Tu sei qui

A quali condizioni una fede può avanzare una pretesa di ragionevolezza?

Enrico Berti
2009

da un saggio pubblicato in Ritorno della religione? Tra ragione, fede e società

In questo testo l’autore sostiene che per ammettere la ragionevolezza della fede, è necessaria una metafisica. Tuttavia, ciò non significa ritenere che la metafisica sia sufficiente a produrre la fede, o a garantirla. Questa differenza, tra necessità e sufficienza, non è sempre chiara a coloro che non concordano sulla necessità della metafisica. Anche per la metafisica più rigorosa, la fede rimane una scelta libera, per nulla necessitata dalla ragione. Anche se si dimostrasse in maniera inconfutabile che esiste un Dio, che questo Dio ha creato il mondo, e che egli è personale e quindi capace di rivelarsi, da ciò non si può assolutamente dimostrare che egli si sia effettivamente rivelato e che quella che i credenti considerano rivelazione divina sia effettivamente tale. La realtà della Rivelazione rimane oggetto della fede, così come lo rimangono i suoi contenuti, almeno quelli che richiedono un atto di fede perché sorpassano quanto la ragione potrebbe da sola conoscere.

   

Necessità di una metafisica 

Una concezione che riconosca l’esistenza di Dio, la sua trascendenza, la sua personalità e la sua onnipotenza, e quindi la sua capacità di rivelarsi e di intervenire nella natura o nella storia umana, è quella che si chiama comunemente una forma di «teismo», o di «religione naturale», e si distingue da un lato dal cosiddetto «deismo», che nelle sue diverse forme storiche non ammette l’una o l’altra delle suddette caratteristiche di Dio, e dall’altro dalla religione rivelata, o positiva, quali sono le religioni monoteistiche, che ammette la rivelazione non solo come possibile, ma anche come realmente avvenuta, e pertanto richiede una fede, cioè un assenso libero, non obbligato dalla ragione, ai contenuti della rivelazione. Se si chiede quali filosofie sono in grado, o pretendono, di fondare razionalmente — come dovrebbe essere compito di ogni filosofia — il teismo, si deve rispondere che tali filosofie sono quelle comunemente dette «metafisiche», più precisamente metafisiche trascendentistiche, cioè che pongono un Dio trascendente.

So benissimo che il termine «metafisica» è stato usato con i significati più diversi, in genere spregiativi. Per alcuni, infatti, è sinonimo di mito, per altri di fantasticheria, per altri di imbroglio, per altri di «oblio dell’essere», per altri ancora di volontà di dominio, di arroganza, di prepotenza, di violenza. Qui vorrei usarlo sine ira ac studio, cioè nel suo significato storico, quello per cui un’opera di Aristotele, la Metafisica appunto, è stata così chiamata prima perché nell’edizione delle sue opere era stata collocata dopo le opere di fisica, e poi perché il suo contenuto sembrava andare oltre l’ambito delle opere di fisica, cioè oltre il mondo dell’esperienza. Una filosofia la quale tenti di dimostrare razionalmente, o anche solo ammetta come ragionevole, l’esistenza di Dio, un Dio inteso come assoluto trascendente, è una metafisica, perché va oltre il mondo dell’esperienza, non per mezzo di una fede, ma per mezzo di un discorso razionale, o anche soltanto ragionevole. Tra le metafisiche includo anche la posizione di Kant, il quale, pur ritenendo impossibile dimostrare razionalmente — anzi «scientificamente» — l’esistenza di Dio, considerava la metafisica un’esigenza imprescindibile della ragione.

