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Carta degli Operatori sanitari

Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari
1995

INTRODUZIONE

MINISTRI DELLA VITA

1. L'attività degli operatori sanitari ha l'alto valore di servizio alla vita. È l'espressione di un impegno profondamente umano e cristiano, assunto e svolto come attività non solo tecnica ma di dedizione e amore al prossimo. Essa è «una forma di testimonianza cristiana».(1) «La loro professione li vuole custodi e servitori della vita umana».(2)

La vita è un bene primario e fondamentale della persona umana. Nella cura della vita si esprime allora, anzitutto, un'opera veramente umana a tutela della vita fisica.

Ad essa dedicano la propria attività professionale o volontaria gli operatori sanitari. Sono medici, infermieri, cappellani ospedalieri, religiosi, religiose, amministrativi, volontari della sofferenza, impegnati in vario modo nella profilassi, terapia e riabilitazione della salute umana. Modalità primaria ed emblematica di "questo prendersi cura" è la loro presenza vigile e premurosa accanto agli ammalati. In essa l'attività medica e infermieristica esprime il suo alto valore umano e cristiano.

2. L'attività medico-sanitaria si fonda su una relazione interpersonale, di natura particolare. Essa è «un incontro tra una fiducia e una coscienza».(3) La «fiducia» di un uomo segnato dalla sofferenza e dalla malattia e perciò bisognevole, il quale si affida alla «coscienza» di un altro uomo che può farsi carico del suo bisogno e che gli va incontro per assisterlo, curarlo, guarirlo. Questi è l'operatori sanitario.(4)

Per lui «l'ammalato non è mai soltanto un caso clinico» -un individuo anonimo sul quale applicare il frutto delle proprie conoscenze- «ma sempre un "uomo ammalato"», verso cui «adottare un sincero atteggiamento di "simpatia", nel senso etimologico del termine».(5)

Il che esige amore: disponibilità, attenzione, comprensione, condivisione, benevolenza, pazienza, dialogo. Non basta «la perizia scientifica e professionale», occorre «la personale partecipazione alle situazioni concrete del singolo paziente».(6)

3. Salvaguardare, ricuperare e migliorare lo statuto di salute significa servire la vita nella sua totalità. Infatti «malattia e sofferenza sono fenomeni che, se scrutati a fondo, pongono sempre interrogativi che vanno al di là della stessa medicina per toccare l'essenza della condizione umana in questo modo. Si comprende perciò facilmente quale importanza rivesta, nei servizi socio-sanitari, la presenza...di operatori, i quali siano guidati da una visione integralmente umana della malattia e sappiano attuare di conseguenza un approccio compiutamente umano al malato che soffre».(7)

In questo senso l'operatore sanitario, quando è veramente animato dallo spirito cristiano, più facilmente scopre l'esigente dimensione missionaria propria della sua professione: in essa infatti: «vi è coinvolta tutta la sua umanità e gli e richiesta una dedizione totale».(8)

Dire missione è dire vocazione:(9) risposta a un appello trascendente che prende forma nel volto sofferente e invocante del paziente affidato alle proprie cure. Così che curare con amore un malato è assolvere a una missione divina, che sola può motivare e sostenere l'impegno più disinteressato, disponibile e fedele e dà a questo una valenza sacerdotale. (10) «Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10) in tale "vita" acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell'uomo».(11)

L'operatore sanitario è il buon samaritano della parabola, che si ferma accanto all'uomo ferito, facendosi suo «prossimo» nella carità (cf. Lc 10, 29-37).(12)

4. Questo significa che l'attività medio-sanitaria è uno strumento ministeriale dell'amore effusivo di Dio per l'uomo sofferente; ed insieme opera d'amore per Dio, che si manifesta nella cura amorosa dell'uomo. Per il cristiano è continuazione attualizzatrice della carità terapeutica di Cristo, il quale «passò beneficando e sanando tutti»(At 10, 38). (13) E nel contempo carità diretta a Cristo: è lui l'ammalato -«era malato»- che prende il volto del fratello sofferente; sicché egli ritiene rivolte a sé -«l'avete fatto a me»- le cure piene d'amore per il fratello (cf. Mt 25, 31-40).(14)

Professione, vocazione e missione si incontrano e, nella visione cristiana della vita e della salute, si integrano reciprocamente. In questa luce, l'attività medico-sanitaria prende un nuovo e più alto senso come «servizio alla vita» e «ministero terapeutico».(15) Ministro della vita, (16) l'operatore sanitario è «ministro di quel Dio, che nella Scrittura è presentato come "amante della vita" (Sap 11,26)».(17) Serrvire la vita è servire Dio nell'uomo: diventare «collaboratore di Dio nel ridare la salute al corpo malato»(18) e dare lode e gloria a Dio nell'accoglienza amorosa della vita, soprattutto se debole e malata.(19)

5. La Chiesa, che considera «il servizio ai malati come parte integrante della sua missione»,(20) lo assume come momento della sua ministerialità.(21) «La Chiesa ... ha sempre guardato alla medicina come ad un sostegno importante della propria missione redentrice nei confronti dell'uomo». Infatti «il servizio allo spirito dell'uomo non può attuarsi pienamente, se non ponendosi come servizio alla sua unità psicofisica. La Chiesa sa bene che il male fisico imprigiona lo spirito, così come il male dello spirito asservisce il corpo».(22)

Questo significa che il ministero terapeutico degli operatori sanitari partecipa dell'azione pastorale(23) ed evangelizzante(24) della Chiesa. Il servizio alla vita diventa ministero di salvezza, ossia annuncio che attua l'amore redentore di Cristo. «Medici, infermieri, altri operatori della salute, volontari, sono chiamati ad essere l'immagine viva di Cristo e della sua Chiesa nell'amore verso i malati e i sofferenti»:(25) testimoni del «vangelo della vita».(26)

6. Il servizio alla vita è tale solo nella fedeltà alla legge morale, che ne esprime esigentemente il valore e i compiti. Oltre una competenza tecnico-professionale, vi sono per l'operatore sanitario responsabilità etiche. «La norma etica, fondata sul rispetto della dignità della persona e dei diritti degli ammalati, deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca, quanto quella dell'applicazione dei risultati in essa raggiunti».(27) Nella fedeltà alla norma morale, l'operatore sanitario vive la sua fedeltà all'uomo, del cui valore la norma è garante, e a Dio, della cui sapienza la norma è espressione.

Egli attinge le sue direttive di comportamento a quel particolare campo dell'etica normativa che oggi viene denominato bioetica. In esso, con vigile e premurosa attenzione, si è pronunciato il Magistero della Chiesa, in riferimento a questioni e conflitti sollevati dal progresso biomedico e dal mutevole ethos culturale. Questo magistero bioetico costituisce per l'operatore sanitario, cattolico e non, una fonte di principi e norme di comportamento che ne illumina la coscienza e la orienta -specialmente nella complessità delle odierne possibilità biotecnologiche- a scelte sempre rispettose della vita e della sua dignità.

7. Il continuo progresso della medicina richiede da parte dell'operatore sanitario una seria preparazione e formazione continua, per mantenere, anche mediante studi personali, la dovuta competenza e il debito prestigio professionale.

Di pari passo dev'essere curata una solida «formazione etico-religiosa degli operatori sanitari»,(28) che «promueva in essi il culto dei valori umani e cristiani e l'affinamento della loro coscienza morale». Bisogna «far crescere in essi una fede autentica e il senso vero della morale, nella ricerca sincera di un rapporto religioso con Dio, nel quale trova fondamento ogni ideale di bontà e di verità».(29)

«Tutti gli operatori sanitari siano formati in materia morale e nella bioetica».(30) A tale scopo i responsabili della formazione devono adoperarsi per l'istituzione di cattedre e corsi di bioetica.

8. Gli operatori sanitari, i medici in particolare, non possono essere lasciati soli e gravati di responsabilità insostenibili, in presenza di casi clinici sempre più complessi e problematici, resi tali dalle possibilità biotecnologiche, molte delle quali in fase sperimentale, di cui dispone la medicina odierna, e dalla rilevanza socio-sanitaria di certe questioni.

A facilitarne le scelte e a vigilare su di esse va favorita, nei principali centri ospedalieri, la costituzione di comitati etici. In essi la competenza e valutazione medica si confronta e integra con quella di altre presenze accanto al malato, a tutela della dignità di questi e della stessa responsabilità medica.(31)

9. L'ambito di azione degli operatori sanitari è costituito, in generale, da quanto abbracciato dai termini e dai concetti anzitutto di salute ma anche di sanità.

Con il termine e il concetto di salute s'intende tutto ciò che attiene alla prevenzione, alla daignosi, alla terapia e alla riabilitazione, per il migliore equilibrio e benessere fisico, psichico e spirituale della persona. Con quello di sanità s'intende invece tutto cioò che riguarda la politica, la legislazione, la programmazione e le strutture sanitarie.(32)

Il concetto integrale di salute si riflette direttamente anche su quello di sanità. Infatti «le istituzioni sono molto importanti e indispensabili; tuttavia nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratta di farsi incontro alla sofferenza dell'altro».(33)

L'incontro e la sintesi nella prassi delle esigenze e dei compiti suscitati dai concetti di salute e di sanità costituiscono il fondamento e la via di umanizzazione della medicina. Questa è da praticarsi insieme sia sul piano personale-professionale: il rapporto medico-paziente; sia sul piano sociale-politico: per difendere nelle strutture istituzionali e tecnologiche, gli interessi umano-cristiani nella società e le infrastrutture istituzionali e tecnologiche. Il primo non senza il secondo, in quanto tale umanizzazione, oltre che a un compito d'amore-carità, «risponde a un dovere di giustizia».(34) Questa umanizzazione costruisce nel profondo «quella civiltà "dell'amore e della vita" senza la quale l'esistenza delle persone e della società smarrisce il suo significato più autenticamente umano».(35)

10. La presente carta vuole garantire la fedeltà etica dell'operatore sanitario: le scelte e i comportamenti in cui prende corpo il servizio alla vita.

Questa fedeltà viene delineata seguendo la traccia dell'esistenza umana: il generare, il vivere, il morire, quale riferimenteo di riflessioni etico-pastorali.

I. IL GENERARE

11. «Nella narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza" (Gn 1,26). La vita che Dio offre all'uomo e un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura».(36)

«Lo stesso Dio che disse: "non è bene che l'uomo sia solo" (Gn 2, 18), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e moltiplicatevi" (Gn 2,18)». La generazione di un nuovo essere umano è, quindi, «un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i coniugi che formano "una sola carne" (Gn 2, 24), come collaboratori di Dio Creatore».(37)

Gli operatori sanitari assolvono il loro servizio qualora aiutano i genitori a procreare con responsabilità, favorendone le condizioni, rimuovendone le difficoltà e tutelandoli da un tecnicismo invasivo e non degno del procreare umano.

La manipolazione genetica

12. La conoscenza sempre più estesa del patrimonio genetico (genoma) umano, l'individuazione e la mappatura in atto dei geni, con la possibilità di trasferirli, modificarli o sostituirli, apre inedite prospettive alla medicina e contemporaneamente pone nuovi e delicati problemi etici.

