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Lo slancio vitale e il significato dell’evoluzione

Henri Bergson
1907

L’evoluzione creatrice 

Nello stesso anno in cui Darwin pubblica L’Origine delle specie, nasce a Parigi Henri Bergson (1859-1941). Per comprendere le forme viventi, il filosofo francese intende superare la dialettica fra meccanicismo e finalismo facendo ricorso alla nozione di slancio vitale (élan vital). Il meccanicismo-naturalismo era per lui insufficiente perché non spiegava l’unità del vivente, interpretandola come punto finale invece che come punto di partenza. Il finalismo-artificialismo (inteso come intelligenza ordinatrice, quasi di stampo antropomorfico) era anch’esso insufficiente perché non spiegava la presenza del disordine, dello spreco, delle derive involutive, dei fallimenti. Bergson ne L'evoluzione creatrice ha ragione nel segnalare che ambedue queste prospettive (ancora oggi presenti, con nomi diversi) interpretano lo sviluppo evolutivo dal di fuori e non dall’interno: entrambe sono forme demiurgiche. I “pezzi”, in sostanza, vengono assemblati da agenti esterni ad essi: rispettivamente il Caso e un Artefice. Lo “slancio vitale” è invece una forza interna, una tendenza innovativa, una esigenza di creazione. L’idea di “slancio vitale” è suggerita dall’osservazione di una sorta di flusso interno allo sviluppo evolutivo, che esprime la capacità di questo di cercare le proprie strade in modo creativo, non arrestandosi di fronte agli ostacoli. Se in uno schema darwiniano classico, la novità dell’evoluzione tende ad ottimizzare la sopravvivenza del vivente entro uno specifico sistema biologico-ecologico, nello schema bergsoniano l’evoluzione tende ad esaltare la novità, producendo complessificazione. Per Darwin l’ascesa è apparente e comunque “filtrata” dalla selezione naturale, per Bergson è invece il risultato di un progresso-avanzamento. La filosofia di Bergson eserciterà una grande influenza sul pensiero di Pierre Teillhard de Chardin (1881-1955).

    

Significato dell’evoluzione

 Lo slancio vitale di cui parliamo consiste, in sostanza, in una esigenza di creazione; non può creare in senso assoluto, perché incontra davanti a sé la materia, cioè il movimento inverso al suo, ma della materia, che è la necessità medesima, esso si impadronisce, e cerca d’introdurvi la più grande quantità possibile d’indeterminazione e di libertà. Come può ottener ciò?

Un animale dei più evoluti si può, dicevamo, rappresentare schematicamente con un sistema nervoso sensorio – motore sorretto dagli apparati digestivo, respiratorio, circolatorio, ecc., che hanno il compito di tenerlo inefficienza, reintegrarlo, proteggerlo, renderlo per quanto possibile indipendente dalle circostanze esterne, ma soprattutto di fornirgli l’energia ch’esso consumerà in movimenti. La complessità crescente dell’organismo deriva dunque in teoria (malgrado le numerose eccezioni dovute agli sviluppi accidentali dell’evoluzione) dalla necessità di complicare il sistema nervoso; ed ogni complicazione d’una parte qualsiasi dell’organismo ne implica d’altronde molte altre, perché questa parte deve ben vivere, ed ogni mutamento in un punto del corpo si ripercuote dappertutto: quindi la complicazione potrà aumentare all’infinito in ogni senso, ma è quella del sistema nervoso a condizione di diritto, se non sempre di fatto, le altre. [...]