La conseguenza che ricavo da queste considerazioni è che, per ammettere la ragionevolezza della fede, è necessaria una metafisica. Attenzione: ho detto «per ammettere la ragionevolezza della fede». So bene che non è necessario ammettere la ragionevolezza della fede, che molti considerano la fede qualcosa di irrimediabilmente irragionevole, cioè assurdo, e perciò la rifiutano, e molti altri la considerano ugualmente irragionevole, e tuttavia la professano, anzi forse la professano proprio perché la considerano irragionevole. Chiamiamo i primi «razionalisti, nel senso che ammettono come possibile solo ciò che è dimostrabile dalla ragione, anche se in tal modo si riduce un po’ il significato di questo termine, che potrebbe essere usato anche in un senso più ampio, e chiamiamo i secondi «fideisti», nel senso che ammettono come fonte di verità la sola fede e non pretendono per essa alcuna ragionevolezza.

Non tutti i credenti, cioè le persone che professano una fede religiosa, sono tuttavia fideisti, anzi probabilmente la maggior parte dei credenti non lo è, perché molti credenti ritengono che la propria fede non sia irragionevole, e quindi avanzano pretese di ragionevolezza Naturalmente tali pretese non sempre sono esplicite. I filosofi hanno l’abitudine di rendere esplicite le proprie pretese, anzi hanno il dovere di farlo, ma la maggior parte dei credenti non è fatta di filosofi (anzi lo è solo una piccolissima parte). Allora uno potrebbe obiettare: se la metafisica fosse necessaria perché la fede possa avanzare pretese di ragionevolezza, tutti i credenti non fideisti dovrebbero fare metafisica, cioè dovrebbero essere filosofi. Una volta si portava, a questo proposito, l’esempio della vecchierella che frequenta la prima messa del mattino, talvolta in ore antelucane, considerandola un esempio di autentica fede, e si diceva: quale metafisica può mai avere la vecchierella, che non ha studiato filosofia e non ha mai nemmeno sentito pronunciare la parola «metafisica»? Non so se oggi vi siano ancora messe antelucane, se siano frequentate da vecchierelle e se queste eventualmente si possano considerare esempi di vera fede. Ammettiamo tuttavia che ciò sia possibile. Che cosa ne consegue per la necessità della metafisica?

Ebbene, come diceva il mio maestro Marino Gentile, la vecchierella possiede implicitamente una metafisica, perché nell’atto in cui rivolge la sua preghiera al Signore conosce perfettamente la differenza che passa tra l’Onnipotente a cui rivolge la sua preghiera e qualunque altro potente di questo mondo, sindaco, ministro, o capo di Stato, o dittatore, o miliardario che dir si voglia. Sapere questa differenza significa avere una metafisica, ovviamente implicita, ma neanche tanto. Tutti i veri credenti, filosofi o non filosofi, anzi spesso più i non filosofi che i filosofi, hanno una metafisica implicita, cioè ammettono — più o meno chiaramente — l’esistenza di Dio, la sua assolutezza, la sua trascendenza, la sua onnipotenza, la sua libertà.

Un amico, filosofo e credente, soleva dire un tempo — non so se lo dica ancora — che i metafisici vogliono «salvare il Salvatore», e chiaramente considerava questa pretesa come assurda. Non credo che ciò sia vero. I metafisici, cioè i filosofi che professano una fede religiosa e che al tempo stesso avanzano pretese di ragionevolezza per la propria fede, vogliono semplicemente salvare la propria possibilità di credere, cioè non si accontentano di quanto suggerisce loro il «cuore», ma vogliono anche rispettare la propria ragione, non intendono rinunciare a ragionare, non considerano la fede come alternativa alla ragione. Essi saranno — dovrei anzi dire saremo — forse dei credenti da strapazzo, uomini di poca fede. Può darsi. Ma non possiamo dimenticare che la fede non è un sapere, cioè non soddisfa il naturale desiderio di sapere, è esposta al dubbio, è una situazione di inquietudine, richiede un continuo esercizio di rinuncia a capire e di fiducia in altri, insomma è una virtù, ancorché «teologale», cioè richiedente la cooperazione della grazia divina.

