Progresso

Anno di redazione
2002

I. Usi e significati del termine - II. Progresso come tema generale, storico e filosofico - III. Il dibattito epistemologico nel XX secolo - IV. Tre secoli di dibattito sul progresso: riflessioni e osservazioni - V. La nozione di «progresso» nei documenti ecclesiali - VI. Progresso scientifico e rapporti fra scienza e fede.

I. Usi e significati del termine

Qui all'inizio accenniamo solo ad alcuni significati e usi del termine, il cui concetto verrà meglio precisato e approfondito dall'intera esposizione. La parola «progresso» fu molto usata nei dibattiti culturali e lo è tuttora nel discorso comune. Il suo significato generale per la storia umana fu discusso durante tutta la modernità. Il suo significato specifico per la scienza fu approfondito, più criticamente, dall'epistemologia e dalla storia delle scienze, dalla metà del XIX a tutto il XX secolo. Poiché il significato generale aiuta a comprendere quello specifico, esaminiamo il primo per passare, poi, a quello specifico per la scienza. Etimologicamente «pro-gresso» (lat. pro-gredi) indica un cammino in avanti, un movimento in una data direzione e, soprattutto, un «avanzamento», un graduale sviluppo e passaggio a qualcosa in più o in meglio. In questo senso può applicarsi a tutto: conoscenze, idee, metodi, oggetti, congegni, opere, relazioni sociali, costumi, stili di vita, ecc. Nel concetto di progresso, le idee di «miglioramento» e «perfezionamento» possono essere intese in senso generale oppure specifico. Il loro contrario è il «regresso» o arretramento, decadenza, ritorno a stadi primitivi o meno avanzati. La nozione di «evoluzione» che, generalmente, viene riferita ai fatti naturali e biologici, può considerarsi un loro sinonimo.

Il progresso riguarda soprattutto lo specifico umano: intelligenza, volontà, capacità e opere che ne conseguono. In senso generale fu riferito alla storia universale del genere umano intesa come avanzamento continuo e unilineare; accumulo omogeneo di conoscenze; miglioramento illimitato delle condizioni morali e materiali. In senso specifico fu riferito soprattutto alle scienze sperimentali moderne e alle loro conseguenze: sviluppo omogeneo e cumulativo delle diverse conoscenze; accrescimento intellettuale e morale, mediante le “verità” scientifiche; felicità umana come benessere materiale ecc. Questa visione del progresso raggiunse il suo culmine dal secolo XIX alla metà del XX, divenendo la «seconda coscienza dell'uomo europeo» (cfr. Sasso, Progresso, 1980, p. 636) e la «fede» di intellettuali e classi dirigenti. Come tale fu inculcata nelle masse ed applicata in ogni ambito: cultura, storia, civiltà, istituzioni, scienze, tecnica, mass-media, ecc. Finì pure per invadere gli ambiti politico, sociale, teologico ed ecclesiale (ove cominciarono ad utilizzarsi termini quali “progressisti”, “conservatori”, “reazionari”). Tale espansione ne iniziò il declino, che fu affrettato, poi, dagli usi indiscriminati, polemici e ideologici, del concetto, che lo resero sempre più vago, ambiguo e insignificante.

II. Progresso come tema generale, storico e filosofico

1. Il problema nell'era antica. L'analisi filosofica e storica del concetto evidenzia problemi complessi, in cui s'intrecciano e sovrappongono posizioni contrastanti, negative o positive, di cui non è facile fissare l'ordine storico e logico. Nell'antichità, l'idea non fu del tutto ignota, ma rimase sacrificata da suggestioni mitiche. Nel V secolo a.C., i successi in matematica e medicina portarono i Greci a collegare scienza e progresso. Le guerre (ad es. del Peloponneso) favorirono, invece, il pessimismo. Comunque, nella riflessione sugli eventi cosmici e umani prevalevano le idee di decadenza del mondo e dell'umanità, del ciclo perenne degli eventi (mito dell’“eterno ritorno”), del fato inesorabile e del cieco caso. Per stoici e neo-platonici, il termine indicava il miglioramento personale, morale e ascetico. La rivelazione biblico-cristiana introdusse alcune idee che divennero fondamentali per il concetto di progresso: visione unitaria dell'umanità; salvezza come storia universale; storia orientata dalla Provvidenza verso un fine positivo; concezione lineare del tempo; successione degli eventi storici; esigenza di miglioramento morale e spirituale, ecc.. La speranza e l'ottimismo cristiano verso il futuro ultimo dell'umanità sono tuttora considerati il primo nucleo semantico dell'idea di progresso.

La loro esplicitazione in contenuti più concreti e specifici, tuttavia, dovette attendere il verificarsi di fattori culturali e condizioni storiche assai diverse rispetto a quelle dell’antichità. Nei primi secoli dell'era cristiana, quindi, si alternarono atteggiamenti diversi e valutazioni opposte riguardo al progresso o declino, umano, morale e storico. Nel De civitate Dei, trattando del posto dell'uomo nel cosmo, nel tempo e nella storia, s. Agostino (354-430), sottolineò la polivalenza e ambiguità delle scoperte umane per il destino ultimo, distinguendo quelle necessarie e utili da quelle dannose o pericolose. Valorizzò, quindi, l'intelligenza investigatrice e l'operosità umana. Le sue idee, importanti nella cultura occidentale, sono considerate utili pure per il pensiero scientifico. Esse influirono su tutto il medioevo, in cui si riprese pure l'idea del progresso come impegno personale volto a migliorare non solo la conoscenza ma, soprattutto, il comportamento morale, religioso e spirituale. Secondo s. Tommaso d'Aquino (1224-1274), «per la ragione umana sembra naturale giungere per gradi dall'imperfetto al perfetto» (Summa theologiae, I-II, q. 97, a. 1).

2. Era moderna: progresso e storia. Il contesto mutò radicalmente nella modernità, che dibatté filosoficamente il «progresso storico» dell'uomo e dell'umanità, intrecciando o sovrapponendo interpretazioni positive e negative. Nell'umanesimo e rinascimento il pensiero europeo si concentrò sugli aspetti della vita terrena. Nel secolo XVII, emerse il sapere scientifico-sperimentale, salutato come conoscenza ideale e perfetta. I suoi sostenitori più convinti furono i precursori dell'ideologia del progresso. F. Bacone (1561-1626) vedeva il sapere sperimentale come cumulativo e capace di impieghi utili. Cartesio (1596-1650), per il suo Discorso sul metodo (1637), voleva un titolo più significativo e pretenzioso: Progetto di una scienza universale capace d'innalzare la nostra natura al massimo grado di perfezione. L'identità della natura e il carattere cumulativo del sapere divennero le basi della teoria del progresso umano. L'illuminismo francese propugnava un fideismo ideologico nel progresso, molto utopico e astratto, inteso come motore della storia e destino dell'umanità. Nella seconda metà del secolo XVIII, epoca d'oro dell'illuminismo, la fede nel progresso permeava ogni ambito.