Cosicché la vita interna, animale e vegetale, sembra essere essenzialmente uno sforzo per accumulare energia e per lanciarla poi in canali flessibili, deformabili, alla cui estremità eseguirà lavori infinitamente vari: ecco ciò che lo slancio vitale, attraversando la materia, vorrebbe ottenere d’un sol colpo, e certo vi riuscirebbe, se la sua potenza fosse illimitata o se gli potesse venire dall’esterno qualche aiuto. Ma lo slancio è finito ed è stato impresso una volta per tutte, quindi non può scavalcare tutti gli ostacoli; il movimento ch’esso imprime ora viene deviato, ora diviso, sempre contrastato, e l’evoluzione del mondo organico non è che il dispiegarsi di tale lotta. La prima grande scissione che si dovette compiere fu quella tra i due regni vegetale ed animale, che si trovano così ad essere tra loro complementari, senza che tuttavia si sia stabilito un reciproco accordo. Non è per l’animale che la pianta accumula energia, è per consumarla essa stessa; ma tale suo consumo è meno discontinuo, meno raccolto in breve e conseguentemente meno efficace di quanto non esiga lo slancio originario della vita, diretto essenzialmente a produrre atti liberi: non poteva lo stesso organismo adempiere con eguale energia contemporaneamente ambedue i compiti, accumulare gradualmente e utilizzare bruscamente. E perciò spontaneamente, senza alcun intervento estraneo, per semplice effetto della dualità di tendenze implicita nello slancio originario, e della resistenza opposta dalla materia allo slancio stesso, gli organismo si volsero gli uni nella prima, gli altri nella seconda direzione; e a questo sdoppiamento altri ne seguirono, derivandone le linee divergenti d’evoluzione, almeno per l’essenziale. Ma occorre pure tenere conto delle regressioni, degli arresti e dei casi di ogni genere e, soprattutto, ricordarsi che ogni specie si comporta come se il moto generale della vita, invece di attraversarla, si dovesse in essa arrestare. Essa non vive che per sé, non pensa che a sé, e di qui le innumerevoli lotte di cui la natura è teatro, una impressionante ed urtante disarmonia, di cui però non dobbiamo ritenere responsabile il principio della vita per sé preso.

 

Contingenza dell’evoluzione della vita

Nell’evoluzione la parte della contingenza è, dunque, grande: per lo più contingenti sono le forme adottate, o meglio, inventate; contingente, relativa agli ostacoli incontrati in dati luoghi e momenti, la dissociazione della tendenza primitiva in determinate tendenze complementari creanti altrettanti linee divergenti d’evoluzione. Contingenti sono pure gli arresti e le regressioni, contingenti, in gran parte, gli adattamenti. Due soli sono gli elementi necessari: 1) un accumulo graduale di energia; 2) un incanalamento elastico di tale energia in direzioni variabili e non predeterminabili, al termine delle quali appaiono gli atti liberi. [...]

Si può quindi pensare che la vita avrebbe potuto assumere un aspetto esterno totalmente diverso e creare forme molto differenti rispetto a quelle da noi conosciute: con un altro substrato chimico, in diverse condizioni fisiche, la spinta sarebbe rimasta identica, ma nel suo cammino si sarebbe scissa in modo molto diverso, e complessivamente avrebbe percorso un’altra strada, forse più breve, fors’anche più lunga. In ogni caso nessuno dei membri dell’intera serie dei viventi sarebbe stato quel che è attualmente. Ma era proprio necessario che ci fossero e serie e membri? Perché mai lo slancio unico non avrebbe potuto passare in un unico corpo, passibile di indefinita evoluzione?

 

Molteplicità dei viventi e unità della vita

 Paragonando la vita ad uno slancio, non v’è dubbio che si apra la suddetta questione; ed  necessario paragonarla ad uno slancio, perché non v’è altra immagine, presa dal mondo fisico, che possa darne l’idea con maggiore approssimazione. Ma si tratta pur sempre di una immagine: in realtà la vita appartiene all’ordine psicologico, e le realtà psicologiche per loro essenza abbracciano una pluralità confusa di elementi compenetratisi. Nello spazio ed in esso solo, senza dubbio alcuno, è possibile una molteplicità di distinti ed un’assoluta esternata fra punti diversi; ma a sua volta la mera e vuota unità si incontra anch’essa soltanto nello spazio, ed è quella del punto matematico. L’unità e la molteplicità astratte sono determinazioni spaziali, ovvero, se si preferisce, categorie dell’intelletto, dato che spazialità ed intellettualità sono modellate l’una sull’altra.