Nella valutazione morale si deve distinguere la manipolazione strettamente terapeutica, che si pone come obiettivo la cura di malattie dovute ad anomalie genetiche o cromosomiche (terapia genica), dalla manipolazione alternativa del patrimonio genetico umano. L'intervento curativo, che va anche sotto il nome di «chirurgia genetica», «sarà considerato in linea di principio auspicabile, purché tenda alla vera promozione del benessere personale dell'uomo, senza intaccare la sua integrità o deteriorare le sue condizioni di vita».(38)

13. Interventi invece non propriamente curativi, miranti alla «produzione di esseri umani selezionati secondo il sesso o altre qualità prestabilite», alterativi comunque del corredo genico dell'individuo e della specie umana, «sono contrari alla dignità personale dell'essere umano, alla sua integrità e alla sua identità. Non possono quindi in alcun modo essere giustificati in vista di eventuali conseguenze benefiche per l'umanità futura»:(39) «nessuna utilità sociale o scientifica e nessuna motivazione ideologica potranno mai motivare un intervento sul genoma umano che non sia terapeutico, cioè in se stesso finalizzato al naturale sviluppo dell'essere umano».(40)

14. In ogni caso questo genere di interventi «non deve pregiudicare l'origine della vita umana, cioè la procreazione legata all'unione non solamente biologica ma anche spirituale dei genitori, uniti dal legame del matrimonio».(41)

Le valutazioni etiche negative, qui delineate si riferiscono ad ogni intervento di manipolazione genetica che riguardi embrioni. Non solleva invece questioni morali oltreché la manipolazione di cellule somatiche umane per fini curativi anche la manipolazioone di cellule animali o vegetali per fini farmaceutici.

La regolazione della fertilità

15. «La vera pratica dell'amore coniugale e tutta la struttura della vita familiare che ne nasce, senza posporre gli altri fini del matrimonio, a questo tendono, che i coniugi, con fortezza d'animo siano disposti a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia».(42) «Quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona...Nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo alle leggi della biologia, ma alla continuazione della creazione».(43)

«La paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato»,(44) un nuovo concepimento. In questo secondo caso si pone il problema della regolazione della fertilità.

16. Nella valutazione dei comportamenti in ordine a questa regolazione, il giudizio morale «non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella dignità stessa della persona umana e dei suoi atti».(45) Si tratta della dignità dell'uomo e della donna e del loro più intimo rapporto. Il rispetto di questa dignità decide della verità dell'amore coniugale.

Relativamente all'atto coniugale, esso esprime la «connessione inscindibile tra i due significati dell'atto: il significato unitivo e il significato procreativo».(46) Gli atti infatti con cui coniugi realizzano pienamente e intensificano la loro unione sono gli stessi che generano la vita e viceversa.(47)

L'amore che assume il «linguaggio del corpo» a sua espressione è nel contempo unitivo e procreativo: «comporta chiaramente "significati sponsali" e parentali insieme».(48) Questa connessione è intrinseca all'atto coniugale: «l'uomo non la può rompere di sua iniziativa», senza smentire la dignità propria della persona e «l'interiore verità dell'amore coniugale».(49)

17. Pertanto, mentre è lecito, per gravi motivi, avvalersi delle conoscenze della fertilità della donna, rinunciando all'uso del matrimonio nei periodi di fecondità, risulta illecito il ricorso ai mezzi contraccettivi.(50)

I metodi naturali implicano un atto coniugale che, da una parte non dà luogo ad una nuova vita e, dall'altra, resta tuttavia in se stesso destinato alla vita.(51) «Proprio tale rispetto rende legittimo, a servizio della responsabilità nel procreare, il ricorso ai metodi naturali di regolazione della fertilità: essi vengono sempre meglio precisati dal punto di vista scientifico e offrono possibilità concrete per scelte in armonia con i valori morali».(52)

I mezzi artificiali contraddicono «la natura dell'uomo come quella donna e del loro più intimo rapporto».(53) Qui l'unione sessuale è scissa dalla procreazione: l'atto è contraffatto nella sua naturale apertura alla vita. «Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione e tradita e la fecondità e sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna».(54)

Ciò avviene con «ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione».(55)

18. Emerge così «la differenza antropologica e al tempo stesso morale che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali».(56)

«Non si tratta di una distinzione a livello semplicemente di tecniche o di metodi, in cui l'elemento decisivo sarebbe costituito dal carattere artificiale o naturale del procedimento.(57) È una differenza che coinvolge «due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili».(58)

Occorre allora riconoscere e motivare la «differenza»: «la ragione ultima di ogni metodo naturale non è semplicemente la sua efficacia o attendibilità biologica, ma la sua coerenza con la visione cristiana della sessualità espressiva dell'amore coniugale».(59). «Si afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l'aborto. L'obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione».(60)

19. Più che a istruzioni per l'uso, i metodi naturali rispondono al significato attribuito all'amore coniugale, che indirizza e determina il vissuto della coppia: «La scelta dei ritmi naturali comporta l'accetazzione del tempo della persona, cioè della donna, e con ciò l'accettazione anche del dialogo, del rispetto reciproco, della comune responsabilità, del dominio di sé ... In questo contesto ...la comunione coniugale viene arricchita di quei valori di tenerezza e di affettività, i quali costituiscono l'anima profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione fisica».(61)

20. Gli operatori sanitari possono contribuire, secondo le opportunità loro proprie, a favorire questa concezione umana e cristiana della sessualità, rendendo accessibili ai coniugi, e prima ancora ai giovani, le conoscenze necessarie per un comportamento responsabile e rispettoso della peculiare dignità della sessualità umana.(62)

Ecco perché la Chiesa fa appello anche alla loro «responsabilità» nell' «aiutare effettivamente i coniugi a vivere il loro amore nel rispetto della struttura e delle finalità dell'atto coniugale che lo esprime».(63)

La procreazione artificiale

21. L'applicazione all'uomo di biotecnologie desunte dalla fecondazione di animali, ha reso possibili diversi interventi sulla procreazione umana, sollevando gravi questioni di liceità morale. «Le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita».(64)

Il criterio etico valutativo è qui segnato dalla originalità del generare umano, che «deriva dalla originalità stessa della persona umana».(65) «La trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle santissime leggi di Dio: leggi immutabili e inviolabili che vanno riconosciute e osservate».(66) Tale atto personale è l'intima unione d'amore degli sposi, i quali donandosi totalmente a vicenda, donano la vita. È un unico e indivisibile atto, insieme unitivo e procreativo, coniugale e parentale.(67)

Questo atto -«espressione del dono reciproco che, secondo la parola della Scrittura, effettua l'unione "in una carne sola"»(68)- è il centro sorgivo della vita.

22. L'uomo non ha libertà di disconoscere e disattendere i significati e i valori intrinseci alla vita umana fin dal suo sorgere. «È per questo che non si possono usare mezzi a seguire leggi che possono essere leciti nella trasmissione della vita delle piante e degli animali»(69). La dignità della persona umana esige che essa venga all'esistenza come dono di Dio e frutto dell'atto coniugale, proprio e specifico dell'amore unitivo e procreativo tra gli sposi, atto che per la sua stessa natura risulta insostituibile.

Ogni mezzo e intervento medico, nell'ambito della procreazione, deve avere una funzione di assistenza e mai di sostituzione dell'atto coniugale. Infatti «il medico è al servizio delle persone e della procreazione umana: non ha facoltà di disporre né di decidere di esse. L'intervento medico è rispettoso della dignità delle persone quando mira ad aiutare l'atto coniugale ...Al contrario, talvolta accade che l'intervento medico si sostituisca all'atto coniugale ...: in questo caso l'atto medico non risulta, come dovrebbe, al servizio della unione coniugale, ma si appropria della funzione procreatrice e così contraddice alla dignità e ai diritti inalienabili degli sposi e del nascituro».(70)

23. «Non si proscrive necessariamente l'uso di taluni mezzi artificiali destinati unicamente sia a facilitare l'atto naturale, sia a procurare il raggiungimento del proprio fine all'atto naturale normalmente compiuto»(71) È il caso dell'inseminazione artificiale omologa, ossia all'interno del matrimonio con seme del coniuge, quando questo è ottenuto attraverso il normale atto coniugale.

24. È illecita la FIVET (Fertilizzazione in vitro con embryo transfer) omologa perché il concepimento avviene non come compimento dell'atto coniugale -«il frutto dell'atto coniugale specifico dell'amore tra gli sposi»(72) -ma al di fuori: in vitro, ad opera di tecnici che ne determinano le condizioni e ne decidono l'attuazione.(73) Essa risponde non alla logica della «donazione», che connota il generare umano, ma della «produzione» e del «dominio», propria degli oggetti e degli effetti. Qui il figlio non nasce come «dono» d'amore, ma come «prodotto» di laboratorio.(74)

«In se stessa» la FIVET «attua la dissociazione dei gesti che sono destinati alla fecondazione umana dell'atto coniugale», atto «inscindibilmente corporale e spirituale». La fecondazione è effettuata al di fuori del corpo dei coniugi. Essa non è «né di fatto ottenuta né positivamente voluta come l'espressione e il frutto di un atto specifico dell'unione coniugale», ma come il «risultato» di un intervento tecnico.(75) L'uomo «non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una "realtà" sacra affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua "venerazione". Essa diventa semplicemente "una cosa", che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile».(76)

25. Il desiderio del figlio, per quanto sincero e intenso, da parte dei coniugi, non legittima il recorso a tecniche contrarie alla verità del generare umano e alla dignità del nuovo essere umano.(77)

Il desiderio del figlio non è all'ordine di alcun diritto al figlio. Questi è persona, con dignità di «soggetto». In quanto tale non può essere voluto come «oggetto» di diritto. Il figlio ad essere concepito nel pieno rispetto del suo essere persona.(78)

26. Oltre queste ragioni intrinseche alla dignità della persona e del suo concepimento, a rendere moralmente inammissibile la FIVET omologa concorrono circostanze e conseguenze relative al modo in cui è praticata oggi.

Essa infatti è ottenuta al prezzo di numerose perdite embrionali, che sono aborti procurati. Può comportare inoltre il congelamento, che vuol dire la sospensione della vita, degli embrioni cosiddetti «soprannumerari» e spesso anche la loro distruzione.(79)

Inaccettabile è l'inseminazione «post mortem», cioè con seme, depositato in vita, del coniuge defunto.

Si tratta di fattori aggravanti un procedimento tecnico già in se stesso moralmente illecito e che tale rimane anche senza di essi.(80)

27. Le tecniche eterologhe sono «gravate» della «negatività etica» di un concepimento dissociato dal matrimonio. Il ricorso a gameti di persone estranee agli sposi contrasta con l'unità del matrimonio e la fedeltà degli sposi e lede il diritto del figlio ad essere concepito e messo al mondo nel matrimonio e dal matrimonio. «La procreazione allora ... esprime il prorprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di avere il figlio "ad ogni costo", e non, invece, perché dice totale accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla ricchezza della vita di cui il figlio è portatore».(81)

Tali techiche infatti disattendono la vocazione comune e unitaria dei coniugi alla paternità e alla maternità -a «diventare padre e madre soltanto l'uno attraverso l'altro»- e provocano una «rottura fra parentalità genetica, parentalità gestazionale e responsabilità educativa», che si ripercuote dalla famiglia nella società.(82)

Ulteriore motivo di delegittimazione è la mercificazione e la selezione eugenetica dei gameti.