Essa fu divulgata in Francia da Turgot (1727-1781) e Condorcet (1743-1794), in Germania da Lessing (1729-1781), Herder (1744-1803) e Kant (1724-1804), suscitando interesse ed entusiasmo. Voltaire (1694-1778), Diderot (1713-1784), Turgot e Condorcet sostenevano un progresso positivo garantito dal “potere della ragione”, luce dello spirito umano. Solo alcuni ammettevano l'alternarsi di progressi e decadenze (visione ondulatoria). Per i più, il progresso era continuo, omogeneo e cumulativo (visione lineare). Nel XVII secolo, le guerre dette di religione fecero apparire proprio le religioni come il maggior ostacolo al progresso umano (Voltaire). Dal secolo XVIII alla prima metà del XIX queste idee condizionarono il rapporto fra scienza e progresso, pur non mancandone altre, meno propagandate di quelle illuministe. Bossuet (1627-1704), ad esempio, nel Discours sur l'histoire universelle (1681), proponeva il concetto agostiniano di progresso come provvidenza. Altri lo vedevano come una crescita spirituale, morale e conoscitiva. Queste idee, con sfumature e sottolineature diverse, giunsero fino a Kant ed Hegel, senza avere molto seguito. Occorsero i crolli degli ottimismi razionalisti e positivisti, i tragici eventi, capovolgimenti e minacce dei secoli XIX e XX e l'angoscia e disperazione che ne conseguirono, per renderle di nuovo attuali.

Nella modernità, tuttavia, vinse la linea di Condorcet che auspicò, senza però attuarla, una “scienza sperimentale del progresso”. Kant elaborò una teoria del progresso umano e una legge delle civiltà, in cui i progressi cognitivi fanno superare i limiti e i difetti del presente e progredire verso il fine ultimo dell'umanità. Compito del sapere teorico-pratico era di prevedere e orientare il destino, mentre la filosofia potenziava le conoscenze scientifiche e capacità tecniche con cui l'uomo domina la natura e perfeziona la propria libertà. La storia, quindi, era un continuo progresso verso la maggiore libertà umana, mentre la ragione pratico-politica faceva avanzare verso progressi necessari (cfr. Ch. Wild, Die Funktion des Geschichtsbegriff im politischen Denken Kants, “Philosophische Jahrbuch” 77 (1970), pp. 260-275). Nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (1837) Hegel (1770-1831) sottolineò la coscienza storica che fonda la storia, ne indicò direzione e significato e legittimò il progresso di tutto il genere umano, mediante le scienze naturali, la tecnica e le istituzioni giuridiche (tr. it. Firenze 1947, vol. I, p. 164). Questi ambiti di progresso sono gli stessi indicati dai filosofi francesi, da Turgot a Comte.

3. Era moderna: progresso e scienza. Simili ottimismi eccessivi sul progresso, le sue forme e i suoi strumenti di dominio della storia e delle forze naturali, provocarono significative reazioni critiche. All'idea che il progresso richiede la critica scientifica alla ragione filosofica (cfr. Oeing-Hanhoff, 1982, p. 1678) si contrappose quella opposta, che il progresso esige una critica filosofica alla razionalità scientifica. Essa s'impose sempre più fino a che, nella seconda metà del secolo XIX, la critica filosofica e storica poté concentrarsi sui compiti, limiti, metodi e condizioni di esercizio della razionalità scientifica. Essa mise in luce l'ambiguità e problematicità del concetto di progresso, inteso sia in senso generale-globale per la storia umana, che specifico-settoriale per le scienze e la tecnica. Per approfondire il rapporto fra progresso e scienze, si rivisitarono i pensieri, atteggiamenti e giudizi dei fondatori della scienza moderna. La vecchia storiografia aveva attribuito loro le idee che ora sono maggiormente criticate: progresso lineare cumulativo; ragione scientifica volta a sconfiggere superstizioni, religioni, teologia, rischi e mali; progresso inarrestabile e irreversibile delle scienze come legge necessaria della storia; ostacoli sempre provvisori e superabili; natura totalmente dominabile; illimitate capacità creative dell'uomo; scienza come valore centrale della storia universale; scienze e tecnica come modelli universali del progresso, ecc.

La critica storica mostrò, invece, che tali attribuzioni non erano sostenibili. Alcune risultavano ideologiche e propagandistiche o proprie di tempi posteriori. Comunque non erano reperibili nelle opere dei maggiori scienziati quali Keplero, Galilei, Newton, o filosofi quali F. Bacone, Boyle, Cartesio, Pascal, Leibniz. Si ritrovano, piuttosto, nel pensiero ideologico e politico-sociale del secolo XIX e nei positivisti e idealisti che, pur discordi su tutto, concordavano nel “culto al progresso”. Saint-Simon (1760-1825), Proudhon (1809-1865) e Comte (1798-1857), padri del pensiero sociologico, avversarono particolarmente la religione, sostituendo alla fede cristiana nella Provvidenza un fideismo laico nel progresso. Essi applicavano il più rigido determinismo fisicista al progresso tecno-scientifico umano e sociale, e propugnavano l'oggettivismo metodologico, l'esclusione sistematica della soggettività e una rigorosa specializzazione. Tutte queste tesi, poco meno di un secolo dopo, avrebbero subito le critiche più severe dell'epistemologia e della storia delle scienze. Nel frattempo, la cultura scientista propagava i miti del progresso illimitato e le utopie della definitiva sconfitta di mali, dolori, ingiustizie e negatività.

Tra i secoli XVIII-XX, l'idea del progresso tecno-scientifico guidò pure la rivoluzione delle macchine e delle industrie, che fece considerare «progresso» anche i bisogni più artificiali e superflui. Occorse del tempo per scoprire che questi, essendo inesauribili, irrazionali e coercitivi, sprecano in modo crescente risorse, energie e tempo. Il progresso tecno-scientifico in funzione dell'economia e dell'industria mostrava la sua radicale ambiguità. Da un lato migliorava il tenore di vita, debellando malattie, epidemie, carestie e altri mali per cui, senza di esso, l'umanità non sarebbe sopravvissuta. D'altro lato peggiorava la vita con numerosi regressi: inquinamento dell’aria, acqua e suolo; origine di malattie e di morti “da civiltà”; spreco di risorse; possibile annientamento del mondo e dell'umanità. Si esige, dunque, orientamento e controllo. Le moderne società industriali avevano inoltre sperequazioni e ingiustizie. Per eliminarle, Karl Marx (1818-1883) teorizzò le leggi di un progresso inesorabile, necessario, iscritto oggettivamente nella materia. Per attuarlo nella storia, il marxismo si proclamò l'unico detentore della conoscenza scientifica e della sua realizzazione politica ed economica.

4. Era contemporanea: declino inarrestabile dell'idea di progresso. L'evoluzionismo darwiniano mutò radicalmente l'idea del progresso, inteso come avanzamento della storia e dell'umanità verso una direzione desiderabile. Lo ridusse, invece, a una successione casuale, interminabile e cieca, priva di significato cosmologico e di senso storico. In questo modo vanificava proprio quell'idea di razionalità del cosmo e della storia che aveva ispirato la scienza moderna. Ne comprometteva pure il progetto originario di «scoprire la verità per migliorare il futuro dell'umanità» (Crombie, 1976, p. 35). Di conseguenza, Spencer (1820-1903) tentò di recuperare il vecchio senso del progresso, come illimitato miglioramento dell'umanità, mediante il «darwinismo sociale». Dal 1858, operando le più fantasiose estrapolazioni, applicò i canoni evolutivi a tutti i fenomeni umano-sociali (cfr. Rossi, 1976, pp. 83-85). F. Engels (1820-1895) cercò di integrare tale evoluzionismo scientista con le idee marxiane e la storia umana, intesa come storia puramente “naturale”. Questi ibridismi ideologici, intensamente propagandati, divennero popolari, avvallando l'immagine superficiale di un secolo XIX portabandiera del progressismo. In esso, invece, se ne preparò la fine. In campo filosofico, Schopenhauer (1788-1860) denunciava il progresso come un'illusione o, peggio ancora, come il frutto di un'irrazionalità che avrebbe prodotto catastrofi e mali di portata planetaria.