Quello che è di natura psicologica, invece, non lo si può configurare esattamente in termini spaziali, né far entrare perfettamente negli schemi intellettuali: la mia persona, ad esempio, ad un dato momento, è una o molteplice? Se ne affermo l’unità, sorgono a protestare voci interne, di sensazioni, di sentimenti e rappresentazioni, fra le quali si suddivide la mia individualità. Ma se la dichiaro distinta in molteplici elementi, altrettanto violentemente si ribella la mia coscienza, affermando che sensazioni, sentimenti, pensieri sono astrazioni tratte da l mio io, e che ogni mio stato implica tutti gli altri. Dunque, per adottare il linguaggio dell’intelletto, il che è pur necessario, esso solo possedendo un linguaggio, io sono un’unità molteplice e una molteplicità una; ma unità e molteplicità sono meri aspetti relativi della mia personalità, fissati da un intelletto che tenta ritrovare in me le sue categorie: il mio io non entra in nessuna delle due, e neppure in tutt’e due contemporaneamente, benché esse, unite, possano approssimativamente imitare quella compenetrazione reciproca e quella continuità che trovo in fondo a me stesso. Tale è la mia vita interiore e così pure la vita in generale: se, nel contatto con la materia, la vita è paragonabile ad una spinta, o ad uno slancio, vista in sé stessa è piuttosto virtualità immensa, reciproco interferire di mille  e mille tendenze, che pure sono “mille e mille” soltanto dopo esse state rese esterne le une alle altre, cioè spazializzate. Il contatto con la materia è decisivo per tale dissociazione: la materia divide realmente quanto solo virtualmente era molteplice e, in questo senso, l’individuazione è in parte operata dalla materia ed in parte per effetto di quel che la vita porta in sé. Allo stesso modo si potrà affermare d’un sentimento poetico, esprimentesi in strofe, versi e parole distinte, ch’esso conteneva tali molteplici elementi individuati e tuttavia che a crearne la molteplicità è la materialità del linguaggio.

Ma attraverso parole, versi e strofe corre l’ispirazione semplice che è l’anima del poema: così, fra gli individui dissociati, circola ancora la vita. Dappertutto la tendenza ad individuarsi è combattuta ed insieme completata da una tendenza antagonista e complementare, la tendenza ad associarsi, quasiché l’unità molteplice della vita, tratta nel senso della molteplicità, tanto più si sforzasse per ritrovare la sua unità. Appena una parte è staccata, essa tende a riunirsi, se non proprio a tutto il resto, almeno a quanto più le è vicino.

Da ciò deriva in tutto il mondo biologico una compensazione fra individuazione e associazione: gli individui si giustappongono in una società, ma questa, appena si forma, vorrebbe fondere in un nuovo organismo gli individui giustapposti, così da divenire a sua volta un individuo che possa entrare a far parte integrante d’una nuova associazione. Agli infimi gradi della scala organica troviamo già vere e proprie associazioni, le colonie microbiche, e d in esse, secondo un recente studio, la tendenza ad individuarsi costituendo un nucleo. La stessa tendenza si ritrova in un livello più elevato, in quei protofiti che, una volta usciti per cariocinesi dalla cellula madre, restano uniti tra loro a mezzo della sostanza gelatinosa che attornia la loro superficie, come pure i quei protozoi che cominciano coll’unire i loro pseudopodi e finiscono per saldarsi fra loro.

È nota la teoria cosiddetta “coloniale” della genesi degli organismi superiori. I protozoi, esseri monocellulari, avrebbero formato, giustapponendosi, aggregati che, a loro volta avvicinandosi, avrebbero prodotto aggregati di aggregati: così dall’associarsi di organismi appena differenziati ed elementari sarebbero nati altri organismi sempre più complicati e differenziati. In tale sua forma radicale questa tesi ha sollevato gravi obbiezioni, e sempre più sembra affermarsi l’idea che il polizoismo è una fatto eccezionale ed anormale; ma non è men vero che i fatti si svolgono come se ogni organismo superiore fosse nato da un’associazione di cellule che si fossero divise fra loro il lavoro. Con tutta probabilità non sono le cellule ad aver fatto l’individuo, ma è piuttosto quest’ultimo che ha formato le cellule per via di dissociazione. Ma proprio ciò ci rivela, nella genesi dell’individuo, un’influenza della forma sociale, come se esso potesse svilupparsi soltanto a condizione di scindere la sua sostanza in elementi aventi anch’essi un’apparenza di individualità e un apparente legame di associazione. Numerosi sono i casi in cui la natura sembra esitare fra le due forme, e domandarsi se dovrà costituire una società o un individuo: basta allora la più lieve spinta per far pender la bilancia da una parte o dall’altra. [...]