28. Per gli stessi motivi, aggravati dall'essenza di vincolo matrimoniale, è moralmente inaccettabile la fecondazione artificiale di nubili e conviventi.(83) «Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione e tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna».(84)

29. Ugualmente contraria alla dignità della donna, all'unità del matrimonio e alla dignità della procreazione della persona umana è la maternità «sostitutiva».

Impiantare nell'utero di una donna un embrione che le è geneticamente estraneo o anche solo fecondarla con l'impegno di consegnare il nascituro a un committente, significa dissociare la gestazione dalla maternità, riducendola a una incubazione irrispettosa della dignità e del diritto del figlio ad essere «conceptio, portato in grembo, messo al mondo ed educato dai propri genitori».(85)

30. Il giudizio di illiceità morale concerne chiaramente le modalità con cui viene ottenuta la fecondazione umana non il frutto di queste tecniche, che è sempre un essere umano, da accogliere come un dono della bontà di Dio e da educare con amore.(86)

31. Le tecniche di fecondazione artificiale possono aprire la strada oggi a tentativi o progetti di fecondazione tra gameti umani e animali, di gestazione di embrioni umani in uteri animali o artificiali, di riproduzione asessuale di esseri umani mediante fissione gemellare, clonazione, partenogenesi.

Tali procedimento contrastano con la dignità umana dell'embrione e della procreazione, per cui sono da considerarsi moralmente riprovevoli.(87)

32. Una medicina ordinata al bene integrale della persona non può prescindere dai principi etici che presiedono il generare umano.

Donde il «pressante appello» a medici e ricercatori a rendere «un'esemplare testimonianza del rispetto dovuto all'embrione umano e alla dignità della procreazione».(88)

33. Il servizio medico alla vita accompagna il vivere della persona lungo tutto l'esistere terreno. Esso diventa tutela, promozione e cura della salute, ossia dell'integrità e del benessere psico-fisico della persona, in cui la vita «prende corpo».(89)

È un servizio fondato sulla dignità della persona umana e sul diritto alla vita e si esprime oltreché nella profilassi, terapia e riabilitazione, anche nella promozione della globale salute dell'uomo.

34. Questa responsabilità impegna l'operatore sanitario in un servizio alla vita che va «dal suo primo inizio al suo termine naturale», ossia «dal momento del concepimento alla morte».(90)

II. IL VIVERE

Origine e nascita alla vita

35. «Dal momento in cui l'ovulo è fecondato si inaugura una nuova vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo» essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora... fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire».(91)

Le recenti acquisizioni della biologia umana vengono a confermarci che «nello zigote derivante dalla fecondazione si è già costituita l'identità biologica di un nuovo individuo umano».(92) È l'individualità propria di un essere autonomo, intrinsecamente determinato, autorealizzante se stesso, con graduale continuità.

L'individualità biologica perciò la natura personale dello zigote è tale fin dal concepimento. «Come pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso processo dello sgorgare della vita possa essere sottratto all'opera sapiente e amorosa del Creatore e lasciato in balìa dell arbitrio dell'uomo?».(93) Sicché è errato e fuorviante parlare di preembrione, se per esso s'intende uno stadio o una condizione di vita preumana dell'essere umano concepito.(94)

36. La vita prenatale è vita pienamente umana in ogni fase del suo sviluppo. Ad essa gli operatori sanitari devono perciò lo stesso rispetto, la stessa tutela e la stessa cura dovuti ad una persona umana.

In particolare a ginecologi e ostetriche «spetta di vegliare con sollecitudine sul mirabile e misterioso processo della generazione che si compie nel seno materno, allo scopo di seguirne il regolare svolgimento e di favorirne il felice esito con la venuta alla luce della nuova creatura».(95)

37. La nascita di un bambino segna un momento importante e significativo dello sviluppo iniziato con il concepimento. Non un «salto» di qualità o un nuovo inizio, ma una tappa, senza soluzione di continuità, dello stesso processo. Il parto è il passaggio dalla gestazione materna all'autonomia fisiologica della vita.

Con la nascita il bambino è in grado di vivere in indipendenza fisiologica dalla madre e di entrare in una nuova relazione con il mondo esterno.

Può avvenire, in caso di parto prematuro, che questa indipendenza non sia stata pienamente raggiunta. In tale evenienza gli operatori sanitari hanno l'obbligo di assistere il neonato, offrendogli tutte le condizioni possibili, atte a raggiungerla.

Qualora, malgrado tutti i tentativi, si tema seriamente per la vita del bambino, gli operatori sanitari devono provvedere al battesimo nelle condizioni previste dalla Chiesa. Nell'impossibilità di reperire un ministro ordinario del sacramento -un sacerdote o un diacono- allo stesso operatore sanitario è data facoltà di conferirlo.(96)

Il valore della vita: unità di corpo ed anima

38. Il rispetto, tutela e la cura dovuti propriamente alla vita umana, derivano dalla sua singolare dignità. «Nell'ambito dell'intera creazione visibile essa è un valore unico». L'essere umano, infatti, è la «sola creatura che Dio ha voluto per se stessa».(97) Tutto è creato per l'uomo. Solo l'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1, 26-27), non è finalizzato e finalizzabile ad altro o ad altri, ma a Dio soltanto per il quale egli è. Solo, l'uomo è persona: ha dignità di soggetto e valore di fine.(98)

39. La vita umana è insieme e irriducibilmente corporale e spirituale. «In forza della sua unione sostanziale con un'anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni, né può essere valutato alla stessa stregua del corpo degli animali, ma è parte costitutiva della persona che attraverso di esso si manifesta e si esprime».(99) «Ogni persona umana, nella sua singolarità irripetibile, non è costituita soltanto dallo spirito ma anche dal corpo, così che nel corpo e attraverso il corpo viene raggiunta la persona stessa nella sua realtà concreta».(100)

40. Ogni intervento sul corpo umano «non raggiunge soltanto i tessuti, gli organi e le loro funzioni, ma coinvolge anche a livelli diversi la stessa persona».(101)

L'attività sanitaria non deve mai perdere di vista «l'unità profonda dell'essere umano, nell'evidente interazione di tutte le funzioni corporali, ma anche nell'unità delle sue dimensioni corporale, affettiva, intellettuale e spirituale». Non si può isolare «il problema tecnico posto dal trattamento di una determinata malattia dall'attenzione che deve essere offerta alla persona del malato in tutte le sue dimensioni. È bene ricordarlo, proprio quano la scienza medica tende alla specializzazione di ciascuna disciplina».(102)

41. Rivelazione della persona,(103) il corpo, nella sua conformazione e dinamica biologica, è fondamento e fonte di esigibilità morale. Ciò che è e avviene biologicamente non è indifferente. Ha invece rilevanza etica: è indicativo-imperativo per l'agire.(104) Il corpo è una realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo.(105)

Non può prescindere dal corpo ed ergere la psiche a criterio e fonte di moralità: il sentire e il desiderare soggettivi non possono sovrastare e disattendere le determinazioni oggettive corporee. Il tendenziale prevalere di quelli su queste è all'origine dell'odierna psicologizzazione dell'etica e del diritto, che deduce dai desideri individuali (e dalle possibilità tecniche) la liceità dei comportamenti e degli interventi sulla vita.

L'operatore sanitario no può disattendere la verità corporea della persona e prestarsi a soddisfare desideri, sia soggettivamente espressi sia legalmente codificati, in contrasto con l'oggetiva verità della vita.

Indisponibilità e inviolabilità della vita

42. «L'inviolabilità della persona, riflesso dell'assoluta inviolabilità di Dio stesso, trova la sua prima e fondamentale espressione nell'inviolabilità della vita umana».(106) «La domanda "Che hai fatto?" (Gn4,10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli viene richiamato alla inviolabilità della vita -della sua vita e di quella degli altri- come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre».(107)

Il corpo partecipa, indivisibilmente dallo Spirito, della dignità propria, del valore umano della persona: corpo-soggetto non corpo-oggetto, come tale indisponibile e inviolabile.(108) Non si può disporre del corpo come di un oggetto di appartenenza. Non lo si può contraffare come una cosa o uno strumento di cui si è padroni e arbitri.

Ogni abusivo intervento sul corpo è offesa alla dignità della persona e perciò a Dio che ne è l'unico e assoluto Signore: «L'uomo non è padrone della propria vita, ma la riceve in usufrutto; non ne è proprietario, ma amministratore, perché Dio solo è Signore della vita».(109)

43. L'appartenenza a Dio, e non all'uomo, della vita,(110) le conferisce quel carattere sacro(111) che suscita un atteggiamento di profondo rispetto: «Una conseguenza diretta della provenienza divina della vita è la sua indisponibilità, cioè la sua sacralità».(112) Indisponibile e intangibile perché sacra: è «una sacralità naturale, che ogni retta intelligenza può riconoscere, anche a prescindere da una fede religiosa».(113)

L'attività medico-sanitaria è anzitutto servizio vigile e tutore di questa sacralità: una professione a difesa del valore non-strumentale di questo bene «in sé» -non relativo cioè ad altro o ad altri, ma solo a Dio- che è la vita umana.(114) «La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l'unico signore: l'uomo non può disporne».(115)

44. Questo va affermato con particolare vigore e recepito con vigile consapevolezza in un tempo di invasivo sviluppo delle tecnologie biomediche, in cui aumenta il rischio di una abusiva manipolazione della vita umana. Non sono in discussione le tecniche in se stesse, ma la loro presunta neutralità etica. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile può ritenersi moralmente ammissibile.