Nel suo saggio Sull'utilità e il danno della storia per la vita (1874), F. Nietzsche (1844-1900) criticava radicalmente la mentalità progressista, dall'illuminismo al positivismo. Le sue idee furono poi riprese dalla scuola di Francoforte. Le scienze antropologiche ed etnografiche confutavano ogni ottimismo, progressismo ed evoluzionismo. Ricercatori, epistemologi, filosofi e storici della scienza muovevano critiche sempre più acute e rigorose ai pregiudizi che identificavano scienza e progresso. Filosofi come Windelband, Rickert, Dilthey, Bergson, Husserl, Mounier, Heidegger, fisici e matematici come Mach, Avenarius, Poincaré, Duhem, Einstein, Planck, Bohr e Born, e sociologi come Weber denunciavano i dogmatismi scientisti dell'oggettività assoluta, neutralità, materialità, leggi ineluttabili, meccanicismo, determinismo, ecc. Le scienze dello spirito (“scienze idiografiche”) prendevano coscienza della propria peculiarità, distanziandosi da quelle naturali (“scienze nomotetiche”) e confutandone i presunti oggettivismi e sostanzialismi. La vecchia fiducia kantiana in un progresso ineluttabile e costante del mondo e della storia sbiadiva nella vita e nei dibattiti filosofici, storici, culturali, scientifici e sociali.

III. Il dibattito epistemologico nel XX secolo

Nel secolo XX, gli sconvolgenti mutamenti nelle scienze fisiche, i tragici interrogativi sollevati dagli “inutili massacri” delle guerre mondiali e locali, l'olocausto ebraico e nucleare, il ricorrere di devastanti crisi economiche, il susseguirsi di barbare e tiranniche dittature ed infine la guerra fredda, distrussero ogni residuo d'ingenua fiducia nel progresso. Il dibattito generale si spense. Ciò avrebbe consentito di concentrare l'attenzione sul progresso delle e nelle scienze, in condizioni storiche e contesti socioculturali assai diversi dall'epoca precedente. Ormai il mondo appariva trascinato da eventi incontrollabili che ispiravano sgomento e pessimismo. Razionalità scientifica, tecnica, economica o industriale, erano criticate e accusate di opprimere le persone, violare la natura, imporre la tirannia delle macchine. Ai temi del progresso subentravano, sempre più, quelli dell'alienazione, emarginazione, restrizione e soppressione della libertà, perdita di valori, fini e significati, sopravvivenza. La modernità era accusata di portare a unanuova barbarie”. La vecchia identificazione razionalista-positivista della scienza con il progresso sopravviveva nei media, nella scuola e, in parte, nel linguaggio comune. Si moltiplicavano le critiche alle attività e imprese tecnoscientifiche, ritenute negative per il pianeta e “regressive” per la specie umana.

I rapporti fra progresso delle scienze e condizione umana focalizzavano l'interrogativo se la scienza possa dirsi un progresso in se stessa o solo rispetto a un generale progresso umano. Di fronte a conoscenze scientifiche più numerose, ampie e rigorose rispetto al passato, ci si chiedeva in che consisteva il loro progresso e come valutarlo. Il dibattito si spostava da un generico e ipotetico progresso delle scienze, a un più concreto e specifico progresso nelle scienze. Questa discussione, assai più interessante e complessa, è tuttora in pieno svolgimento e verrà esaminata nelle prossime sezioni. Il capovolgimento di mentalità, idee, temi e problemi, dovuto a più di un secolo e mezzo di dibattito sul progresso, lo si può ricavare confrontando due significative affermazioni. La prima è del filosofo illuminista M.J. de Condorcet nella sua opera Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain (1792-1793): «verrà il tempo in cui sulla terra il sole splenderà solo su uomini liberi, i quali non riconoscono sopra di sé altro signore se non la ragione, giacché tiranni e schiavi, preti e loro strumenti ottusi e ipocriti esisteranno solo nei libri di storia o sulle scene dei teatri» (Paris 1963, p. 345). La seconda è del fisico contemporaneo M. Born, Nobel per la fisica nel 1954, secondo il quale «le scienze della natura hanno distrutto, forse per sempre, i fondamenti etici della civiltà» (Erinnerung und Gedanken eines Physikers, “Universitas” 23 (1968), p. 273). Entrambe si commentano da sole.

1. Progresso scientifico come problema epistemologico. La seconda delle due precedenti citazioni esprime bene lo spirito che, nella seconda metà del secolo XX, animava il dibattito sul progresso scientifico. Messe da parte le grandi visioni sul futuro storico dell'umanità, si provvide a focalizzare i concreti aspetti epistemologici ed euristici dell'attività scientifica. Si precisarono pure le componenti semantiche dell'idea di progresso: «avanzare», «mutare», «migliorare». Avanzare non significa necessariamente mutare in meglio o migliorare, poiché pure le malattie avanzano, ma peggiorano la salute (regresso). Neppure il mutare è un progredire, poiché ovunque, compreso nelle scienze, s'incontrano alternativamente progressi, regressi e declini. I termini: «migliorare» e «meglio» implicano un giudizio di valore che non è, necessariamente, di tipo etico. Ciò premesso, si notava che i progressi non si potevano presumere né postulare, ma esigevano, ogni volta, dimostrazioni e valutazioni epistemologiche che non sono “misurazioni matematiche”. Con questo, decadevano pure i dogmatismi sul “progresso lineare e cumulativo” della scienza; circa l’unione sostanziale fra “verità di fatto” (componente empirica) e “spiegazioni” (componente teorica); sull'inconfutabilità delle verità scientifiche e sul progresso unilineare e omogeneo delle conoscenze. La nuova impostazione esigeva, soprattutto, nuovi modi e criteri per valutare i “progressi interni”. La loro ricerca, a sua volta, sollevava nuovi problemi di fondo sulla scienza, i suoi orizzonti concettuali, il suo valore di verità, la sua validità metodologica. Tali problemi, pur non trattando direttamente di contenuti, dati, spiegazioni o di valore cognitivo, tuttavia li condizionano fortemente.