 

Coscienza e libertà come principio e termine dell’evoluzione

 Egualmente essenziale è l’ascendere verso la coscienza riflessa. Se le nostre analisi sono esatte, all’origine della vita v’è una coscienza, o meglio una supercoscienza: coscienza o supercoscienza è il razzo i cui spenti frammenti ricadono materializzati; coscienza è pure quel che del razzo rimane ad attraversare i frammenti e ad illuminarli di organicità.

Ma tale coscienza, che è un’esigenza di creazione, si rivela a se stessa soltanto là dove la creazione è possibile , ed entra invece in letargo quando la vita è condannata all’automatismo, e si risveglierà appena rinasce la possibilità di una scelta. È per questo che negli organismi sprovvisti di sistema nervoso essa varia a seconda del potere di locomozione e di adattamento di cui dispone l’organismo; e negli animali dotati di tale sistema essa è invece proporzionale alla complicazione degli incroci da cui si dipartono le vie cosiddette sensoriali e motrici, cioè alla complicazione del cervello. In che modo ci si può spiegare tale corrispondenza tra organismo e coscienza?

Non insisteremo su di un punto approfondito già in precedenti lavori; limitiamoci a rievocare che la teoria, secondo cui la coscienza sarebbe legata a determinate cellule nervose e deriverebbe dalla loro attività come una specie di fosforescenza, può essere accettabile per lo scienziato con riferimento al lavoro dettagliato di analisi: è un modo d’esprimersi comodo, ma niente di più. In realtà un essere vivente è un centro d’azione, rappresenta l’introdursi nel mondo di una certa quantità di contingenza, cioè di possibile azione, variabile a seconda degli individui e soprattutto delle specie. Il sistema nervoso d’un animale disegna le linee flessibili sulle quali si svilupperà la sua azione ( sebbene l’energia potenziale da liberare sia accumulata nei muscoli piuttosto che nel sistema nervoso medesimo); i suoi centri nervosi indicano, con il loro sviluppo e la loro struttura, le possibilità di scelta più o meno ampie ch’esso avrà fra azioni più o meno numerose e complicate. Quindi, poiché il risveglio della coscienza in un essere vivente è tanto completo, quanto più ampia è la possibilità di scelta concessagli, e più numerose le azioni assegnategli, è evidente che lo sviluppo della coscienza sembrerà dipendere da quello dei centri nervosi. D’altra parte, poiché ogni stato di coscienza è, per un certo aspetto, una richiesta rivolta all’attività motrice ed anche un inizio di risposta, non v’è fatto psichico che non faccia entrare in azione i meccanismo corticali. Sembrerà quindi che tutto si svolga come se la coscienza scaturisse dal cervello e come se nei particolari dettagli l’attività cosciente si modellasse sui particolari dell’attività cerebrale. In realtà invece la coscienza non deriva  dal cervello, ma l’uno e l’altra si corrispondono, perché egualmente misurano, l’uno con la complessità della sua struttura, l’altra con l’intensità del suo risveglio,  la quantità di scelta di cui un dato vivente dispone.

Proprio perché uno strato cerebrale esprime semplicemente la quantità d’azione nascente nello stato psichico corrispondente, quest’ultimo è più significativo dello stato cerebrale. La coscienza di un essere vivente, come cercammo di provare altrove, è unita al suo cervello nello stesso senso in cui un coltello è unito alla sua punta: il cervello è la punta acuminata con cui la coscienza penetra nel tessuto compatto degli avvenimenti, ma esso non si estende a tutta la coscienza, così come la punta non si identifica col coltello. È per questo che dalla notevole rassomiglianza di due cervelli, ad esempio quello della scimmia e quello dell’uomo, non si può trarre affatto la conclusione che le corrispondenti coscienze siano paragonabili e commensurabili tra loro.  