Le possibilità techniche devono misurarsi con la liceità etica, che ne stabilisce la compatibilità umana, ossia il loro effettivo impiego a tutela e rispetto della dignità della persona umana.(116)

45. La scienza e la tecnica «non possono da sole indicare il senso dall'esistenza e del progresso umano. Essendo ordinate all'uomo da cui traggono origine e incremento, attingono dalla persona e dai suoi valori morali l'indicazione delle loro finalità e la consapevolezza dei loro limiti».(117)

È per questo che la scienza deve essere alleata della sapienza. La scienza e la tecnica sono oltranizste, spostano cioè ogni giorno più avanti le loro frontiere. La sapienza e la coscienza tracciano per esse i limiti invalicabili dell'umano.(118)

Il diritto alla vita

46. La signoria divina sulla vita è fondamento e garanzia del diritto alla vita, che non è però un potere sulla vita.(119) È piuttosto il diritto a vivere con dignità umana:(120) nonché ad essere garantiti e tutelati in questo bene fondamentale, originario e insopprimibile che è radice e condizione di ogni altro bene-diritto della persona.(121)

«Titolare di tale diritto è l'essere umano in ogni fase del suo sviluppo, dal concepimento fino alla morte naturale; e in ogni sua condizione, sia di salute o di malattia, di perfezione o di handicap, di ricchezza o di miseria».(122)

47. Il diritto alla vita interpella l'operatore sanitario da una duplice prospettiva. Anzitutto egli non si attribuisce sulla vita da curare un diritto-potere che non ha né lui né lo stesso paziente e, che perciò non gli può essere da questo conferito.(123)

Il diritto del paziente non è padronale e assoluto, ma legato e limitato alle finalità stabilite dalla natura.(124) «Nessun uomo può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale "viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28)».(125)

Qui -sui limiti stessi del diritto del soggetto a disporre della propria vita- «si erge il limite morale dell'azione del medico che agisce con il consenso del paziente».(126)

48. In secondo luogo, l'operatore sanitario si fa attivamente garante di questo diritto: «Finalità intrinseca» della sua professione è «l'affermazione del diritto dell'uomo alla sua vita e alla sua dignità».(127) Egli l'adempie assumendo il corrispettivo dovere della tutela profilattica e terapeutica della salute(128) e del miglioramento, negli ambiti e con i mezzi a lui pertinenti, della qualità della vita delle persone e dell'ambiente vitale.(129) Nel suo impegno lo guida e lo sostiene la legge dell'amore, di cui è sorgente e modello il Figlio di Dio fatto uomo, che "morendo ha dato la vita al mondo".(130)

49. Il diritto fondamentale e primario di ogni uomo alla vita, che si particolarizza come diritto alla tutela della salute, subordina i diritti sindacali degli operatori sanitari.

Ciò implica che ogni giusta rivendicazione da parte dei lavoratori della sanità deve svolgersi nella salvaguardia del diritto del malato alle cure dovute, in ragione della loro indispensabilità. Pertanto in caso di sciopero devono essere assicurati -anche attraverso apposite misure legali- i servizi medico-ospedalieri essenziali e urgenti alla tutela della salute.

La prevenzione

50. La tutela della salute impegna l'operatore sanitario anzitutto nel campo della prevenzione.

Prevenire è meglio che curare, sia perché evita alla persona il disagio e la sofferenza della malattia, sia perché esime la società dai costi, non solo economici, della cura.

51. La prevenzione propriamente sanitaria, che consiste nella somministrazione di particolari farmaci, nella vaccinazione, nella effettuazione di esami-screening per l'accertamento di predisposizioni, nella prescrizione di comportamenti e abitudini miranti ad evitare la insorgenza, la diffusione o l'aggravamento di malattie, compete essenzialmente agli operatori sanitari. Può essere diretta a tutti i membri di una società, a fasce di persone o a singoli individui.

52. C'è anche una prevenzione sanitaria in senso ampio, in cui l'azione dell operatore sanitario è solo una componente dell'impegno profilattico messo in atto dalla società. È la prevenzione da esercitare nei confronti delle malattie cosiddette sociali, come la tossicodipendenza, l'alcoolismo, il tabagismo, l'AIDS; dei disagi di fasce sociali d'individui come gli adolescenti, i portatori di handicap, gli anziani; dei rischi per la salute connessi a condizioni e modalità del vivere odierno, come nell'alimentazione, nell'ambiente, nel lavoro, nello sport, nel traffico urgano, nell'uso di mezzi di trasporto, di macchine ed elettrodomestici.

In questi casi l'intervento preventivo è il rimedio prioritario e più efficace, se non proprio l'unico possiblile. Essige però l'azione concomitante di tutte le forze operanti nella società. Prevenire qui è piu che atto medico-sanitario. Si tratta di incidere sulla cultura, attraverso il recupero di valori sommersi e l'educazione ad essi, la diffusione di una concezione più sobria e solidale della vita, l'informazione sulle abitudini a rischio, la formazione del consenso politico per una legislazione di supporto.

La possibilità effettiva ed efficace della prevenzione è legata non solo e primariamente alle tecniche di attuazione, ma alle motivazioni che la sostengono e alla loro concrezione e diffusione culturale.

La malattia

53. Pur partecipando del valore trascendente della persona, la vita corporea riflette, per sua natura, la precarietà della condizione umana. Questa si evidenzia specialmente nella malattia e nella sofferenza, che vengono vissute come malessere di tutta la persona. «La malattia e la sofferenza infatti non sono esperienze che riguardano soltanto il sostrato fisico dell'uomo, ma l'uomo nella sua interezza e nella sua unità somatico-spirituale».(131)

La malattia è piu di un fatto clinico, medicalmente circoscrivibile. È sempre la condizione di un uomo, il malato. Con questa visione integralmente umana della malattia gli operatori sanitari devono rapportarsi al paziente. Si tratta per essi di possedere, insieme alla dovuta competenza tecnico-professionale, una coscienza di valori e di significati con cui dare senso alla malattia e al proprio lavoro e fare di ogni singolo caso clinico un incontro umano.

54. Il cristiano sa dalla fede che la malattia e la sofferenza partecipano dell'efficacia salvifica della croce del Redentore. «La redenzione di Cristo e la sua grazia salvifica raggiungono tutto l'uomo nella sua condizione umana e quindi anche la malattia, la sofferenza e la morte».(132) «Sulla Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva perfezione il prodigio del serpente innalzato da Mosé nel deserto (cf. Gv 3, 14-15; Nm 21, 8-9). Anche oggi, volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione».(133) Vissute «in stretta unione con le sofferenze di Gesù», la malattia e la sofferenza assumono «una straordinaria fecondità spirituale». Sicché l'ammalato può dire con l'Apostolo: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).(134)

Da questa risignificazione crisitana, l'ammalato può essere aiutato a sviluppare verso la malattia un triplice salutare atteggiamento: la «coscienza» della sua realtà «senza minimizzarla e senza esagerarla»; l'«accettazione», «non con rassegnazione più o meno cieca», ma nella serena consapevolezza che «il Signore può e vuole ricavare il bene dal male»; l'«oblazione», «compiuta per amore del Signore e dei fratelli».(135)

55. Nella persona del malato è sempre colpita, ad ogni modo, la famiglia. L'aiuto ai familiari e la loro cooperazione con gli operatori sanitari sono preziosa componente dell'assistenza sanitaria.

L'operatore sanitario, nei confronti della famiglia del malato, è chiamato a prestare sia individualmente sia attraverso le forme associative di appartenenza, insieme alle cure, anche opera di illuminazione, di consiglio, di orientamento e di sostegno.(136)

La diagnosi

56. Guidato da questa visione integralmente umana e propriamente cristiana della malattia, l'operatore sanitario cerca anzitutto di rivelarla e analizzarla nel malato: ne compie la diagnosi e relativaprognosi.

Condizione di ogni cura è la previa ed esatta individuazione della patologia nei suoi sintomi e nele sue cause.

57. In questo l'operatore sanitario si farà carico delle domande e delle ansie del paziente e dovrà guardarsi dalla duplice ed opposta insidia dell'«abbandono» e «dell'accanimento» diagnostico.

Nel primo caso si costringe il paziente a vagare da uno specialista o da un servizio sanitario a un altro, non riuscendo a trovare il medico o il centro diagnostico in grado e disposto a farsi carico del suo male. L'estrema specializzazione e parcellizzazione delle competenze e delle divisioni cliniche, mentre è garanzia di perizia professionale, si riverbera a danno del malato quando l'organizzazione sanitaria sul territorio non consente un approccio sollecito e globale al suo male.

Nel secondo caso invece ci si ostina a trovare una malattia ad ogni costo. Si può essere indotti, per pigrizia, per profitto o per protagonismo, a diagnosticare comunque una patologia e a medicalizzare problemi che non sono di natura medico-sanitaria. In tal caso non si aiuta la persona ad avere l'esatta percezione del proprio disagio, fuorviandola da se stessa e dalle proprie responsabilità.

58. Esclusi tali eccessi e condotta nel pieno rispetto della dignità e dell'integrità della persona, soprattutto in relazione all'uso di tecniche strumentali invasive, la diagnosi non pone in generale problemi d'ordine etico. In se stessa è ordinata alla terapia: è un atto a beneficio della salute.

Problemi particolari, tuttavia, sono posti dalla diagnostica predittiva, per le possibili ripercussioni sul piano psicologico e le discriminazioni a cui può dare luogo e alla diagnostica prenatale. Si tratta, per quest'ultima, di una possibilità sostanzialmente nuova e in notevole sviluppo, che come tale merita delle considerazione a parte.

La diagnosi prenatale

59. La conoscenza sempre più estesa della vita intrauterina e lo sviluppo degli strumenti di accesso ad essa anticipano oggi alla vita prenatale le possibilità di diagnosi, consentendo così interventi terapeutici sempre più tempestivi ed efficaci.

La diagnosi prenatale riflette la bontà morale di ogni intervento diagnostico. Nel contempo però presenta problemi etici propri, legati al rischio diagnostico e alle finalità con cui può essere richiesta e praticata.

60. Il fattore rischio concerne la vita e l'integrità fisica del concepito, e solo in parte della madre, relativamente alle diverse tecniche diagnostiche e alle percentuali di rischio che ciascuna presenta.

Perciò bisogna «valutare attentamente le eventuali conseguenze negative che l'uso necessario di una determinata tecnica d'indagine può avere» ed «evitare il ricorso a procedimenti diagnostici circa la cui onesta finalità e sostanziale innocuità non si possiedono sufficienti garanzie». E se un coefficiente di rischio dovrà essere affrontato, il ricorso alla diagnosi deve avere delle ragionevoli indicazioni da accertare in sede di consulenza diagnostica.(137)

Di conseguanza «tale daignosi è lecita se i metodi impiegati, con il consenso dei genitori adeguatamente informati, salvaguardano la vita e l'integrità dell'embrione e di sua madre, non facendo loro correre rischi sproporzionati».(138)

61. Le finalità con cui la diagnosi prenatale può essere richiesta e praticata debbono essere sempre a beneficio del bambino e della madre, perché indirizzate a consentire gli interventi terapeutici, a dare sicurezza e tranquillità a gestanti angosciate dal dubbio di malformazioni fetali e tentate dal ricorso all'aborto, a predisporre, in caso di esito infausto, all'accoglienza della vita segnata da handicap.

La diagnosi prenatale «è gravemente in contrasto con la legge morale quando contempla l'eventualità, in dipendenza dai risultati, di provocare un aborto. Una diagnosi attestante l'esistenza di una malformazione o di una malattia ereditaria non deve equivalere a una sentenza di morte».(139)

È parimenti illecita ogni direttiva o programma delle autorità civili e sanitarie o di organizzazioni scientifiche, che favoriscano la diretta connessione tra diagnosi prenatale e aborto. Sarebbe responsabile di illecita collaborazione lo specialista che, nel condurre la diagnosi e nel comunicarne l'esito, contribuisse volutamente a stabilire o a favorire il collegamento tra diagnosi prenatale e aborto.(140)

Terapia e riabilitazione

62. Alla diagnosi segue la terapia e la riabilitazione: la messa in atto di quegli interventi curativi e sananti che consentono la guarigione e la reintegrazione personale e sociale del paziente.