La crescente complessità delle conoscenze esige maggior consapevolezza dell'attendibilità, valore logico e metodologico di dati, concetti, princìpi ecc. I criteri per accertare questi aspetti interni, tuttavia, non si possono elaborare a un livello “interno”, bensì ad un livello “metateorico”, ove l'esigenza di significato rende ancor più difficile valutare i progressi. Tale difficoltà diviene massima, infine, a livello metafisico, quando si vogliono unificare diverse spiegazioni dei fatti, mediante pochi concetti fondamentali. È il caso di coloro, ad esempio, che volevano spiegare ogni processo fisico solo con la materia e il movimento. Mach, Einstein ed altri mostrarono, però, che questo era un pregiudizio metafisico (cfr. Agazzi, 1976, pp. 93-96). L'esigenza di criteri interni, metateorici e metafisici, dunque, rende incerta la valutazione dei progressi cognitivi interni alle scienze, o nella scienza. La valutazione dei progressi della scienza in rapporto agli altri ambiti (etico, sociale, pratico, politico, ecc.) esige, invece, un confronto diverso, fra differenti attività, prese sia singolarmente che nel loro insieme. In tal caso, i criteri per valutare un'attività, nella prospettiva del progresso umano globale, devono riguardare il bene e l'utilità autentica di persone, società e culture. Si è già visto che il dibattito moderno mostrò l'inesistenza di un progresso storico del genere umano, globale e continuo in tutti i settori. Ciò che ai criteri interni di un singolo settore o di una scienza può apparire un progresso, per altri ambiti (etica, società, cultura, politica ecc.) o per l'insieme, può essere un regresso.

Il collegamento dei criteri interni di un sottosistema a quelli degli altri sottosistemi e dell'intero sistema, non è mai spontaneo né automatico, ma problematico, esigendo un acuto discernimento critico. A sua volta, il passaggio da valori e criteri cognitivi a quelli deontologici esige nuovi e adeguati modi di espressione. I progressi o regressi della scienza, quindi, vanno valutati in base alle esigenze e ai valori generali del sistema globale e a quelli specifici degli altri sottosistemi, ordinati secondo la loro importanza e significato, per il bene effettivo di persone, società e culture. Tutto ciò è indispensabile e decisivo per valutare globalmente ogni progresso. Esperienza storica, critica epistemologica e riflessione filosofica confermano che, nel valutare globalmente un progresso, nessun legittimo criterio (interno, metateorico, metafisico, esterno, deontologico o sociale) può essere escluso. La valutazione comporta vari passi. Nel primo si devono considerare i progressi interni, o nella scienza. Essi distinguono ogni disciplina dagli altri ambiti, senza separarla, ma valorizzandone le reciproche relazioni. Ogni scienza ha il diritto di valutare i propri progressi in base ai propri criteri cognitivi, ponendo il valore cognitivo come suo criterio di progresso. È ciò che la costituzione Gaudium et spes riconosce come sviluppo delle conoscenze secondo la legittima autonomia della scienza (cfr. n. 36; cfr. anche Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, n. 13). Non significa, tuttavia, il diritto di farne il valore assoluto, supremo o superiore a ogni altro. È pure indebito identificare (o confondere) i progressi nella scienza con quelli della scienza.

Nel secondo passo si deve stabilire la scala dei valori relativi a persone, società e culture, che le scienze non possono decidere, ma devono rispettare. Nel terzo passo si cerca d'inserire l'attività scientifica e le sue conseguenze nel contesto del sistema globale di valori che ne giudica e valuta i risultati (progressi o regressi). Le scale deontologiche sembrano le più adeguate a contestualizzare i valori, armonizzandoli in configurazioni “ottimali”. In questo contesto sistemico, ottimale significa massima realizzazione dei valori prioritari, mediante la massima realizzazione di quelli subordinati. I princìpi metafisici non ostacolano né tale realizzazione, né la logica interna del discorso scientifico, né escludono a priori alcuna categoria o immagine del mondo. Il proprio della metafisica, infatti, nel ricercare la verità, è il vaglio critico, senza soste e fino in fondo, di tutti i princìpi, a partire dai propri e di ogni ragione, a partire dalla propria, nell'ottica dei primi princìpi e dei fini e valori ultimi.

2. 1960-1970: il confronto fra fondamentalismo e scetticismo. Queste idee, fino agli anni '60 e '70, dovettero lottare contro i dogmatismi del progresso scientifico lineare, omogeneo e cumulativo. Prima che Thomas Kuhn (1922-1996) presentasse la scienza come «struttura piuttosto sgangherata, con scarsa coerenza fra le sue diverse parti» e come un «rompicapo» (Kuhn, 1969, pp. 72, 57-58), dominava incontrastata l’idea di vederla come un edificio armonioso, dalle basi solide e insostituibili, in costante e ordinata crescita da una verità all'altra. I sistemi teorici apparivano successioni di dati fondamentali, secondo categorie fisse e norme stabili di valutazione razionale. Alcuni filosofi avevano addirittura fissato i criteri del progresso scientifico: dignità cognitiva di una teoria (principio di verificabilità di Ayer); misura del suo potenziale di spiegazione (potere sistematico di Hempel); misura del suo grado di conferma (logica analitica di Carnap). I tentativi di applicarli, tuttavia, fallirono, spingendo gli storici delle scienze a definirli una «caricatura dello sviluppo reale della scienza» (Cohen, 1976, p. 108), in quanto idee e immagini che non reggevano più. Il dubbio coinvolgeva tutti i problemi dell'“unitarietà” e della “costanza” del progresso scientifico. I “fondamentalismi” positivisti e scientisti avevano troppo semplificato i problemi del confronto fra le teorie scientifiche e quelli della razionalità scientifica. La reazione, quindi, fu talmente forte da negarne persino la possibilità. Kuhn la negava in base alla loro diversità di norme e obiettivi, Feyerabend (1924-1994) in base all'incommensurabilità dei loro linguaggi. Ciò, però, apriva la strada allo scetticismo.

Una maggior riflessione, tuttavia, mostrò che alla base degli eccessi, sia dei fondamentalisti che degli scettici, vi era lo stesso pregiudizio di ritenere i problemi scientifici non influenzabili dalle circostanze storiche né dai mutamenti culturali. Popper (1902-1994) ne riconosceva l'importanza per il progresso nelle scienze, ma in termini troppo generici. Non ponendo limiti al carattere congetturale della conoscenza accumulata nel suo «terzo mondo» (o mondo tre) e rinunciando a ogni esigenza di coerenza, finiva per ammettervi pure le congetture contraddittorie. In questo modo, non vi erano criteri per comporre la generalità e uniformità dei princìpi razionali con la particolarità e mutabilità dei problemi, criteri e dati scientifici. Per rimediarvi, Toulmin (n. 1922) ipotizzò un'idea di progresso “darwiniano”, rivelatosi subito generico e inconsistente. Lakatos (1922-1974) sostenne che la ricerca di un criterio per distinguere le ipotesi scientifiche da quelle non scientifiche (criterio di demarcazione) era inseparabile da quella per distinguere fra ipotesi migliori e peggiori (criterio di preferenza). Rimproverò a Popper di confrontare solo ipotesi singole e propose, invece, di confrontare i loro insiemi o sequenze. Infine, definì il progresso come «comprensione sempre più profonda» di quanto accade in un'area della natura, anziché «informazione sempre più precisa», allo stesso livello.

Dimenticò, tuttavia, che il tema del progresso scientifico riguardava i valori e non i fatti. In più, gli storici della scienza mostrarono che molte sequenze reali di eventi non si adattavano al suo schema, per cui il progresso scientifico non poteva essere valutato. All'altro estremo, matematici e fisici volevano addirittura «misurarlo». Non trovando una via diretta, proposero di partire dalla ridondanza dei dati sensibili, per poi eliminarla progressivamente, mediante codici. Ammisero, però, che la valutazione quantitativa comporta un itinerario ipotetico e complesso, di cui è difficile prevedere la durata, essendo irto di problemi e difficoltà. Altri ammisero di non sapere neppure dove cominciare invitando, al massimo, solo a sperare un giorno di riuscirvi (cfr. Toraldo di Francia, 1976, p. 156). I dubbi e le negazioni sul confronto fra teorie scientifiche, sollevati negli anni '60-'70, si ripercossero sul dibattito degli anni '80-'90, in cui si cercò di circoscrivere il problema della “commensurabilità” e di impostarlo secondo nuove prospettive.