   

Insufficienza della metafisica 

Affermare la necessità di una metafisica, esplicita o implicita, come condizione della ragionevolezza della fede, non significa ritenere che la metafisica sia sufficiente a produrre la fede, o a garantirla. Questa differenza, tra necessità e sufficienza, non è sempre chiara a coloro che non concordano sulla necessità della metafisica. Nessuna metafisica, essi dicono, potrà mai dare a qualcuno la fede; nessuna dimostrazione dell’esistenza di Dio ha mai indotto qualcuno a credere in Dio. Costoro ragionano come se i filosofi che hanno costruito una metafisica lo avessero fatto al fine di suscitare in qualcuno la fede. Forse Platone aveva questo scopo, ma per quale fede? Egli ignorava tutte le grandi religioni monoteistiche. Certamente non aveva questo intento Aristotele, il quale affermò la necessità di un Motore immobile solo per spiegare quella che egli riteneva essere l’eternità del movimento del cielo. Probabilmente i metafisici che professavano qualcuna delle religioni monoteistiche volevano fornire una base razionale alla fede, per esempio l’ebreo Filone, i cristiani Agostino e Tommaso, i musulmani Avicenna e Averroè, sicuramente Descartes, Leibniz, Berkeley, Vico, Rosmini e altri.

In realtà anche di fronte alla metafisica più rigorosa, più convincente, più inattaccabile, la fede rimane, come ho detto più volte, una scelta libera, per nulla necessitata dalla ragione. Anche se si dimostrasse razionalmente in maniera inconfutabile che esiste un Dio, che questo Dio ha creato il mondo, e che egli è personale e quindi capace di rivelarsi, non si può assolutamente dimostrare che egli si sia effettivamente rivelato e che quella che i credenti considerano rivelazione divina sia effettivamente tale. Il fatto della rivelazione, cioè la sua realtà — non la sua possibilità — rimane oggetto di pura fede, così come lo rimangono i suoi contenuti, almeno quelli che richiedono un atto di fede perché indimostrabili o incomprensibili dalla ragione.

Al fatto della rivelazione, o al suo contenuto, appartiene l’affermazione che Dio è amore, cioè che Dio ama gli uomini, affermazione che sicuramente qualcuno mi rimprovererà di non avere sinora mai fatto, vedendo in questo un segno della mia scarsa fede, o del mio «intellettualismo», o della mia aridità di cuore. Il motivo per cui non l’ho fatta è appunto il fatto che essa appartiene alla fede, in modo particolarmente intenso alla fede cristiana, non alle sue pretese di ragionevolezza Queste ultime, cioè la metafisica, sono del tutto incapaci di mostrare che Dio è amore. Questa è l’insufficienza, cioè la povertà, la miseria se si vuole, della metafisica.

Ma tutti coloro che hanno il cuore pieno di speranza perché credono che Dio è amore sanno benissimo che il suo amore non è un amore qualsiasi, come l’amore che nutrono per noi i nostri genitori, o che noi nutriamo per i nostri figli. Ciò che ci riempie il cuore di speranza, cioè che ci fa sperare nella salvezza, è che l’amore di Dio, ovvero di colui che crediamo essere il nostro Salvatore, è l’amore di un Dio assoluto, onnipotente, il quale può effettivamente salvarci dalla morte eterna, può farci risorgere dalla morte, perché è Dio, cioè l’assoluto onnipotente. Anche quando diciamo che Dio è amore, insomma, non dobbiamo dimenticare che egli non è amore umano, ma è amore divino, cioè infinito, e in ciò è implicita una metafisica, cioè la consapevolezza della differenza tra amore umano e amore divino. Metafisica necessaria per renderci conto di ciò che significa dire che Dio è amore, non certo suf­ficiente a farci credere che Dio lo è. 

   

Quale metafisica?