La terapia è atto propriamente medico, diretto a combattere le malattie nelle loro cause, manifestazioni e complicazioni. La riabilitazione invece è un complesso di misure mediche, fisioterapiche, psicologiche e di addestramento funzionale, dirette a ripristinare o migliorare l'efficienza psicofisica di soggetti in vario modo menomati nelle loro capacità di integrazione, di relazione e di produzione lavorativa.

Terapia e riabilitazione «hanno di mira non solo il bene e la salute del corpo, ma la persona come tale che, nel corpo, è colpita dal male».(141) Ogni terapia mirante all'integrale benessere della persona non si ritiene paga del successo clinico, ma ingloba l'azione riabilitativa come restituzione dell'individuo a se stesso, attraverso la riattivazione e riappropriazione delle funzioni fisiche menomate dalla malatia.

63. All'ammalato sono dovute le cure possibili da cui può trarre un salutare beneficio.(142)

La responsabilità nella cura della salute impone a ciascuno «il dovere di curarsi e di farsi curare». Di conseguenza «coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare le loro opere con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili».(143) No solo quelli miranti alla possibile guarigione, ma anche quelli lenitivi del dolore e di sollievo di una condizione inguaribile.

64. L'operatore sanitario nell'impossibilità di guarire, non deve mai rinunciare a curare.(144) Egli è tenuto a praticare tutte le cure «proporzionate». Non c'è obbligo invece di ricorrere a quelle «sproporzionate».

In relazione alle condizioni di un ammalato, sono da ritenersi ordinarie le cure in cui dà rapporto di debita proporzione tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Dove non si dà proporzione le cure sono da considerarse straordinarie.

Al fine di verificare e stabilire il darsi o meno del rapporto di proporzione in una determinata situazione, si devono «valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell'ammalato e delle sue foze fisiche e morali».(145)

65. Il principio, qui enunciato, di proporzionalità nelle cure può essere così precisato e appplicato:

- «In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell'ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio».

- «È lecito interrompere l'applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi», perché non si dà più proporzione tra «l'investimento di strumenti e personale» e «i risultati prevedibili» o perché «le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre».

- «È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l'obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso». Questo rifiuto «non equivale al suicidio». Può significare piuttosto «o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività».(146)

66. Per la reintegrazione della persona nella salute, possono essere necessari, in assenza di altri rimedi, interventi che comportano la modificazione, mutilazione o asportazione di organi.

La manipolazione terapeutica dell'organismo è legittimata qui dal principio di totalità.(147) per ciò stesso detto anche di terapeuticità, in virtù del quale «ogni organo particolare è subordinato ell'insieme del corpo e deve ad esso sottomettersi in caso di conflitto. Di conseguenza, colui che ha ricevuto l'uso di tutto l'organismo ha il diritto di sacrificare un organo particolare, se la conservazione o la funzionalità di questo provocano al tutto organico un danno considerevole, imposibile da evitare altrimenti».(148)

67. La vita fisica, se da una parte esprime la persona e ne assume il valore, così da non poterne disporre come di una cosa, dall'altra non esaurisce il valore della persona né rappresenta il sommo bene.(149)

È per questo che si può legittimamente disporre di una parte di essa per il benessere della persona. Così come si può sacrificarla o arrischiarla per un bene superiore «quale la gloria di Dio, la salvezza delle anime o il servizio dei fratelli»:(150) «La vita corporea è un bene fondamentale, condizione quaggiù di tutti gli altri; ma ci sono valori più alti per i quali potrà essere legittimo o anche necessario esporsi al pericolo di perderla».(151)

Analgesia e Anestesia

68. Il dolore da una parte ha esso stesso una funzione terapeutica, perché «agevola il confluire della realzione fisica e psichica dell'uomo all'attacco del male»,(152) dall'altra fa appello alla medicina per la terapia lenitiva e soppressiva.

69. Per il cristiano il dolore ha un alto significato penitenziale e salvifico. «È infatti una partecipazione alla passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l'uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo».(153)

La sopportazione cristianamente motivata e corroborante del dolore, non induce a ritenere che ogni sofferenza e ogni dolore vadano sopportati comunque e che non si debba intervenire per lenirli.(154) Che anzi si pone già essa come via di umanizzazione del dolore. La stessa carità cristiana esige dagli operatori sanitari l'alleviamento della sofferenza fisica.

70. «A lungo andare il dolore impedisce il raggiungimento di beni e di interessi superiori».(155) Può provocare effetti nocivi all'integrità psico-fisica della persona. Una sofferenza troppo intensa può diminuire o impedire la padronanza dello spirito. Per cui è legittimo, ed oltre certe soglie di sopportabilità è anche doveroso, per l'operatore sanitario, prevenire, lenire ed elimintare il dolore. Moralmente consentaneo e propizio è altresì l'impegno del ricercatore a «sottomettere il dolore al potere dell'uomo».(156)

L'anestesia come l'analgesia, «intervenendo direttamente in ciò che il dolore ha di più aggressivo e sconvolgente, ricupera l'uomo a se stesso, rendendogli più umana l'esperienza del soffrire».(157)

71. A volte l'impiego di farmaci e tecniche analgesiche e anestetiche comportano la soppressione o diminuzione della coscienza e dell'uso delle facoltà superiori. In quanto tali interventi mirano direttamente non alla perdita della coscienza e della libertà ma della sensibilità al dolore, e vengono contenuti nei limiti del solo bisogno clinico, sono da ritenersi eticamente legittimi.(158)

Il consenso informato del paziente

72. Nell'intervenire medicalmente su un ammalato l'operatore sanitario deve avere il suo consenso espresso o tacito.

Egli infatti «non ha nei confronti del paziente un diritto separato o indipendente. In generale, può agire solo se il paziente lo autorizza esplicitamente o implicitamente (direttamente o indirettamente)».(159) Senza questa autorizzazione egli si attribuisce un potere arbitrario.(160)

Inoltre il rapporto sanitario è una relazione umana: dialogica non oggettuale. Il paziente «non è un individuo anonimo» su cui vengono applicate delle conoscenze mediche, ma «una persona responsabile, che deve essere chiamata a farsi compartecipe del miglioramento della propria salute e del raggiungimento della guarigione. Egli deve essere messo nella condizione di poter scegliere personalmente e non di dover subire decisioni e scelte di altri».(161)

Per una scelta operata in piena consapevolezza e libertà, all'ammalato va data la percezione esatta del suo male e delle possibilità terapeutiche, con i rischi, le difficoltà e le conseguenze che comportano.(162) Questo significa che al paziente deve essere richiesto un consenso informato.

73. Circa la presunzione di consenso va fatta una distinzione tra paziente in grado e paziente non ingrado di comprendere e di volere.

Nel primo non si può presumere il consenso: questo dev'essere determinato ed esplicito.

Nel secondo invece l'operatore sanitario può e in situazioni estreme deve presumere il consenso agli interventi terapeutici, che egli in scienza e coscienza ritiene di praticare. Nel caso di difetto momentaneo di coscienza e volontà, in ragione del principio dell'affidamento terapeutico, ossia della fiducia originaria con cui il paziente si è remesso nelle sue mani. Nel caso di difetto permanente di conoscenza e volontà, in ragione del principio di responsabilità nella cura della salute, che fa obbligo all'operatore sanitario di farsi carico della salute del paziente.

74. Quanto ai parenti, vanno informati circa le terapie ordinarie, e coinvolti nelle decisioni circa le terapie straordinarie e opzionaoli.

Ricerca e sperimentazione

75. Un'azione terapeutica in grado d'intervenire sempre più efficacemente a beneficio della salute, è per se stessa aperta a investigare nuove possibilità. Queste sono il risultato di un'attività costante e progressiva di ricerca e sperimentazione, che riesce così a mettere a punto nuove acquisizioni sanitarie.

Procedere per via di ricerca e sperimentazione è legge d'ogni scienza applicata: il progresso scientifico vi è strutturalmente connesso. Le scienze biomediche e il loro sviluppo non si sottraggono a questa legge. Operano però su un particolare campo di applicazione e osservazione che è la vita della persona umana.

Questa, per la sua singolare dignità, si offre alla ricerca e alla sperimentazione clinica con le cautele dovute a un essere con valore di soggetto e non di oggetto. Per cui non si dà per le scienze biomediche la stessa libertà d'investigazione di cui godono le scienze applicate alle cose. «La norma etica, fondata nel rispetto della dignità della persona, deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell'applicazione dei risultati, in essa raggiunti».(163)

76. Nella fase della ricerca la norma etica esige che essa sia indirizzata a «promuovere il benessere umano».(164) È immorale ogni ricerca contraria al vero bene della persona. Investirvi energie e risorse contraddice la finalità umana della scienza e del suo progresso.(165)

Nella fase della sperimentazione, ossia della verifica sull'uomo dei risultati di una ricerca, il bene della persona, tutelato dalla norma etica, esige il rispetto di condizioni previe connesse essenzialmente al consenso e al rischio.

77. Anzitutto il consenso del paziente. Questi «deve essere informato della sperimentazione, del suo scopo e degli eventuali suoi rischi, in modo che egli possa dare o rifiutare il proprio consenso in piena consapevolezza e libertà. Il medico infatti ha sul paziente solo quel potere e quei diritti che il paziente stesso gli conferisce».(166)

Tale consenso può essere presunto quando sia a beneficio dello stesso paziente e cioè si tratti di sperimentazione terapeutica.

78. In secondo luogo c'è il fattore rischio. Per se stessa ogni sperimentazione comporta dei rischi. Con questo «non si può esigere che ogni pericolo e ogni ricschio siano esclusi. Ciò supera le umane possibilità, paralizzerebbe ogni ricerca scientifica seria e tronerebbe assai spesso a detrimento del paziente ... Esiste tuttavia un grado di pericolo che la morale non può permettere».(167)

Un soggetto umano infatti non può essere esposto al rischio allo stesso modo di un essere infraumano. C'è una soglia oltre la quale il rischio diventa umanamente inaccettabile. Questa soglia è tracciata dal bene inviolabile della persona, il che proibisce di «mettere in pericolo la sua vita, il suo equilibrio, la sua salute, o di aggravare il suo male».(168)

79. La sperimentazione non può essere iniziata e generalizzata senza che tutte le cautele siano state prese per garantire l'innocuità dell'intervento e l'attenuazione del rischio. La fase preclinica di base, esperita con accuratezza, deve fornire la più ampia documentazione e le più sicure garanzie farmaco-tossicologiche e di sicurezza operatoria(169)

Per acquisire tali assicurazioni, se utile e necessaria, la sperimentazione di nuovi farmaci o di nuove tecniche dev'essere praticata sugli animali prima che sull'uomo. «È certo che l'animale è al servizio dell'uomo e può quindi essere oggetto di sperimentazione, tuttavia dev'essere trattato come una creatura di Dio, destinata sì a cooperare al bene dell'uomo, non però ai suoi abusi».(170) Nel deriva che ogni sperimentazione «deve effettuarsi nel rispetto dell'animale, senza infliggergli inutili sofferenze».(171)

Ottenute queste garanzie, in fase clinica la sperimentazione sull'uomo deve rispondere al principio del rischio proporzionato, ossia della debita proporzione tra vantaggi e rischi prevedibili. Bisogna qui distinguere tra sperimentazione compiuta su persona malata, per fini terapeutici, e su persona sana, per fini scientifici e umanitari.