3. 1980-1990: le prospettive semantiche oltre fondamentalismi e scetticismi. Di queste ne esamineremo due. La prima muove dall'idea che l'unico criterio per accertare la verità di una teoria scientifica sia la sua “applicabilità” o “riproducibilità tecnica”. Il nesso fra mediazione teorica (significati) e riproducibilità tecnica (apparati tecnico-strumentali) svela la dimensione ermeneutica della scienza, differenziandola dagli altri saperi e impedendole di diluirsi in un'indistinta ermeneutica universale del sapere. L'epistemologia non potrebbe dire se le teorie sono, “di diritto”, incommensurabili o meno. Può solo asserire che, in un dato momento dello sviluppo scientifico, non si riesce ancora: a) ad istituire correlazioni problematiche, concettuali, strumentali e tecniche fra alcune teorie; b) a scegliere fra ipotesi incompatibili, non potendo tradurre in modalità tecnico-operative, le loro mediazioni concettuali. Rispetto alle proposte dibattute fra Popper, Kuhn, Feyerabend, Lakatos, Toulmin, ecc., quest'impostazione consente: a) di accettare le teorie scientifiche come descrizioni di aspetti o livelli reali del mondo reale; b) di respingere il “fallibilismo” che giudica false tutte le vecchie teorie. Queste rimarrebbero vere, anche se superate da quelle aventi maggior profondità, evitando l'incommensurabilità, che conduce al relativismo epistemologico e fa sostituire, anziché progredire, concetti, teorie e strumenti. Si evita pure un progresso meramente cumulativo, privo di nessi concettuali fra successive acquisizioni.

Questa visione del progresso delle teorie scientifiche si può così riassumere: a) le variazioni di significato e di riferimento rimangono strettamente legate fra loro e agli apparati tecnici (strumenti), che garantiscono la riproducibilità dei risultati sperimentali; b) tali variazioni segnano un progresso, solo se provocano maggior determinatezza semantica e referenziale nel passaggio da una teoria all'altra; c) tale maggior determinatezza dev'essere strettamente connessa alla possibilità di operare tecnicamente sulla realtà. La concezione ermeneutica mostra il sapere scientifico come una “spirale” ove le applicazioni passate (di termini, concetti, teorie, princìpi metodologici, ecc.) sono essenziali a comprendere quelle nuove che, con le loro prospettive, reinterpretano le precedenti applicazioni e comprensioni. Questa “spirale ermeneutica” consente di comprendere il progresso scientifico, poiché permette di giudicare migliore quella teoria scientifica che riesce a unire le altre in un insieme coerente e a collocarle in una narrazione storica intelligibile. Deve spiegarne in modo nuovo, non solo la natura, ma anche il precedente modo di comprenderla (cfr. MacIntyre, 1980, pp. 69-73). A sua volta, la “riproducibilità tecnica” distingue le scienze empiriche dalla loro storiografia. Quando il confronto è possibile, è migliore la teoria che fornisce una sintesi migliore, sia della storia della scienza che delle applicazioni tecniche (cfr. Buzzoni, 1995, pp. 92, 207, 220-227).

La seconda prospettiva è, sotto certi aspetti, analoga, ma imposta il problema in termini diversi. Neppure essa pretende di essere definitiva, ma cerca di legare il discorso filosofico-epistemologico qualitativo alle esigenze culturali e umano-esistenziali più profonde. La presenteremo qui nei termini utilizzati da Boniolo (Metodi e rappresentazioni del mondo, 1999). Tale prospettiva considera sufficiente ogni teoria che risulti coerente e soddisfacente al momento in cui è formulata (cfr. ibidem, pp. 6-11). La scienza, infatti, come ogni espressione umana, è comprensibile solo se collegata al mondo quotidiano della vita (Lebenswelt). Premesso che si può parlare di pensiero filosofico progressivo o regressivo, in senso non globale, ma solo locale, l'autore considera la logica come indispensabile, ma insufficiente. Il ragionamento deduttivo vale solo per le “teorie scientifiche”, non per la “dinamica scientifica”, che richiede invece la forma argomentativa. Secondo Boniolo, queste premesse dovrebbero evitare i vicoli ciechi delle precedenti dispute fra Popper, Kuhn, Lakatos e gli altri (cfr. ibidem, pp. 23, 39, 59-60). Il problema del progresso scientifico si risolverebbe, allora, mediante le nozioni di: «area semantizzante», «rete intenzionale» e «rete reale». Area semantizzante sarebbe l'insieme delle regole sintetizzate nel concetto e sufficienti ad afferrarne il senso. Più essa è ampia, più consente di afferrare profondamente i sensi del concetto. Essa, tuttavia, rispetto all'enorme complesso dei concetti, rimane sempre una porzione molto ridotta delle proprietà che appartengono ai vari livelli cognitivi del soggetto. Pertanto, può essere afferrata solo entro una rete conoscitiva.

Di qui i concetti di «rete». «Rete intenzionale» è l'intreccio delle proprietà intenzionali, i cui nodi sono dati dagli enti intenzionali; «rete reale» è l'intreccio delle proprietà reali, i cui nodi sono dati dagli enti reali (entità) (cfr. ibidem, pp. 337-339). Per conoscere un oggetto, dunque, occorre un concetto con cui denotarlo e un'area semantizzante in cui collocarlo. Ciò basta per gli enti intenzionali. Per quelli reali, invece, si esigono pure le procedure sperimentali. Conoscere l'intenzionale, quindi, significa costruire, fra gli elementi del livello intenzionale, le stesse relazioni costruite fra gli elementi del livello concettuale. Conoscere il reale significa imporre al reale un sottoinsieme di relazioni intenzionali, fra gli enti intenzionali, in modo da costituire relazioni reali fra gli enti reali. Ogni teoria, dunque, è una porzione di rete concettuale o una parte di un tutto interdipendente. Per questo, la costruzione di una nuova teoria scientifica (nuova porzione) non soppianta mai totalmente la vecchia, né esige la sua scomparsa. Poiché non conosciamo fatti singoli, ma solo i loro insiemi strutturati in un dato modo, dobbiamo sempre muovere dalle strutture che già li rappresentano. Se esse non bastano, dobbiamo riordinarle, per adeguarle alla situazione empirica totale (cfr. ibidem, pp. 341-347). Un vero “avanzamento” della conoscenza empirica si ha solo quando un'effettiva modifica dell'insieme dei concetti di “proprietà” comporta un'effettiva modifica dell'insieme dei concetti di “ente”.