Ma i cervelli stessi, forse, si rassomigliano anch’essi meno di quanto si supponga. Come non rilevare il fatto che l’uomo è incapace di imparare qualunque esercizio, di fabbricare qualsiasi oggetto, insomma di acquistare una qualsiasi abitudine motrice, mentre nell’animale la capacità di combinare nuovi elementi è invece, anche in quello meglio dotato, scimmia compresa, strettamente limitata? È questa la caratteristica cerebrale dell’uomo; il cervello umano, come ogni altro, è fatto per disporre meccanismi motori e per lasciarci a un dato istante la scelta di quello d’essi che metteremo in moto, quasi tirando una specie di grilletto; ma a differenza degli altri cervelli, esso può disporre un numero di meccanismi indefinito e, conseguentemente, ha un numero illimitato di grilletti tra cui scegliere. Ora, fra il limitato e l’illimitato v’è la stessa differenza che fra il chiuso e l’aperto, cioè non una semplice differenza di grado, bensì differenza di natura.

Pure radicale è, conseguentemente, la differenza fra la coscienza dell’animale, anche del più intelligente, e la coscienza umana, poiché la coscienza corrisponde esattamente alla possibilità di scelta di cui il vivente è dotato; essa è tanto estesa quanto la frangia d’azione possibile che circonda l’azione reale: coscienza è sinonimo d’invenzione e di libertà. Invece nell’animale l’invenzione non è mai altro che una variazione sullo stesso tema fisso usuale: chiuso nelle abitudini della specie, esso arriva, certo, ad allagarle con la sua iniziativa individuale, ma sfugge all’automatismo per un solo istante, esattamente il tempo di creare un nuovo automatismo, e le porte della sua prigione si richiudono appena aperte, dato che tirando la sua catena esso riesce soltanto ad allungarla.

Nell’uomo, la coscienza spezza la catena, solo nell’uomo essa si libera: fino a lui tutta la storia della vita era stata uno sforzo della coscienza per sollevare la materia, ed una compressione più o meno completa della coscienza da parte della materia che sulla prima ricadeva. Era un lavoro di Sisifo, se pur qui si può fuor di metafora parlare di sforzo e di lavoro: si trattava di creare con la materia, che è la necessità stessa, un strumento di libertà, di fabbricare una macchina che dominasse il meccanicismo, e di usare il determinismo della natura per sfuggire alle maglie della rete da esso stesso tesa. Ma dovunque altrove, eccetto che nell’uomo, la coscienza si è lasciata prendere nella rete di cui voleva attraversare le maglie, è rimasta prigioniera dei meccanismi da lei predisposti; l’automatismo, ch’essa presumeva trarre nella direzione della liberà, si avvolge intorno a lei e la trascina, essa non ha la forza di sottrarvisi, perché l’energia di cui aveva fatto provvista per agire è quasi tutta impiegata a mantenere l’equilibrio infinitamente delicato, essenzialmente instabile cui essa ha condotto la materia.

L’uomo viceversa non si limita a far vivere la sua macchina, ma riesce anche a servirsene a suo piacimento; egli deve ciò, senza dubbio, alla superiorità del suo cervello che gli permette di costruire meccanismo motori in numero illimitato, di contrapporre incessantemente abitudini nuove alle vecchie e di dominare l’automatismo dividendolo internamente e opponendolo ad esso stesso. Lo deve al suo linguaggio, che fornisce alla coscienza un corpo immateriale in cui incarnarsi e le evita così di posarsi esclusivamente sui cori materiali, la cui corrente prima la trascinerebbe, poi ben presto l’ inghiottirebbe. Lo deve alla vita sociale, che accatasta e conserva gli sforzi come il linguaggio accumula il pensiero, che fissa con ciò un livello medio a cui gli individui dovranno subito elevarsi e che quindi, con questa spinta iniziale, impedisce ai mediocri di addormentarsi, incita i migliori a salire maggiormente. Ma cervello, società e linguaggio sono semplici segni esterni e diversi d’una sola e medesima superiorità interna; dichiarano, ciascuno a suo modo, il successo unico, eccezionale, riportato dalla vita ad un dato momento della sua evoluzione; esplicitano la differenza di natura, e non più solo di grado, separante l’uomo dal resto degli animali; ci lasciano postulare che, se all’estremità del largo trampolino su cui la vita prese il suo slancio tutti gli altri sono caduti, trovando che la corda tesa era troppo alta, l’uomo invece, esso solo, ha saltato l’ostacolo.