80. Nella sperimentazione su persona malata la debita proporzione va attinta dal raffronto tra le condizioni dell'ammalato e i prevedibili effetti dei farmaci o dei mezzi sperimentati. Pertanto un tasso di rischio che per un ammalato risulta proporzionato e perciò legittimo, può non esserlo per un altro.

Vale il principio -già enunciato- che «in mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell'ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l'ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell'umanità».(172) Occorre però sempre «grande rispetto del paziente nell'applicazione delle nuove terapie ancora sperimentali ...quando queste presentino ancora un'alta percentuale di rischio».(173)

«Nei casi disperati, quando il malato è perduto se non si interviene, se esiste un medicamento, un mezzo, un'operazione che, senza escludere ogni pericolo, ha ancora qualche possibilità di successo, uno spirito retto e riflessivo ammette senz'altro che il medico possa, con il consenso esplicito o tacito del paziente, procedere all'applicazione di un tale trattameto».(174)

81. La sperimentazione clinica può essere effettuata anche su persona sana, che volontariamente si offre «per contribuire con la sua iniziativa al progresso della medicina e, in tal modo, al bene della comunità». In questo caso, «fatta salva la propria integrità sostanziale, il paziente può legittimamente assumersi una quota parte di rischio».(175)

Questo è legittimato dalla solidarietà umana e cristiana che intenziona il gesto: «Donare qualcosa di se stessi, entro i limiti tracciati dalla norma morale, può costituire una testimonianza di carità altamente meritevole ed un'occasione di crescita spirituale così significativa, da poter compensare il rischio di un'eventuale minorazione fisica non sostanziale».(176)

Ad ogni modo è doveroso interrompere sempre la sperimentazione quando i risultati dovessero deludere le speranze riposte in essa.

82. Dovendosi riconoscere all'individuo umano nella fase prenatale, dignità di persona umana, la ricerca e la sperimentazione su embrioni e feti umani va soggetta alle norme etiche valevoli per il bambino già nato e per ogni soggetto umano.

In particolare la ricerca, ossia l'osservazione di un dato fenomeno in gravidanza, può essere consentita solo quando «ci sia la certezza morale di non arrecare danno né alla vita né all'integrità del nascituro e della madre e a condizione che i genitori abbiano accordato il loro consenso».(177)

La sperimentazione invece è possibile solo per scopi chiaramente terapeutici, in mancanza di altre cure possibili. «Nessuna finalità, anche in se stessa nobile, come la previsione di una utilità per la scienza, per altri esseri umani o per la società, può in alcun modo giustificare la sperimentazione sugli embrioni o feti umani vivi, viabili e non, nel seno materno o fuori di esso. Il consenso informato, normalmente richiesto per la sperimentazione clinica sull'adulto, non può essere concesso dai genitori, i quali non possono disporre né dell'integrità fisica né della vita del nascituro. D'altra parte la sperimentazione sugli embrioni o feti comporta sempre il rischio, anzi, il più delle volte la previsione certa di un danno per la loro integrità fisica o addirittura della loro morte. Ussare l'embrione umano, o il feto, come oggetto o strumento di sperimentazione rappresenta un delitto nei confronti della loro dignità di esseri umani». «Del tutto contraria alla dignità umana» è in special modo «la prassi di mantenere in vita degli embrioni umani, in vivo o in vitro, per scopi sperimentali o commerciali».(178)

Donazione e trapianto di organi

83. Il progresso e la diffusione della medicina e chirurgia dei trapianti cosente oggi la cura e la guarigione di molti malati che fino a poco tempo fa potevano soltanto attendersi la morte o, nel migliore dei casi un'esistenza dolorosa e limitata.(179) Questo «servizio alla vita»(180) che vengono così ad assumere la donazione e il trapianto di organi ne delinea il valore morale e legittima la prassi medica. Nel rispetto però di alcune condizioni, relative essenzialmente al donatore e agli organi donati e impiantati. Ogni trapianto d'organo o di tessuto umano comporta un espianto che menoma in qualche modo l'integrità corporea del donatore.

84. trapianti autoplastici, in cui cioè l'espianto e il reimpianto avvengono sulla stessa persona, sono legittimati dal principio di totalità, in virtù del quale è possibile disporre di una parte per il bene integrale dell'organismo.

85. trapianti omoplastici, in cui cioè il prelievo è operato su individuo della stessa del ricettore, sono legittimati dal principio di solidarietà che unisce gli esseri umani e dalla carità che dispone al dono verso i fratelli sofferenti.(181) «Con l'avvento del trapianto di organi, iniziato con le trasfusioni di sangue, l'uomo ha trovato il modo di offrire parte di sé , del suo sangue e del suo corpo, perché altri continuino a vivere. Grazie alla scienza e alla formazione profesionale e alla dedicazione di medici e operatori sanitari ... si presentano nuove e meravigliose sfide. Siamo sfidati ad amare il nostro prossimo in modi nuovi; in termini evangelici, ad amare "sino alla fine" (Gv 13, 1), anche se entro certi limiti che non possono essere superati, limiti posti dalla stessa natura umana».(182)

Il prelievo degli organi nei trapianti omoplastici può avvenire da donatore vivo o cadavere.

86. Nel primo caso il prelievo è legittimo a condizione che si tratti di organi il cui espianto non implica una grave e irreparabile menomazione per il donatore. «Una persona può donare soltanto ciò di cui può privarsi senza serio pericolo per la propria vita o identità personale, e per una giusta e proporzionata ragione».(183)

87. Nel secondo caso non siamo più in presenza di un vivente ma di un cadavere. Questo è sempre da rispettare come cadavere umano, ma non ha più la dignità di soggetto e il valore di fine di una persona vivente. «Il cadavere non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto, perché e privo della personalità che sola può essere soggetto di diritto». Pertanto «destinarlo a fini utili, moralmente ineccepibili e anche elevati» è una decisione da «non condannare ma da giustificare positivamente».(184)

Bisogna però aver certezza di essere in presenza di un cadavere, per evitare che sia il prelievo di organi a provocare o anche solo anticipare la morte. Il prelievo di organi da cadavere è legittimo a seguito di una diagnosi di morte cerca del donatore. Donde il dovere di «prendere misure perché un cadavere non sia considerato e trattato come tale prima che la morte non sia stata debitamente constatata».(185)

Perché una persona sia considerata cadavere è sufficiente l'accertamento della morte cerebrale del donatore, che consiste nella «cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale». Quando la morte cerebrale totale è constatata con con certezza, cioè dopo le dovute verifiche, è lecito procedere al prelievo degli organi, come anche surrogare artificialmente delle funzioni organiche per conservare vitali gli organi in vista di un trapianto.(186)

88. Non tutti gli organi sono eticamente donabili. Dal trapianto vanno esclusi l'encefalo e le gonadi, che assicurano l'identità rispettivamente personale e procreativa della persona. Si tratta di organi in cui prende specificamente corpo l'unicità inconfundibile della persona, che la medicina è tenuta a tutelare.

89. Si danno anche trapianti eterologi, ossia con organi di individuo di specie diversa dal ricevente. «Non si può dire che ogni trapianto di tessuti (biologicamente possibile) tra due individui di specie diverse sia moralmente condannabile, ma è ancora meno vero che ogni trapianto eterogeneo biologicamente possibile non sia vietato o non possa sollevare obiezioni. Si deve distinguere a seconda dei casi a vedere quale tessuto e quale organo si tratta di trapiantare. Il trapianto di ghiandole sessuali animali sull'uomo è da respingere come immorale; invece il trapianto della cornea da un organismo non umano a un organismo non solleverebbe nessuna difficoltà se fosse biologicamente possibile e indicato».(187)

Fra i trapianti eterologi vengono annoverati anche l'innesto di organi artificiali, la cui liceità è condizionata dall'effettivo beneficio per la persona e dal rispetto della sua dignità.

90. L'intervento medico nei trapianti «è inseparabile da un atto umano di donazione».(188) In vita o in morte, la persona da cui si effettua il prelievo deve potersi riconoscere come un donatore, come uno cioè che consente liberamente al prelievo.

Il trapianto presuppone una decisione anteriore, libera e consapevole da parte del donatore o di qualcuno che legittimamente lo rappresenti, di solito i parenti più stretti. «È una decisione di offrire, senza alcuna ricompensa, una parte del corpo di qualcuno per la salute e il benessere di un'altra persona. In questo senso, l'atto medico del trapianto rende possibile l'atto di oblazione del donatore, quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all'amore e alla comunione».(189)

La possibilità, consentita dal progresso bio-medico, di «proiettare oltre la morte la loro vocazione all'amore» deve indurre le persone ad «offrire in vita una parte del proprio corpo, offerta che diverrà effettiva solo dopo la morte». È questo «un atto di grande amore, quell'amore che dà la vita per gli altri».(190)

91. Iscrivendosi in questa «economia» oblativa dell'amore, lo stesso atto medico del trapianto, e persino la semplice trasfusione di sangue, «non può essere separato dall'atto di oblazione del donatore, dall'amore che dà la vita».(191)

Qui l'operatore sanitario «diventa mediatore di qualcosa di particolarmente significativo, il dono di sé compiuto da una persona -perfino dopo la morte- affinché un altro possa vivere».(192)

Le dipendenze

92. La dipendenza, sotto il profilo medico-sanitario, è una condizione di assuefazione a una sostanza o a un prodotto - come farmaci, alcool, stupefacenti, tabacco- di cui l'individuo subisce un incoercibile bisogno, e la cui privazione può cagionargli turbe psicofisiche.

Il fenomeno delle dipendenze sta conoscendo nelle nostre società una crescente, preoccupante e per certi aspetti drammatica escalation. Esso è da mettere in relazione, per un verso, con la crisi di valori e di senso di cui soffre la società e la cultura odierna,(193) per altro verso, con lo stress e le frustrazioni ingenerate dall'efficientismo, dall'attivismo e dalla elevata competitività e anonimia delle interazioni sociali.

Indubbiamente i mali causati dalle dipendenze e la loro cura non sono di pertinenza esclusiva della medicina. A questa comunque compete un approccio preventivo e terapeutico proprio.

Droga

93. La droga tossicodipendenza è quasi sempre la conseguenza di una deprecabile evasione dalle responsabilità, una contestazione aprioristica dalle struttura sociale che viene rifiutata senza produttive proposte di ragionevoli riforme, una espressione di masochismo motivata da carenza di valori.

Chi si droga non comprende o ha smarrito il senso e il valore della vita, mettendola così a repentaglio, fino a perderla: molti casi di morte per overdose sono suicidi voluti. Il drogato acquisisce una struttura mentale nichilista, preferendo superficialmente il nulla della morte al tutto della vita.