Ciò significa che alcuni concetti, che prima erano presenti, ora non lo sono più, mentre altri prima assenti, ora sono presenti. Le rappresentazioni rivelatesi totalmente inadeguate a rappresentare la realtà verranno ricordate solo a livello storico. Riguardo alla realtà, ogni teoria elabora gli aspetti o esplicita i “nodi”, che le altre non possono sviluppare nello stesso modo. Quest'impostazione del problema fa apparire le teorie e le rappresentazioni scientifiche non più come semplici formalizzazioni volte a raggruppare e ordinare i risultati empirici conosciuti, ma come «significati conoscitivi volti a evidenziare, semanticamente e intersoggettivamente, determinati aspetti della realtà» (ibidem, pp. 375-377). Ciò porta a distinguere fra l'aspetto epistemologico e quello gnoseologico. Entità od oggetti fisici non sono realtà in sé, ma sotto l'aspetto epistemologico sono modelli ossia finzioni, mentre sotto l'aspetto gnoseologico sono nodi di proprietà reali o di aspetti della realtà, resi significativi dall'osservazione. Le teorie, invece, sotto l'aspetto epistemologico servono a rendere regolari (trattati da regole) gli aspetti delle realtà irregolari, mentre sotto l'aspetto gnoseologico servono a rendere significativa una parte della realtà. Le teorie che propongono enti “non osservabili per principio” vanno criticate. Quelle che propongono enti “non osservabili per motivi tecnologici”, o restano incerte per sempre, o potranno divenire verificabili, direttamente o indirettamente (mediante gli effetti) (cfr. ibidem, pp. 380-384). Non potendo prevedere con certezza gli sviluppi futuri del dibattito posto in questi termini, e perdurando i pareri discordi su quello posto nei termini precedenti, occorre continuare la ricerca, le riflessioni e gli approfondimenti.

IV. Tre secoli di dibattito sul progresso: riflessioni e osservazioni

Gli elementi affiorati nella lunga discussione sul progresso, sia in senso generale che in senso specifico, ci consentono ora di sottolineare gli aspetti di maggior rilievo per il rapporto fra scienza e fede. In primo luogo è emerso che nell'idea generale di progresso confluirono numerosi pregiudizi, fra cui vanno ricordati i seguenti. Le concezioni secolaristiche della storia che vedevano le religioni come superstizioni (Voltaire) e le scienze e tecniche come unici fattori per migliorare l'umanità (Enciclopédie). Le idee della superiorità assoluta della civiltà europea (tardo-illuministi); del progresso generale accelerato da ogni progresso particolare (Condorcet); dello sviluppo dello spirito umano dalla religione alla filosofia e alla scienza (Turgot, Comte); dell'evoluzione come massima espressione del progresso (Spencer). Tali concessioni e idee produssero una visione del progresso come miglioramento illimitato, cumulativo, unilineare e universale, esteso a tutte le condizioni intellettuali, morali, culturali, sociali e materiali del genere umano e della storia. Nel Settecento tale idea era ancora flessibile e prudente, mentre nella prima metà del secolo XIX fu presa come legge rigida e necessitante dell'evoluzione lineare, verso il massimo benessere e felicità. Dalla metà del secolo XIX questa rigidezza dogmatica fu oggetto di critiche sempre più severe che portarono al suo abbandono.

In secondo luogo è emerso che il dibattito sul progresso, accompagnandosi allo sviluppo della scienza, ne condizionò fortemente l'immagine e la comprensione. Vennero indebitamente sovrapposti problemi generali, riguardanti la storia umana e problemi specifici, interni alla scienza (fondazione, presupposti, rigore e valore di verità dei dati, concetti, teorie, metodi, ecc.). Per la riflessione epistemologica e la ricerca storica sulle scienze, tuttavia, i problemi rilevanti, erano quelli interni e specifici. Essi dovevano precedere o, comunque, nettamente distinguersi da quelli generici. Sviluppando una seria discussione su questioni come quelle del valore di verità del sapere scientifico, della natura della sua verificabilità, del suo carattere di sapere pubblico e democratico, dell'attendibilità della scienza come dominio razionale sul mondo e conquista della natura, si sarebbero evitati o ridimensionati pseudoproblemi come la superiorità dei moderni sugli antichi, l'assoluta diversità della propria epoca o quello circa il destino dell'umanità, del tutto estranei al discorso sulle scienze e inconcludenti. In terzo luogo è emerso che il discorso critico sulle scienze, fino alla metà del secolo XIX, fu estremamente limitato e guidato da filosofie inadeguate. Solo il declino delle idee illuministe, razionaliste e positiviste, consentì di vedere l'inconsistenza di un progresso continuo e omogeneo generalizzato a tutta l'umanità. La perdita d'interesse per questo problema consentì alla critica epistemologica e storica alla scienza, divenuta più matura, di proporre il problema specifico del progresso all'interno delle scienze.

Oggi sembra in aumento il numero degli operatori scientifici e dei filosofi competenti e consapevoli di problemi epistemologici. Nella fisica, ad esempio, vi è una maggiore consapevolezza della difficoltà di raggiungere risposte definitive, teorie unificate globali. In tutti i campi, molti ritengono che le incertezze non mancheranno mai e che i progressi consistono, soprattutto, nel rimettere in discussione le precedenti certezze. In quasi tutte le scienze si ritiene che quando si pensava di aver raggiunto un punto indubitabile, si scoprì che la realtà è diversa. Perciò, non ci si attendono risposte definitive e la scienza appare un processo continuo, certamente capace di conoscere alcuni aspetti irreformabili della realtà, ma sempre disposto ad approfondimenti, e meno sicuro di quelle che considerava certezze assolute. Sul progresso delle teorie si nota che i criteri di una buona teoria — semplicità, eleganza, controllabilità, potere unificante — quasi mai si possono soddisfare tutti insieme, restando ideali puramente regolativi. Nella cosmologia si riconosce che gli eventi iniziali non possono inviarci nemmeno un messaggio e che le cosmologie che postulano più universi, le cui distanze superano quella percorsa dalla luce nel tempo che corrisponde all'età del nostro universo, sanno più di speculazione che di scienza.

Quanto al rapporto fra attività scientifica e progresso personale, culturale e sociale, manca tuttora un'adeguata riflessione euristica, gnoseologica ed etica. Se verrà svolta, sarà comunque ben diversa da quelle della modernità che abbiamo esaminato. Essa costituirà un impegno primario per il nuovo secolo e millennio. Sui problemi di fondo in esso coinvolti, fede e pensiero cristiano hanno molti elementi utili da proporre, che esponiamo ora, qui, dopo alcune precisazioni storiche e teoriche.

V. La nozione di «progresso» nei documenti ecclesiali

Come prima precisazione, ricordiamo che anche riguardo ai documenti ecclesiali bisogna distinguere il senso del termine «progresso»: se inteso cioè in modo generale, riguardo a tutta la storia, o in modo specifico, riguardo alle scienze. Inoltre occorre collocare i vari documenti nel loro esatto contesto culturale. In quelli anteriori al Concilio Vaticano II il termine «progresso» non ricorre con molta frequenza. Fra essi fu soprattutto la proposizione n. 80 del Sillabo (8.12.1864), ad essere letta da alcuni come «opposizione cattolica al progresso» (Angelini, 1982, p. 1222). In realtà, la proposizione condannata affermava: «il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e accordarsi col progresso, il liberalismo e la recente cultura» (DH 2980). Riguardava, quindi, il “progresso in senso generale”, com’era inteso dal liberalismo e dalla cultura contemporanea, che in quegli anni, tuttavia, cominciava ad essere già criticato e confutato. Quanto al “progresso in senso specifico”, ossia riguardante le scienze, Pio IX, già nella lettera Tuas libenter (21.12.1863) all'arcivescovo di Monaco e Frisinga, aveva respinto l'accusa che la Sede Apostolica vi si opponesse (DH 2875). Tale idea la ribadì ancora nel Sillabo (cfr. DH 2912, 2913), riconoscendo il valore delle scienze e dei loro progressi, ma sollevando critiche e riserve a un'idea di progresso generalizzato che era comunque ambigua, e che in quegli anni, i notevoli pensatori che abbiamo indicato, e non solo essi, cominciavano già a discutere e criticare.

