) d’infinità che rinvia a un Dio creatore e ordinatore dell’universo.
IV. Voltaire: la ragione di fronte a Dio e al problema del male
Alla prolissità della voce Dieu dell’Encyclopédie fa da contrappunto l’ironica essenzialità della voce Dieu del Dizionario filosofico di Voltaire. Stampato per la prima volta nel 1764 e successivamente rimaneggiato e arricchito in numerose edizioni, il Dictionnaire philosophique rappresenta, insieme al Candide, il momento più alto della speculazione filosofica dell’autore, esposta con chiara leggibilità ed evidente antisistematicità. L’espediente della pubblicazione anonima e (espediente nell’espediente) dell’attribuzione delle voci più polemiche a terzi personaggi di cui si limita a riportare le opinioni, unitamente al tacito accordo (ormai in opera già da qualche anno in Francia) per il quale alla pubblica condanna dell’opera non sarebbe seguita alcuna conseguenza per l’autore, permisero al Voltaire di affrontare i temi più scottanti, in materia religiosa, con ironia e semplicità. Questo non vuol dire che il problema di Dio non rappresenti una questione fondamentale del pensiero di Voltaire; al contrario, proprio la leggerezza degli accenti del discorso su Dio rivela la tonalità fondamentale (e a volte anche la drammaticità esistenziale) del filosofare stesso dell’autore. Come è noto la sua riflessione è decisamente volta a favore della tolleranza religiosa, la quale spesso scivola nell’indifferenza nei confronti di ogni forma di religione positiva (che il Voltaire riassume nel fanatico dogmatismo), per poi rivelare, in più momenti, la natura fondamentalmente politica della sua polemica.
La questione di Dio è affrontata, nella voce del 1764, sotto la forma del dialogo. Logomaco, teologo bizantino, si confronta con il barbaro sciita Dondinac. Il cavilloso Logomaco, spinto dallo sdegno e dal fervore apostolico ad un tempo, ingaggia un agone di catechismo con il rappresentante della più naturale delle religioni. Lo sciita infatti prega Dio ringraziandolo dei beni di cui gode e dei mali con cui è messo alla prova ed è certo dell’esistenza di Dio perché tutta la natura lo mostra. Ora, questa religiosità naturale (sebbene possa giungere alla consapevolezza che Dio è il creatore che ricompenserà per il bene e punirà per il male) è certamente ignorante riguardo alla natura dell’infinità di Dio, al luogo in cui Egli è, al modo in cui può creare dal nulla… Tale ignoranza però non scuote il “barbaro infedele” che, anzi, non si capacita dell’inessenzialità delle “essenziali” questioni teologali del bizantino e lapidarmene sentenzia: «Io non voglio esser filosofo, voglio soltanto esser uomo». E riguardo alla conoscenza della natura di Dio: «sarò più giusto, quando lo saprò, o miglior marito, miglior padre, miglior padrone, miglior cittadino?». A tali obiezioni il teologo non sa trovare argomentazioni dirette e mentre si prepara a interminabili (lo si immagina) «istruzioni preliminari», il contadino incalzando conclude: «Avevo appena fatto costruire un gabinetto in fondo al mio giardino; sentii una talpa che ragionava con un gambero: “È una bella fabbrica,” diceva la talpa; “colui che ha fatto una simile opera deve essere una talpa molto potente”. “Voi volete scherzare,” rispose il gambero, “è chiaro che l’architetto di questa costruzione è un gambero pieno di genio”. Da quel momento, io decisi di rinunciare a qualunque disputa» (Voltaire, voce Dio del Dizionario filosofico, tr. it. Milano 1962, pp. 243-245).