94. Sotto il profilo morale «il drogarsi è sempre illecito, perché comporta una rinuncia ingiustificata ed irrazionale a pensare, volere a agire come persone libere».(194)

Il giudizio di illiceità della droga non è un giudizio di condanna del drogato. Questi vive la propria condizione come una «pesante schiavitù», da cui ha bisogno di essere liberato.(195) La via del recupero non può essere né quella della colpevolizzazione etica né quella della repressione legale, ma fa leva piuttosto sulla riabilitazione che, senza nascondere le eventuali colpe del drogato, ne favorisce la liberazione e reintegrazione.

95. La disintossicazione del drogato è più che un trattamento medico. Peraltro i farmaci qui poco o nulla possono. La disintossicazione è un intervento integralmente umano, inteso a «dare un significato completo e definitivo all'esistenza»(196) e a restituire così al drogato quell'«autofiducia e salutare stima di sé» che gli facciano ritrovare la gioia di vivere.(197)

Nell'azione di recupero del tossicodetendente è importante «lo sforzo di conoscere l'individuo e comprenderne il mondo interiore; portarlo alla scoperta o alla riscoperta della propria dignità di uomo, aiutarlo a far risuscitare e crescere, some soggetto attivo, quelle risorse personali, che la droga aveva sepolto, mediante una fiduciosa riattivazione dei meccanismi della volontà, orientata verso sicuri e nobili ideali».(198)

96. La droga è contro la vita. «Non si può parlare della "libertà di drogarsi" né del "diritto alla droga, perché l'essere umano non ha il diritto di danneggiare se stesso e non può né deve mai abdicare alla dignità personale che gli viene da Dio», (199) e meno ancora ha diritto di far pagare agli altri la sua scelta.

Alcoolismo

97. A differenza della droga, l'alcool non è delegittimato in se stesso: «Un uso moderato di questo come bevanda non urta contro divieti morali».(200) Entro limiti ragionevoli il vino è un alimento.

«È da condannare soltanto l'abuso»:(201) l'alcoolismo, che crea dipendenza, obnubila la coscienza e, in fase cronica, produce gravi danni all'organismo e alla mente.

98. L'alcoolista è un malato bisognoso di cure mediche ed insieme dell'aiuto sul piano della solidarietà e della psicoterapia. Nei suoi confronti vanno messe in atto azioni di recupero integralmente umane.(202)

Tabagismo

99. Anche per il tabacco l'illeceità etica non concerne l'uso in se stesso, ma l'abuso. È oggi accertato che l'accesso di tabacco è nocivo per la salute e crea dipendenza. Il che induce ad abbasare sempre più la soglia dell'abuso.

Il fumo pone un problema di dissuasione e di prevenzione, da svolgere soprattutto con l'educazione sanitaria e l'informazione, anche di tipo pubblicitario.

Psicofarmaci

100. Gli psicofarmaci costituiscono una categoria speciale di medicine tendenti a debellare agitazione, deliri e allucinazioni o a liberare dell'ansia e dalla depressione.(203)

101. Per prevenire, contenere e superare il rischio della dipendenza e dell'assuefazione, gli psicofarmaci vanno assunti sotto controllo medico. «Lo stesso ricorso su indicazione medica a sostanze psicotrope per lenire in ben determinanti casi sofferenze fisiche o psichiche, deve attenersi a criteri di grande prudenza, per evitare pericolose forme di assuefazione e di dipendenza».(204)

«Compito delle autorità sanitarie, dei medici, dei responsabili dei centri di ricerca, è quello di adoperarsi per ridurre al minimo questi rischi mediante adeguate misure di prevenzione e di informazione».(205)

102. Somministrati con la finalità terapeutica e nel dovuto rispetto della persona, gli psicofarmaci sono eticamente legittimi. Valgono per essi le condizione generali di liceità dell'intervento curativo.

In particolare, va richiesto il consenso informato e rispettato il diritto al rifiuto delle terapie, tenuto conto delle capacità decisionali del malato mentale. Come pure va rispettato il principio di proporzionalità terapeutica nella scelta e nella somministrazione di questi farmaci, sulla base di un'accurata eziologia dei sintomi o dei motivi che inducono un soggetto alla richiesta del farmaco.(206)

103. È moralmente illecito l'uso non terapeutico e l'abuso di psicofarmaci finalizzato al potenziamento di prestazioni normali o a procurare una serenità artificiale ed euforizzante. In questo modo gli psicofarmaci vengono impiegati al pari di qualsiasi sostanza stupefacente, sicché valgono per essi i giudizi etici già formulati in merito alla droga.

Psicologia e psicoterapia

104. In quasi tutta la patologia del corpo è ormai dimostrata una componente psicologica sia come concausa che come risonanza. Di ciò si occupa la medicina psicosomatica, che sostiene il valore terapeutico del rapporto medico-paziente.(207)

L'operatore sanitario deve curare i rapporti con il paziente in modo tale che il suo senso umanitario rafforzi la professionalità e la competenza sia resa più efficace della capacità di comprendere il malato.

L'approccio pieno di umanità e di amore al malato, sollecitato da una visione integralmente umana della malattia e avvalorato dalla fede,(208) s'iscrive in questa efficacia terapeutica del rapporto medico-malato.

105. Disagi e malattie d'ordine psichico possono essere affrontati e curati con la psicoterapia. Questa abbraccia una varietà di metodiche che consentono a un individuo di aiutare un altro a guarire o almeno a migliorare.

La psicoterpia è essenzialmente un processo di crescita, cioè un cammino di liberazione da problemi infantili, o comunque passati, e di promozione dell'individuo alle capacità di assumere identità, ruolo, responsabilità.

106. Come intervento curativo la psicoterapia è moralmente da accettare.(209) Nel rispetto però della persona del paziente, nella cui interiorità essa consente di entrare.

Tale rispetto obbliga lo psicoterapeuta a non violare l'intimità altrui senza il suo consenso e a operare nei limiti di questo. «Come è illecito appropriarsi dei beni di un altro o attentare alla sua integrità corporale senza il suo consenso, così non è permesso entrare contro la sua volontà nel suo mondo interiore, quali che siano le tecniche e i metodi impiegati».(210)

Lo stesso rispetto obbliga a non influenzare e forzare la volontà del paziente. «Lo psicologo veramente desideroso di cercare solo il bene del paziente, si mostrerà tanto più attento nel rispettare i limiti fissati alla sua azione dalla morale, in quanti egli, per così dire, tiene in mano le facoltà psichiche di un uomo, la sua capacità di agire liberamente, di realizzare i valori più alti che il suo destino personale e la sua vocazione sociale comportano».(211)

107. Sotto il profilo morale le psicoterapie privilegiate sono la logoterapia e il counselling. Ma tutte sono accettabili, purché gestite da psicoterapeutici che si lasciano guidare da un alto senso etico.

Cura pastorale e sacramento dell'Uzione degli infermi

108. La cura pastorale degli infermi consiste nell'assistenza spirituale e religiosa. Essa è un diritto fondamentale del malato e un dovere della Chiesa (cf.Mt 10, 8; Lc 9, 2; 19, 9). Il non assicurarla, renderla discrezionale, non favorirla od ostacolarla è violazione di questo diritto e infedeltà a tale dovere.

Essa è compito essenziale e specifico, ma non esclusivo, dell'operatore di pastorale sanitaria. Per la necessaria interazione tra dimensione fisica, psichica e spirituale della persona e per dovere di testimonianza della propria fede, ogni operatore sanitario è tenuto a creare le condizioni affinché, a chi la chiede, sia espressamente sia implicitamente, venga assicurata l'assistenza religiosa.(212) «In Gesù "Verbo della vita", viene quindi annunciata e comunicata la vita divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e spirituale dell'uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato».(213)

109. L'assistenza religiosa comporta, all'interno delle strutture sanitarie, l'esistenza di spazi e di strumenti idonei a svolgerla.

L'operatore sanitario deve mostrare piena disponibilità e favorire e accogliere la domanda di assistenza religiosa da parte del malato.

Ove tale assistenza, per cause generali o occasionali, non possa essere svolta dall'operatore pastorale, dovrà, nei limiti possibili e consentiti, essere prestata direttamente dall'operatore sanitario, nel rispetto della libertà e della fede religiosa del paziente e nella consapevolezza che, assolvendo a tale compito, egli non deroga ai doveri dell'asistenza sanitaria propriamente detta.

110. L'assistenza religiosa ai malati s'iscrive nel quadro più ampio della pastorale sanitaria, ossia della presenza e dell'azione della Chiesa intesa a portare la parola e la grazia del Signore a coloro che soffrono e se ne prendono cura.

Nel mistero di quanti -sacerdoti, religiosi e laici- individualmente o comunitariamente si adoperano per la cura pastorale degli infermi, rivive la misericordia di Dio che in Cristo si è chinato sulla sofferenza umana e si compie in modo singolare e privilegiato il compito di evangelizzazione, santificazione e carità affidato dal Signore alla Chiesa.(214)

Questo significa che la cura pastorale degli infermi ha nella catechesi, nella liturgia e nella carità i suoi momenti qualificanti. Si tratta rispettivamente di evangelizzare la malattia, aiutando a scoprire il significato redentore della sofferenza vissuta in comunione con Cristo; di celebrare i sacramenti come i segni efficaci della grazia ricreatrice e vivificante di Dio; di testimoniare con la «diakonia» (il servizio) e la «koinonia» (la comunione) la forza terapeutica della carità.

111. Nella cura pastorale dei malati l'amore, pieno di verità e di grazia, di Dio si fa vicino ad essi con un sacramento proprio e particolare: l'Unzione degli infermi.(215)

Amministrato ad ogni cristiano che versa in precarie condizioni di vita, questo sacramento è rimedio per il corpo e per lo spirito: sollievo e vigore per il malato nella integralità del suo essere corporeo-spirituale; luce che illumina il mistero della sofferenza e della morte e speranza che apre al futuro di Dio il presente dell'uomo. «Tutto l'uomo ne riceve aiuto per la sua salvezza, si sente rinfrancato dalla fiducia in Dio e ottiene forze nuove contro le tentazioni del maligno e l'ansietà della morte».(216)

Avendo efficacia di grazie per l'ammalato, l'Unzione degli enfermi «non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di vita» È per questo che «il tempo opportuno per riceverla si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte».(217)

Come ogni sacramento, anche l'Unzione degli infermi va preceduta da un'opportuna catechesi, così da rendere il destinatario, l'ammalato, soggetto consapebole e responsabile della grazia del sacramento, e non oggetto incosciente di un rito della morte imminente.(218)

112. Ministro proprio dell'Uzione degli infermi è il sacerdote soltanto, il quale provvede a conferirla «a quei fedeli il cui stato di salute risulta seriamente compromesso per vecchiaia o malattia». Per valutare la serietà del male basta «un giudizio prudente o probabile».

La celebrazione di Unzioni comunitarie può servire a superare pregiudizi negativi contro l'Unzione dei malati ed aiutare a valorizzare sia il significato di questo sacramento che il senso di solidarietà ecclesiale.

L'Unzione è ripetibile se il malato, guarito dalla malattia per la quale l'ha ricevuta, cade in un'altra, o se nel corso della stessa malattia subisce un aggravamento.