Il Concilio Vaticano I, a sua volta, nella Costituzione dogmatica Dei Filius (24.4.1870) respingeva l'idea che i dogmi dovessero mutare secondo i progressi scientifici (cfr. DH 3043), perché la dottrina cattolica da sempre ritiene impossibili oggettivi contrasti fra fede e ragione (cfr. DH 3004-3005). Ciò vale pure per il decreto Lamentabili (3.7.1907) in cui questa volta Pio X respingeva l'idea di dover adeguare ai progressi delle scienze la dottrina cristiana su Dio, sulla creazione, la rivelazione, la dottrina sul Verbo incarnato e sulla redenzione (cfr. DH 3463-3465). Ciò che tali testi giustamente rifiutavano è il concordismo e la “confusione dei piani” su cui si muovono i due diversi discorsi della fede e della scienza. Letti correttamente, anticipano il giudizio dell'epistemologia contemporanea, che considera le acquisizioni scientifiche parziali, provvisorie e sempre rivedibili. Pertanto, non contrastavano il progresso scientifico, ma le sue indebite interpretazioni che sarebbero state respinte, un secolo dopo, dallo stesso pensiero laico. Quanto al Concilio Vaticano II, affrontò i temi del progresso ampiamente e in diversi documenti. Il termine ricorre in molti luoghi: Ad gentes 12; Apostolicam actuositatem 1, 4, 7; Gravissimum educationis 1, 3, 8, 11, 12; Inter mirifica 2, 5, 12, 13; Nostra aetate 2; Presbyterorum ordinis 17, 19; Gaudium et spes 4-7, 9; 20, 23, 35, 37, 39, 56-57, 62, 64, 73; Lumen gentium 65.

È soprattutto il testo di Gaudium et spes ad esaminarne maggiormente i vari aspetti. Considerato il divario fra organizzazione temporale e progresso spirituale (n. 4) e fra mentalità tecnoscientifica, cultura e modi di pensiero (n. 5), esso annota che il progresso economico, da solo, non migliora le persone, né i loro rapporti. Non attua, quindi, la giustizia e la fraternità, ma può dar loro una base materiale (nn. 6, 35). La negazione di Dio e della religione può essere favorita da un certo progresso tecnoscientifico ma, soprattutto, deriva da filosofie e ideologie (nn. 7, 20). La storia mostra non solo progressi, ma anche regressi (n. 9). Il progresso umano, quindi, se favorisce le relazioni, il dialogo fraterno, la dignità spirituale e la comunitarietà (n. 23), è un bene per l'uomo e può servire alla felicità umana (n. 37). Rimane, tuttavia, soggetto alle tentazioni del potere e della potenza, vanità, malizia, superbia ed egoismo. Non va confuso, quindi, col Regno di Dio, pur potendo favorire il bene della società (n. 39). Il rapporto fra progresso, cultura, scienze e tecnica è espressamente considerato ai nn. 56-57. Il progresso tecno-scientifico va distinto dalla conoscenza delle «intime ragioni delle cose». Non coincide con essa e non può neppure darla. Offre, tuttavia, importanti valori positivi per la cultura scientifica, quali: gusto per le scienze, rigorosa fedeltà al vero, necessità di collaborare con gli altri operatori scientifici, solidarietà internazionale, coscienza delle proprie responsabilità e migliori condizioni di vita. Esso è pure fondamentale per uno sviluppo economico orientato al servizio dell'uomo (n. 64) e per quello socio-culturale rivolto al bene comune (n. 73). Nei testi finora citati il termine «progresso» è indicato esplicitamente, mentre in molti altri ne sono espressi i contenuti o le descrizioni. La più significativa lo presenta come l'«ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita» (n. 34). Questa definizione è valida per ogni forma di progresso comunque inteso: storico-umano o scientifico, in senso globale e generale o in senso specifico e particolare, per gli apporti generali o per gli specifici contributi di scienze e tecnica. Essa è ben lontana dagli eccessi, esagerazioni e assolutizzazioni dei secoli XVIII e XIX, consentendo approfondimenti realistici e positivi. Esprime gli stessi caratteri che hanno consentito alle grandi encicliche sociali, da Rerum novarum (Leone XIII, 15.5.1891) a Centesimus annus (Giovanni Paolo II, 1.5.1991) di affrontare in modo propositivo anche i problemi del progresso economico e sociale.

Riguardo al progresso di scienze e tecniche, pure i documenti magisteriali più recenti hanno sottolineato la grande ricchezza che questo costituisce per tutto il mondo attuale ricordando, tuttavia, che scienze e tecniche da sole non possono spiegare l'origine trascendente e il fine ultimo dell'esistenza umana. Devono perciò tener conto degli interrogativi metafisici e morali da loro resi sempre più vivi e urgenti, perché sovente conoscenze ritenute scientificamente certe devono confrontarsi con la verità integrale sull'uomo. In tali casi occorre evitare contraddizioni fra la constatazione scientifica e la verità integrale e obbiettiva dell'uomo, superando la tentazione di ritenere la spiegazione unica ed esaustiva. Il mito del progresso non deve far ritenere moralmente buona qualsiasi ricerca o applicazione, senza aver soppesato a sufficienza il bene autentico che procura alla duplice dimensione corporale e spirituale dell'uomo (cfr. Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 28.10.1994, nn. 2-3, 5). La comunità scientifica è tenuta a mantenere l'ordine dei fattori, situando gli aspetti scientifici nell'ambito di un umanesimo integrale che tenga conto di tutte le dimensioni (metafisiche, etiche, sociali, giuridiche) che s'impongono alla coscienza. Quando si tratta dell'uomo, i problemi superano l'ambito della scienza, che non può spiegarne la trascendenza, né dettare le regole morali che derivano dalla centralità e dignità primordiali della persona nell'universo. Spetta quindi all'intera comunità umana promuovere l'integrazione umanistica e antropologica (cfr. ibidem, nn. 5-6, 9).

VI. Progresso scientifico e rapporti fra scienza e fede

Queste puntualizzazioni sono essenziali per impostare correttamente i problemi del progresso nell'ambito dei rapporti fra scienza e fede. Abbiamo visto che il clima culturale si è schiarito dopo che il pensiero laico riconobbe l'inconsistenza e improponibilità di un progresso generale, continuo e costante della storia, dell'umanità e della scienza. Il pensiero cristiano, quindi, può guardare serenamente agli esiti del dibattito. Le accuse alla fede e alla Chiesa di contrastare il progresso, e i conseguenti sensi di colpa o inferiorità di alcuni credenti, si rivelano infondati. Emerge, al contrario, che le critiche e resistenze opposte dal pensiero cristiano erano legittime e motivate. Forse dovevano essere ancor più vigorose, perché si sono mostrate pure valide a orientare il dibattito sul progresso nelle e delle scienze verso la giusta direzione e verso forme più realistiche e corrette. Attualmente due di esse appaiono più valide e importanti. La prima è l'invito rivolto all’epistemologia, alla filosofia e alla storia delle scienze a focalizzare sempre più la loro attenzione sugli elementi specifici e interni all'attività scientifica. Oggetto e scopo di tale attenzione è il confronto fra ipotesi, teorie, metodi, logiche e modelli, per valutare quelli preferibili e le ragioni di tale preferenza. Esso riguarda i problemi “interni” alla scienza che, per gli aspetti puramente scientifici, coinvolgono gli operatori scientifici specializzati nelle specifiche discipline e, per gli aspetti “metascientifici”, coinvolgono gli epistemologi, filosofi e storici della scienza.