Quando dico che una metafisica è necessaria per giustificare le pretese di ragionevolezza della fede, non intendo riferirmi a qualsiasi metafisica. Anche le metafisiche sono diverse, come sanno coloro che conoscono la storia della filosofia e invece sembrano ignorare coloro che accusano la metafisica di essere illusione, imbroglio, violenza. La metafisica a cui mi riferisco è, ovviamente, anzitutto una metafisica trascendentistica, non dunque una metafisica come quella di Plotino, o di Bruno, o di Spinoza, o di Hegel. Ma anche le metafisiche trascendentistiche sono tra loro diverse, quelle antiche da quelle medievali, quelle medievali da quelle moderne, e sono diverse tra loro le stesse metafisiche antiche (per esempio di Platone e Aristotele), come pure quelle medievali (per esempio di Tommaso e Scoto) e quelle moderne (per esempio di Descartes e Leibniz). Molte di queste metafisiche sono complicate, piene di assiomi, di argomenti, di tesi, quindi molto «forti» come teorie, cioè dotate di ricco contenuto informativo e grande potere esplicativo.

Confesso di avere poca simpatia per le metafisiche «forti» di questo tipo, che pretendono cioè di dimostrare tutto e di spiegare tutto. Esse infatti sono in genere facilmente attaccabili, perché basta confutare un solo pezzo dell’intero sistema in cui consistono e l’intero sistema crolla. Preferisco perciò accontentarmi di una metafisica leggera, con poche pretese dimostrative, quindi umile, che non pretende di sapere tutto e di dimostrare tutto. Qualche volta ho parlato, a questo proposito, di metafisica «debole», ma l’aggettivo mi è stato rimproverato, come se significasse arrendevole, rinunciataria, scettica, relativistica. Preferisco perciò parlare di metafisica leggera, povera, umile, che si accontenta di poche tesi, perché essa è più difficile da attaccare, più difficile da confutare, presta il fianco a meno obiezioni.

In sostanza mi accontento di una metafisica che si limiti a illustrare la problematicità del mondo dell’esperienza, cioè la sua non assolutezza, la sua precarietà, la sua insufficienza, il suo bisogno di essere spiegato. Una volta ammessa, infatti, tale insufficienza, la filosofia, che domanda il perché di tutto, è costretta ad ammettere che il perché ultimo del mondo dell’esperienza trascende questo stesso mondo, cioè che l’assoluto è trascendente, e da ciò conseguono tutte le condizioni che abbiamo illustrato sopra, cioè la creazione, la personalità dell’assoluto, la sua libertà, insomma tutte le condizioni capaci di soddisfare la pretesa di ragionevolezza avanzata dalla fede. Certo, uno può mettere in dubbio la problematicità del mondo dell’esperienza, cioè può metterla in questione, può domandare che essa sia dimostrata, ma, nel fare questo, egli esercita una forma di problematicità, cioè non nega, ma ribadisce la problematicità della sua esperienza, costituita dal suo domandare.

Oppure uno può rinunciare a domandare il perché di tutto, cioè a cercare l’assoluto, a vedere se esso è o non è il mondo dell’esperienza. Questo è ovviamente del tutto lecito, anzi è un atteggiamento estremamente diffuso, direi che è l’atteggiamento più diffuso di tutti. Ma non è certo filosofia. Nessuno è obbligato a essere filosofo, anzi di filosofi ce ne sono forse anche troppi, viste le scarse possibilità di occupazione che trovano. Ma se uno vuole essere filosofo, almeno nel senso tradizionale del termine, deve farsi qualche domanda, anzi, deve farsi domande diverse da quelle a cui può rispondere la scienza, perché, se si limita a queste, non ha bisogno di fare filosofia. Se uno vuole essere filosofo, deve chiedersi il perché di tutto, e allora non sarà difficile che riconosca la problematicità del mondo dell’esperienza. Con ciò non intendo liquidare il compito, alquanto gravoso, di giustificare una metafisica, anche se povera e umile, né quello, che reputo coincidente con esso, di confutare le filosofie che negano la metafisica. Semplicemente rinvio questo compito ad altra occasione, già presentatasi in passato o che potrà presentarsi in futura.

    

Enrico Berti, A quali condizioni una fede può avanzare una pretesa di ragionevolezza?, in Ritorno della religione? Tra ragione, fede e società. Annuario di filosofia 2009, a cura di V. Possenti, Guerrini e Associati, Milano 2009, pp. 52-57.