Dio non è un problema per Voltaire. La sua esistenza non è in dubbio, come non è in dubbio che ogni effetto abbia una causa. Anzi, proprio l’esistenza di Dio è una delle verità filosofiche accessibili alla ragione e, per questo, dimostrabili. Ma come propriamente Dio agisca e quali siano i suoi attributi non è dato saperlo. Tutte le dispute del pensiero classico e medievale sugli attributi di Dio cadono nell’inessenzialità, poiché assolutamente inaccessibili e, sostanzialmente, indifferenti per l’uomo sul piano pratico. Allo stesso modo non trovano risposta le domande fondamentali riguardo all’uomo: «Chi sei? Da dove vieni? Che fai? Che diverrai?», dice Voltaire nel suo Il filosofo ignorante (1766), «Sono domande che si devono porre a tutte le creature dell’universo, a cui però nessuna risponde» (tr. it. Milano 2000, p. 51). Dio è pertanto artefice e ordinatore della natura e dell’uomo, niente più è dato sapere all’uomo: il resto è superstizione. Proprio la lotta contro la superstizione (ossia contro ogni forma di sapere che pretende di andare oltre la semplice adorazione di un Essere supremo e la sottomissione ai suoi dettami eterni; cfr. Voltaire, voce Superstizione del Dizionario filosofico, tr. it. pp. 585-599) è, del resto, il cuore manifesto del messaggio filosofico dell’enciclopedismo per il quale questa è sinonimo di schiavitù, ossia di nefasta sottomissione alla tirannia di un’autorità. E Voltaire, più ancora dei vari Diderot e d’Alembert, non fa mistero che il referente polemico è costantemente la Chiesa. Scrive infatti, non senza ironia, alla voce Religione:«Dopo la nostra santa religione, che senza dubbio è la sola buona, quale sarebbe la meno cattiva? Non sarebbe forse la più semplice? Non sarebbe quella che insegnasse molta morale e pochissimi dogmi? Che tendesse a render giusti gli uomini senza obbligarli a cose impossibili, contraddittorie, ingiuriose per la divinità e dannose al genere umano, e non osasse minacciare di pene eterne chiunque preferisce tenersi al senso comune? Non sarebbe forse una religione che non sostenesse con la sua influenza dei sanguinari tiranni, e che non inondasse la terra di sangue a causa di sofismi incomprensibili?» (Voltaire, voce Religione del Dizionario filosofico, tr. it. pp. 541-542).
All’interno della sterminata produzione di Voltaire il Dizionario si colloca nel secondo periodo del suo filosofare. Il primo, a partire dal Trattato di metafisica (1734), è segnato da un radicale ottimismo e dalla critica contro ogni forma di ateismo, materialismo e dogmatismo. Il secondo, dopo le sconvolgenti esperienze della morte dell’amica M.me du Châtelet (1749) e lo «scandalo metafisico» del terremoto di Lisbona (25 novembre 1755), sebbene non sia caratterizzato dall’abbandono del deismo o dalla deriva ateistica della rinuncia a Dio, è comunque segnato da una lacerante coscienza della sfasatura tra la certezza razionale di Dio e la certezza razionale del mondo. Queste infatti, sebbene si presentino entrambe in modo diretto alla ragione indagatrice, conducono ad esiti opposti: l’una all’ottimismo, l’altra allo scetticismo, se non al pessimismo.
Certezza metafisica e certezza storica — ossia quelle che Pascal chiamava le modalità “precristiane” di approccio a Dio —, originariamente concordi nell’ottimismo deista, vengono ora a scindersi sotto il peso delle tragedie esistenziali per cui Dio, per il filosofo, viene a perdere la sua evidenza storica. Pur non smarrendo la speranza che deriva dalla certezza metafisica di Dio (certezza ancora evidente nell’omelia Sull’ateismo del 1765), Voltaire è profondamente turbato dall’esperienza del male che nessuna argomentazione logica può confutare. Il più fedele dei testimoni della cultura illuminista apre allora una breccia nell’ottimismo della ragione che, di conseguenza, è costretta a cedere il posto alla speranza che deriva dalla convinzione dell’immortalità dell’anima, dalla quale solamente è possibile inferire l’esistenza di Dio, la possibilità di un ordine morale e di una giustizia per il mondo: qualora infatti si togliesse all’uomo l’immortalità e il conseguente recuperato ottimismo (che però ha il nome di “speranza”), si aprirebbe la strada a una serie infinita di delitti e alla rovina dell’intera società umana.
Quasi contemporaneo alle omelie di Londra, il Dizionario, rivela quindi la costante fede del Voltaire nel deismo sempre professato. La trattazione della voce Dieu dimostra come, nonostante la profonda crisi dell’ottimismo causata dallo «scandalo metafisico», la sua filosofia (e in questo è esempio paradigmatico di tutto l’Illuminismo) rimanga sempre arroccata all’interno dell’elemento “precristiano” di cui parla Pascal (ossia tra la via dei pagani, che vedono in Dio il garante dell’ordine della natura, e la via degli ebrei, per i quali Dio è il garante dell’ordine provvidenziale della storia). La preconcetta impossibilità del ricorso a qualsiasi forma di rivelazione trascendente (elemento cristiano) segna pertanto le possibilità di un filosofare che, nell’esaltazione dell’umano ancorato nei limiti dell’esperienza possibile, del sensismo e del materialismo, ha come esito lo stallo tra l’ottimistica costruzione razionale, da un alto, e la lucida sofferenza esistenziale, dall’altro.