 

Il posto dell’uomo nell’evoluzione vitale

 È in tal senso peculiare che l’uomo è “termine” e “scopo” dell’evoluzione; dicemmo che la vita trascende la finalità, come ogni altra categoria, essendo essenzialmente una corrente lanciata attraverso la materia, che ne trae tutto quanto può. Non ci fu quindi, propriamente, alcun progetto né piano, e d’altra parte è sin troppo chiaro che il resto della natura non è stato riferito all’uomo: lottiamo come le altre specie, abbiamo lottato contro di esse. Inoltre se l’evoluzione della vita nel suo cammino avesse urtato contro ostacoli diversi, noi saremmo risultati, fisicamente e moralmente, alquanto differenti da come siamo. Per tali ragioni si errerebbe nel considerare l’umanità, quale attualmente la constatiamo, come predeterminata nel movimento evolutivo, anzi non si può neppure dire ch’essa sia il punto d’arrivo dell’intera evoluzione, perché questa si è compiuta su parecchie linee divergenti, e se la specie umana è all’estremità di una di tali linee, altre, con altre specie ai loro estremi, sono pure state sviluppate. Noi riteniamo quindi che l’umanità sia la ragion d’essere dell’evoluzione in un senso ben differente.

Dal nostro punto di vista, la vita ci appare complessivamente come un’onda immane propagatasi da un centro, onda che quasi ovunque sulla sua superficie d’espansione si arresta mutandosi in oscillazione locale senza progresso: in un solo punto l’ostacolo è stato abbattuto, la spinta è passata liberamente, ed è da questa libertà che vien contraddistinta la specie umana. In ogni altro punto, eccetto l’uomo, la coscienza s’è vista chiusa in un vicolo cieco; solo con l’uomo ha potuto procedere oltre nel suo cammino.

Dunque l’uomo è la continuazione indefinita del movimento vitale, benché non trascini con sé tutto quanto in sé portava la vita; su altre linee d’evoluzione hanno camminato altre tendenze implicite nella vita, di cui l’uomo certo qualcosa ha conservato, poiché tutto si compenetra, ma ben poca cosa. Tutto avviene come se un essere indeterminato e fluido, che si può chiamare indifferentemente uomo osuperuomo, avesse tentato dir realizzarsi e non vi fosse riuscito che a prezzo della perdita, lungo il cammino, di una parte di sé. Questi sedimenti sono rappresentati dal resto del regno animale e pure dal mondo vegetale, almeno in quello ch’essi hanno di positivo e di non riducibile agli aspetti accidentali dell’evoluzione.

In questa prospettiva si attenuano in modo notevole le disarmonie, di cui la natura ci offre lo spettacolo: l’insieme del mondo organico diviene una specie di humus su cui doveva spuntare o l’uomo stesso, ovvero un essere moralmente a lui simile. Gli animali, per quanto lontani, e persino nemici della nostra specie, furono nondimeno utili compagni di strada, su cui la coscienza si è scaricata di quanto d’ingombrante trascinava, e che quindi le anno permesso di elevarsi, con l’uomo, all’altezza da cui vede un illimitato orizzonte riaprirsi dinanzi a sé.