Nei vari campi, come si è visto, i problemi non sono ancora del tutto chiariti, per cui vi sono, e forse vi saranno sempre, posizioni diverse o discordi. Superate le vecchie impostazioni idealiste, positiviste e neo-positiviste, rimangono da discutere quelle falsificazioniste, convenzionaliste, strumentaliste, ecc. che, in molti aspetti, dovranno essere corrette, integrate o superate. Il loro maggior rischio è di facilitare forme di relativismo e scetticismo condivise e diffuse dal pensiero postmoderno. Vi è poi il secondo aspetto del problema che, più in generale, riguarda il valore di verità e il significato della “conoscenza” scientifica (problema euristico, ermeneutico e gnoseologico) e il valore etico-morale dell'“attività” scientifica (problema etico e sociale). Questi problemi non sono più puramente interni alla scienza, coinvolgendo pure dimensioni e implicazioni etiche, culturali e sociali. La loro soluzione, quindi, non può essere affidata solo agli operatori scientifici, ad epistemologi e storici della scienza, poiché esige un discorso assai più ampio e articolato, che chiama in causa pure filosofi, moralisti e teologi. Anche a questo riguardo la fede, il pensiero cristiano e i documenti ecclesiali offrono indicazioni particolarmente utili. Essi sono fortemente interessati al problema della verità delle scoperte e delle applicazioni (biologia, biogenetica ecc.), sempre più numerose, che incidono direttamente sulla persona, i suoi pensieri e azioni. Esse rendono più urgente l'esigenza di rispettare tutto ciò che è umano e consentire socioculture più armoniose. Si insiste, quindi, perché le teorie rispondano alle esigenze della serietà scientifica, ossia di seri e solidi fondamenti. È pure decisivo discernere ciò che, in un determinato campo e in un dato stadio della scienza, può considerarsi acquisito, dotato di probabilità, oppure imprudente e irragionevole, e quindi da respingere (cfr. Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, n. 13).

Riguardo allo sviluppo, Giovanni Paolo II ha sottolineato due aspetti. Il primo riguarda ciò che appartiene all'“orizzontalità” dell'uomo e della creazione (cultura, ricerca, tecnologia ecc.). Il secondo riguarda ciò che appartiene alla “verticalità”, ossia a quanto è più profondo nell'uomo, dà senso all'essere e all'agire, si colloca tra la sua origine e il suo fine, lo trascende e lo volge al Creatore. Tali aspetti non sono uniformi, rettilinei e armoniosi. Tuttavia sono entrambi necessari, per cui vanno gestiti saggiamente. Infine, l'intelligibilità attestata dalle ricerche e scoperte delle scienze e dalle invenzioni e innovazioni tecnologiche non mostra il mondo come puro cháos, ma come kósmos, ordine e leggi che è possibile apprendere e pensare. Rinvia pure a quel «Pensiero trascendente e Logos originario» di cui ogni cosa porta l'impronta (cfr. Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, n. 14). Quest'impostazione dà pieno senso a un discorso sul progresso “umano”, se esso riguarda il bene che può servire alla vera felicità dell'uomo e il male che vi attenta, perseguendo potere, vanità e malizia (cfr. Gaudium et Spes, n. 37). In questo senso esige una profonda riflessione antropologica ed etico-morale. Dà pure senso a un discorso sul progresso “culturale”, se esso riguarda le grandi speranze e le numerose antinomie di difficile soluzione finora analizzate. Soprattutto, se riguarda pure il pericolo che la fiducia nelle scienze e nelle tecniche illuda l'uomo di poter bastare a se stesso e lo distolga dai valori superiori (cfr. nn. 56-57). Infine, dà pure senso a un discorso sul progresso “scientifico”, se riguarda una ricerca veramente conforme a tutte le esigenze euristiche e morali finora indicate. A queste condizioni, non vi potrà mai essere vero contrasto con le vere esigenze dell'uomo e della verità e, quindi, della fede (cfr. n. 36). Come conclusione, appaiono molto pertinenti le precisazioni del Catechismo della Chiesa Cattolica che, sotto diversi aspetti, puntualizzano lo stato attuale del problema (cfr. nn. 2293-2294). Esse servono pure a un'ulteriore riflessione sull'autentico progresso della scienza, della tecnica e della cultura.

Dice la prima: «La ricerca scientifica di base, come la ricerca applicata, costituiscono un'espressione significativa della signoria dell'uomo sulla creazione. La scienza e la tecnica sono preziose risorse quando vengono messe al servizio dell'uomo e ne promuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti; non possono tuttavia, da sole, indicare il senso dell'esistenza e del progresso umano. La scienza e la tecnica sono ordinate all'uomo, dal quale traggono origine e sviluppo; esse, quindi, trovano nella persona e nei suoi valori morali l'indicazione del loro fine e la coscienza dei loro limiti» (CCC, 2293). La seconda aggiunge: «È illusorio rivendicare la neutralità morale della ricerca scientifica e delle sue applicazioni. D'altra parte, i criteri orientativi non possono essere dedotti né dalla semplice efficacia tecnica, né dall'utilità che può derivarne per gli uni a scapito degli altri, né, peggio ancora, dalle ideologie dominanti. La scienza e la tecnica richiedono, per il loro stesso significato intrinseco, l'incondizionato rispetto dei criteri fondamentali della moralità; devono essere al servizio della persona umana, dei suoi inalienabili diritti, del suo bene vero e integrale, in conformità al progetto e alla volontà di Dio» (CCC, 2294). Ciò delinea bene il senso di un progresso autentico che rispetti, senza confusioni, le esigenze della fede, della scienza, dell'umanità e della cultura.

 

Documenti della Chiesa Cattolica correlati: 
Paolo VI, Populorum progressio, 26.3.1967; Gaudium et spes, 9; 23, 26, 33-39, 63-66, 73; Ad Gentes, 12; Apostolicam actuositatem, 7; Inter mirifica, 5; Redemptor hominis, 15-16; Sollicitudo rei socialis, 27-31. Giovanni Paolo II: Allocuzione all'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), Parigi, 2.6.1980, Insegnamenti III,1 (1980), pp. 1636-1655; Lettera al Direttore della Specola Vaticana, 1.6.1988, OR 26.10.1988, pp. 5-7. Giovanni Paolo II, Discorsi alla Pontificia Accademia delle Scienze: 29.10.1990, Insegnamenti XIII,2 (1990), pp. 961-967; 31.10.1992, Insegnamenti XV,2 (1992), pp. 456-465; 28.10.1994, Insegnamenti XVII,2 (1994), pp. 562-569. CTI, Fede e inculturazione, 8.10.1988, EV 11, 1347-1423.

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