V. Osservazioni conclusive
L’enciclopedismo settecentesco, con la sua innegabile e fondamentale funzione di locus di incubazione, discussione e diffusione dell’illuminismo europeo, rappresenta senza dubbio una delle contingenze storico-intellettuali di maggiore importanza per ricostruire la vicenda dei rapporti fra fede e ragione, ma anche fra religione e pensiero scientifico, consegnataci dall’epoca moderna. In particolare, l’Encyclopédie rappresenta l’opera di volgarizzazione del sapere compilata nell’intento di definire una volta per tutte — come segnalarono M. Horkheimer e T. Adorno nella loro Dialettica dell’illuminismo (1947) — l’ambito di dominio incontrastato della ragione, di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, di liberare il mondo dalla magia e di rovesciare l’immaginazione in scienza, di recidere l’incommensurabile. Secondo le intenzioni degli autori di questa monumentale opera, in un tale ambito la fede non trova ormai più spazio. Ne ha invece Dio, che però deve pagare la tassa della metamorfosi deista. Un evento inatteso, però, sconvolge i piani dei philosophes. Mentre essi sono intenti a criticare polemicamente la religione positiva e ogni dogmatismo in nome del lume della ragione, un evento, appunto, (quale la morte di una persona cara, un terremoto devastante, o la stessa Rivoluzione francese) apre una zona d’ombra proprio all’interno di quello che si pensava fosse il dominio incontrastato della ragione: il mondo della natura, la sua spiegazione meccanica, scientifica e razionale. L’impossibilità di spiegare il male incrina quella che si rivela ora essere stata più una fede che una scienza: la fede nella ragione illuminista, nella dea Ragione.
Non è un caso che Karl Jaspers (1883-1969), esistenzialista tedesco a lungo oscurato dalle luminescenze heideggeriane, riprendendo molti degli accenti enciclopedisti e kantiani, abbia fatto ricorso all’espressione “fede filosofica” (philosphische Glaube) per designare il filosofare autentico nello spazio aperto e sospeso della possibilità; spazio che altrimenti sarebbe fagocitato dalla volontà scientifica di universale determinazione. Una volta negata qualsiasi forma di Trascendenza infatti, la filosofia, di fronte alla coscienza dei limiti dell’indagine scientifica (coscienza non astratta ma derivante dall’esperienza vissuta della finitezza, esperienza di cui Horkheimer e Adorno sono lucidi testimoni), scopre che il suo sapere è fondamentalmente un credere fondato sulla sospensione del sapere stesso, una certezza cioè di qualcosa che non esibisce e non può esibire il proprio fondamento veritativo. Di fronte alla prospettiva del naufragio della conoscenza, l’uomo si scopre essenzialmente credente. Che questa sua fede si applichi alle incompiute verità scientifiche o ai loro presupposti, ch’essa si applichi alla fragile verità dell’esistenza che ricercando filosofa, ovvero che questa si applichi al messaggio di salvezza della Rivelazione, rimane comunque un’esigenza inalienabile e interna alla natura umana quella di aprirsi alla trascendenza e di interpretare la propria finitezza non come un limite ma come una possibilità (cfr. K. Jaspers, La fede filosofica, tr. it. Torino 1973; sul tema, vedi anche C. Fiorillo, Karl Jaspers e l’idea di una “fede filosofica”, in “Grande Enciclopedia Epistemologica”, allegato a “Cultura & Libri” n. 122 (1999)). Quando questo non accade, come è il caso dello spirito dell’enciclopedismo, è l’esistenza stessa, la storia, la vita, che irrompere nel sistema, travolgendo le deboli certezze di un pensiero che si voleva forte.
Sorto dall’esaltazione dei lumi della ragione, a causa degli accenti marcatamente sensistici e materialistici (con evidenti derive anche scettiche), l’Illuminismo finisce per togliere ai lumi dignità e autonomia, e a rivelare la contraddizione interna di un movimento che, a fronte di una naturale esigenza di totalità, aveva concentrato tutto il vigore nel senso della rivoluzione e della negazione. La volontà d’intendere il limite (Grenze) come barriera (Schranke), termini portati agli altari della speculazione filosofica da Kant e Hegel, di cui è icona la sofferenza razionale e senza sbocchi del deista Voltaire, troverà nel Romanticismo, attraverso la mediazione del criticismo trascendentale, la sua più netta confutazione. Ma già l’opera del Rousseau segna, in questo senso, il deciso capovolgimento dell’enciclopedismo nel suo opposto, ponendo le fondamenta per una filosofia che alla scienza predilige la coscienza, alla ragione il sentimento. L’esaltazione dei lumi della ragione si è infatti realizzata nella constatazione della sua debolezza, laddove l’esistenziale squarcia l’ottimismo (sia esso proprio del razionalismo-metafisico dei cartesiani o dell’empirismo-scientifico dei newtoniani). E non è un caso che l’ideologia illuminista abbia trovato nella rivoluzione del 1789 tanto la sua canonizzazione quanto il suo superamento.
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