Essa non ha lasciato, è vero, lungo la strada, soltanto un bagaglio incomodo, ma ha pure dovuto rinunziare a beni preziosi; la coscienza dell’uomo è soprattutto intelligenza, mentre avrebbe potuto e dovuto, come sembra, essere anche intuizione. Intuizione e intelligenza rappresentano due opposte direzioni dell’attività cosciente: l’intuizione procede nello stesso senso della vita, l’intelligenza in senso inverso, trovandosi quindi automaticamente corrispondente al movimento della materia. Completa e perfetta sarebbe un’umanità in cui ambedue queste forme dell’attività cosciente raggiungessero pieno sviluppo; e fra tale umanità e la nostra si possono del resto supporre molti possibili stadi intermedi, corrispondenti a tutti i gradi immaginabili dell’intelligenza e dell’intuizione. Questa è la parte della contingenza nella struttura mentale della nostra specie; una diversa evoluzione avrebbe potuto condurre ad una umanità ancor più intelligente, ovvero più intuitiva, e di fatto nell’umanità di cui facciamo parte l’intuizione è quasi del tutto sacrificata all’intelligenza. Sembra che ad acquistarne il dominio sulla materia e a riconquistare se stessa la coscienza abbia dovuto esaurire il meglio della sua forza: questa conquista, nelle condizioni particolari in cui si è svolta, esigeva che la coscienza si adattasse alle disposizioni abituali della materia e su di questa concentrasse tutta la sua attenzione, ed infine, si determinasse in particolare nella forma dell’intelligenza. L’intuizione è pur sempre presente, ma vaga e soprattutto discontinua: è una lampada quasi spenta, che si ravviva soltanto a lunghi intervalli ed appena per qualche istante, ma in sostanza, quando è in giuoco un interesse vitale, essa si ravviva. Sulla nostra personalità, sulla nostra libertà, sul posto che occupiamo nell’insieme della natura, sulla nostra origine fors’anche sul nostro destino essa proietta una luce vacillante e tenue, ma che nondimeno spezza l’oscurità della notte in cui ci lascia l’intelligenza.

È di queste evanescenti intuizioni, che rischiarano il loro oggetto soltanto a lunghi intervalli, che la filosofia si deve impadronire, anzitutto per rafforzarle, in seguito per allargarle ed in tal modo congiungerle tra di loro. Più essa procede in quest’impresa, più si rende conto che l’intuizione è l’essenza dello spirito e, in certo senso, della vita: l’intelligenza vi si ritaglia con un processo che imita la genesi della materia. In tal modo si rivela l’unità della vita mentale, ma non la si riconosce altrimenti che collocandosi nell’intuizione per muover di là verso l’intelligenza, poiché dall’intelligenza non si passerà mai all’intuizione.

Così la filosofia ci introduce nella vita spirituale, ed al tempo stesso ci mostra la relazione fra la vita dello spirito e quella del corpo. Il grande errore delle dottrine spiritualistiche è stato credere che, isolando da tutto il resto la vita spirituale ed elevandola nello spazio il più possibile sovra la terra, l’avrebbero messa al riparo da  ogni offesa: come se in tal modo non l’esponessero semplicemente al rischio di essere scambiata per un miraggio! Certo esse hanno ragione ad ascoltare la coscienza, quando questa afferma la libertà umana; ma interviene allora l’intelligenza, sostenendo che ogni causa è determinante per il suo effetto, che l’identico condiziona l’identico, che tutto si ripete e tutto è dato. Esse hanno ragione a credere alla realtà assoluta della persona ed alla sua indipendenza rispetto alla materia; interviene la scienza a mostrare la stretta unione fra vita cosciente ed attività cerebrale. Esse hanno ragione ad attribuire all’uomo un posto privilegiato entro la natura, a ritenere infinita la distanza fra animale e uomo; ma interviene la storia della vita, a farci assistere al generarsi delle specie per graduale trasformazione ed a far così le viste di assorbire l’uomo nell’animalità. Quando un possente istinto proclama che probabilmente la persona sopravvive alla morte, esse hanno ragione a non chiudere l’orecchio alla sua voce; ma se, quindi, esistono “anime” capaci di vita indipendente, donde mai provengono esse? Quando, come, perché entrano in quel corpo che vediamo, sotto i nostri occhi, uscire per processo naturale da una cellula mista tratta dal corpo dei suoi due genitori?

Tutte le suddette questioni resteranno senza risposta, una filosofia intuitiva sarà la negazione della scienza e da questa verrà presto o tardi spazzata via, se non si sarà decisa a vedere la vita corporea dove realmente  si trova, cioè sul cammino che conduce alla vita dello spirito. Ma in tal caso non potrà limitarsi a studiare qualche determinato essere vivente: la vita intera, sin dalla spinta iniziale che la introdusse nel mondo, le sembrerà un’onda che sale e si oppone al movimento discendente della materia. Sulla maggior parte della sua superficie d’espansione, a diverse altezze, la corrente è dalla materia mutata in un vorticare su di se stessa; in un solo punto ha libero sfogo, e trascina con sé l’ostacolo, che appesantirà il suo andare, ma non perverrà ad arrestarlo. In questo punto s trova l’umanità, questo è il nostro privilegio.

Del resto quest’onda che sale è coscienza, e come ogni coscienza implica virtualità innumerevoli che si compenetrano, e cui non sono, conseguentemente, applicabili né la categoria dell’unità né quella della molteplicità fatte per la materia inerte. Soltanto la materia che l’onda trascina con sé e negli interstizi della quale essa penetra, può dividerla in distinte individualità. Pertanto la corrente passa ed attraversa le generazioni umane dividendosi in individui; vagamente già in essa era segnata tale suddivisione, che però non si sarebbe rivelata senza la materia. In tal modo si creano incessantemente anime che , in ceto senso, tuttavia preesistevano, e che non sono altro che i rivoli, in cui si dirama il gran fiume della vita, scorrendo attraverso il corpo dell’umanità. Il movimento d’una corrente è distinto dal mezzo attraversato, benché debba necessariamente assumerne le sinuosità; la coscienza è distinta dalla materia organica da lei animata, benché ne subisca talune condizioni. Poiché le azioni possibili, di cui uno stato di coscienza contiene il progetto, hanno ad ogni istante, nei centri nervosi, un inizio d’esecuzione, il cervello sottolinea pure, ad ogni istante, l’articolarsi in movimenti dello stato di coscienza, ma qui si arresta l’interdipendenza tra coscienza e cervello: il destino della coscienza non è per questo legato a quello della materia cerebrale. In verità la coscienza è essenzialmente libertà, è la libertà stessa; ma non può attraversare la materia senza posarvisi, adattarvisi, e tal adattamento è quel che comunemente si chiama intellettualità: e l’intelligenza, rivolgendosi indietro verso la coscienza in azione, la inserisce naturalmente negli schemi in cui è solita vedere inserirsi la materia. Quindi essa scorgerà sempre la libertà sotto l’aspetto della necessità, sempre sarà portata a trascurare la parte di novità o di creazione implicita nell’atto libero, sempre sostituirà all’azione vera e propria una sua imitazione artificiosa e approssimativa, ottenuta unendo il già vissuto e l’identico: cosicché dal punto di vista d’una filosofia che si sforza di riassorbire l’intelligenza nell’intuizione, molte difficoltà svaniscono o si attenuano. Ma una tal dottrina non solo facilità la speculazione, bensì pure ci dà maggior forza per agire e per vivere, perché con essa non ci sentiamo più isolati nell’umanità, né più l’umanità ci appare isolata nella natura ch’essa corona. Come il minimo granello di polvere è solidale coll’intero sistema solare  vien con esso trascinato dall’indiviso moto di discesa che costituisce la materialità, così tutti gli esseri organici dal più umile al più perfetto, dalle prime origini della vita sino ai tempi nostri, e in tutti i luoghi e i tempi, non fanno che rivelare ai nostri occhi un’unica spinta, inversa al movimento della materia e, in sé, indivisibile. Tutti i viventi sono uniti e tutti cedono allo stesso formidabile impulso: l’animale ha nella pianta il suo punto d’appoggio, l’uomo è a cavalcioni dell’animalità e l’umanità tutt’intera, nello spazio e nel tempo, è un esercito immenso avanzante al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro di noi, in una carica irresistibile capace di spazzar via tutte le resistenze, di oltrepassare una quantità d’ostacoli, forse persino la morte.

   

Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. a cura di Giancarlo Penati, la Scuola, Brescia 1961, pp. 115-134.