Può essere conferita prima di un intervento dhirurgico, quando questo è motivato da «un male pericoloso».

Ai vecchi l'Unzione può essere conferita «per l'indebolimento accentuato delle loro forze, anche se non risultano affetti da alcuna grave malattia».

Ove se ne presentino le condizioni, può essere conferita anche ai bambini «purché abbiano raggiunto un uso di ragione sufficiente».

Nel caso di ammalati in stato di incoscienza o senza l'uso della ragione, la si conferisca «se c'è motivo di ritenere che nel possesso delle loro facoltà essi stessi, come credenti, avrebbero, almeno implicitamente, chiesto la sacra Unzione».

«A un paziente già morto non si può conferire il sacramento».(219)

«Nel dubbio se l'infermo abbia raggiunto l'uso di ragione, se sia gravemente ammalato o se sia morto, questo sacramento sia amministrato».(220)

113. Anche l'Eucaristia, come Viatico, assume un significato e un'efficacia propria per l'ammalato. «Il Viatico del corpo e del sangue di Cristo fortifica il fedele e lo munisce del pegno della risurrezione, secondo le parole del Signore:"Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Gv 6, 54)».(221)

L'Eucaristia è per l'ammalato questo Viatico di vita e di speranza. «La comunione in forma di Viatico è infatti un segno speciale della partecipazione al mistero colebrato nel sacrificio della Messa, il mistero della morte del Signore e del suo passaggio al Padre».(222)

È pertanto obbligo del cristiano domandare e ricercare il Viatico e dovere pastorale della Chiesa amministrarlo.(223)

Ministro del Viatico è il sacerdote. In sua sostituzione il diacono o un ministro straordinario dell'Eucaristia.(224)

III. IL MORIRE

114. Servire la vita significa per l'operatore sanitario assisterla fino al compimento naturale.

La vita è nelle mani di Dio: Lui ne è il Signore, Lui solo stabilisce il momento finale. Ogni fedele servitore vigila su questo compiersi della volontà di Dio nella vita di ogni uomo affidato alle sue cure. Egli non si ritiene arbitro della morte, come e perché non si ritiene arbitro della vita di alcuno.

I malati terminali

115. Quando le condizioni di salute si deteriorano in modo irreversibile e letale, l'uomo entra nello stadio terminale dell'esistere terreno. Per lui il vivere si fa particolarmente e progressivamente precario e penoso. Al male e alle sofforenza fisica sopraggiunge il dramma psicologico e spirituale del distacco che il morire significa e comporta.

Come tale il malato terminale è una persona bisognosa di accompagnamento umano e cristiano, cui medici e infermieri sono chiamati a dare il loro contributo qualificato e irrinunciabile.

Si tratta di realizzare una speciale assistenza sanitaria al morente, perché anche nel morire l'uomo abbia a riconoscersi e volersi come vivente. «Mai come in prossimità della morte e nella morte stessa occorre celebrare ed esaltare la vita. Questa deve essere pienamente rispettata, protetta ed assistita anche in chi ne vive il naturale concludersi ... L'atteggiamento davanti al malato terminale è spesso il banco di prova del senso di giustizia e di carità, della nobilità d'animo, della responsabilità e della capacità professionale degli operatori sanitari, a cominciare dai medici».(225)

116. Il morire appartiene alla vita come sua ultima fase. Va perciò curato suo momento. Interpella dunque la responsabilità terapeutica dell'operatore sanitario come e non meno di ogni altro momento del vivere umano.

Il morente non solo non va dimesso come inguaribile e abbandonato alla solitudine sua e della famiglia, ma va riaffidato alle cure di medici e infermieri. Queste, interagendo e integrandosi con l'assistenza di cappellani, assestenti sociali, volontari, parenti e amici, consentono al moribundo di accettare e vivere la morte.(226) Aiutare una persona a morire significa aiutarla a vivere intensamente l'esperienza ultima della sua vita. Quando è possibile e l'interessato lo gradisca gli si dia la possibilità di terminare la sua vita in famiglia con opportuna assistenza sanitaria.

117. Al malato terminale vanno praticate le cure mediche che gli consentono di alleviare la penosità del morire. In questa prospettiva rientrano le cosiddette cure palliative o sintomatiche.

La prima cura è una «presenza amorevole» da realizzare accanto al morente.(227) C'è una presenza propriamente medico-sanitaria che, senza illuderlo, lo fa sentire vivo, persona tra persone, perché destinatario, come ogni essere bisognevole, di attenzioni e di premure. Questa presenza attenta e premurosa, infonde fiducia e speranza nell'ammalato e lo riconcilia con la morte.(228) È un contributo unico che infermieri e medici, con il loro esserci umano e cristiano, prima ancora che con il loro fare, possono e devono dare al morente, perché al rifiuto subentri l'accettazione e sull'angoscia prevalga la speranza.

Si sottrae così il morire umano al «fenomeno della medicalizzazione», che veda la fase terminale della vita «svolgersi in ambienti affollati e movimentati, sotto il controllo di personale medico-sanitario preoccupato prevalentemente dell'aspetto biofisico della malattia». Tutto questo «è sentito in misura crescente come poco rispettoso della complessa situazione umana della persona sofferente».(229)

118. «Davanti al mistero della morte rimane impotenti; vacillano le umane certezze. Ma è proprio di fronte a tale scacco che la fede cristiana ... si propone come sorgente di serenità e di pace ... Ciò che sembrava senza significato acquista senso e valore».(230)

Quando tale «scacco» si consuma nella vita di una persona, in questa ora decisiva della sua esistenza, la testimonianza di fede e di speranza in Cristo dell'operatore sanitario ha un ruolo determinante. Dischiude infatti nuovi orizzonti di senso, ossia di risurrezione e di vita, a chi vede chiudersi le prospettive dell'esistenza terrena.

«Al di sopra di tutti i conforti umani, nessuno può trascurare di vedere l'aiuto enorme dato ai morenti e alle loro famiglie dalla fede in Dio e dalla speranza in un vita eterna».(231) Realizzare una presenza di fede e di speranza è per medici e infermieri la più alta forma di umanizzazione del morire. È più che alleviare una sofferenza. Significa adoperarsi con le proprie cure «rendere facile al malato il venire a Dio».(232)

Morire con dignità

119. Il diritto alla vita si precisa nel malato terminale come «diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana».(233)

Questo non può designare il potere di procurarsi o farsi procurare la morte, ma di vivere umanamente e cristianamente la morte e non rifuggirla «ad ogni costo». Questo diritto è venuto emergendo alla coscienza esplicita dell'uomo d'oggi per proteggerlo, nel momento della morte, da «un tecnicismo che rischia di divenire abusivo».(234)

La medicina odierna dispone infatti di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva un reale beneficio. È semplicemente mantenuto in vita o si riesce solo a protrargli di qualche tempo la vita, a prezzo di ulteriori e dure sofferenze. Si determina in tal caso il cosiddeto «accanimento terapeutico», consiste «nel uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato, condannandolo di fatto ad un'agonia prolungata artificialmente».(235)

Ciò contrasta con la dignità del morente e con il compito morale di accettare la morte e lasciare da ultimo che essa faccia il suo corso. «La morte è un inevitabile fatto della vita umana»:(236) non la si può ritardare inutilmente, rifuggendola con ogni mezzo.(237)

120. Consapevole di non essere «né il signore della vita, né il conquistatore della morte», l'operatore sanitario, nella valutazione dei mezzi, «deve fare le opportune scelte, cioè rapportarsi al paziente e lasciarsi determinare dalle sue reali condizioni».(238)

Egli applica qui il principio -già enunciato- della «proporzionalità nelle cure», il quale viene così a precisarsi: «Nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo».(239)

L'alimentazione e l'idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all'ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia.

121. Per il medico e i suoi collaboratori non si tratta di decidere della vita o della morte di un individuo. Si tratta semplicemente di essere medico, ossia d'interrogarsi e decidere in scienza e coscienza, la cura rispettosa del vivere e morire dell'ammalato a lui affidato. Questa responsabilità non esige il ricorso sempre e comunque ad ogni mezzo. Può anche richiedere di rinunciare a dei mezzi, per una serena e cristiana accettazione della morte inerente alla vita. Può anche voler dire il rispetto della volontà dell'ammalato che rifiutasse l'impiego di taluni mezzi.(240)

L'uso degli analgesici nei malati terminali

122. Tra le cure da somministrare all'ammalato terminale vanno annoverate quelle analgesiche. Queste, favorendo un decorso meno drammatico, concorrono all'umanizzazione e all'accettazione del morire.(241)

Ciò però, non costituisce una norma generale di comportamento.(242) Non si può infatti imporre a tutti un «comportamento eroico».(243) E poi molte volte «il dolore diminuisce la forza morale» nella persona:(244) le sofferenze «aggravano lo stato di debolezza e di esaurimento fisico, ostacolano lo slancio dell'anima e lograno le forze morali invece di sostenerle. Invece la soppressione del dolore procura una distensione organica e psochica, facilita la preghiera e rende possibile un più generoso dono di sé».(245)

«La prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l'uso dei medicinali che siano atti a lenire o sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare torpore o minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo i consigli del medico».(246)

L'uso degli analgesici per i morenti non è comunque esente da difficoltà.

(123) Anzitutto il loro impiego può avere come effetto, oltre l'alleviamento del dolore, anche l'anticipazione della morte.

Quando «motivi proporzionati» lo esigono, «è permesso utilizzare con moderazione narcotici che ne allevieranno le sofferenze, ma porteranno anche a una morte più rapida».(247) In tal caso «la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone».(248)

124. Si dà inoltre l'eventualità di causare con gli analgesici la soppressione della coscienza nel morente. Tale impiego merita una particolare considerazione.(249)

«Non bisogna, senza gravi ragioni, privare della coscienza il morente».(250) A volte il ricorso sistematico a narcotici che riducono all'incoscienza il malato cela il desiderio, spesso inconscio degli operatori sanitari de non mantenere una relazione col morente. Così non si cerca tanto di alleviare la sofferenza del malato, ma piuttosto il disagio dei circostanti. Si priva il morente della possibilità di «vivere la propria morte», sprofondandolo in una incoscienza idegna di essere umano.(251) È per questo che la somministrazione di narcotici al solo scopo di evitare al morente una fine cosciente è «una pratica veramente deplorevole».(252)

Diverso è il caso di una seria indicazione clinica all'uso di analgesici soppressivi della coscienza, come in presenza di dolori violenti e insopportabili. Allora l'anestesia può dirsi lecita, ma a delle condizioni previe: che il morente abbia soddisfatto o potrà ancora soddisfare i suoi doveri morali, familiari e religiosi.(253)

La verità al morente

125. La verità della diagnosi e della prognosi da dire al morente, è più in generale a quanti sono colpiti da un male incurabile, pone un problema di comunicazione.

La prospettiva della morte rende difficile e dramatica la notificazione, ma non esime dalla veracità. La comunicazione tra il morente e i suoi asistenti non può stabilire nella finzione. Questa non costituisce mai una possibilità umana per il morente e non contribuisce all'umanizzazione del morire.

C'è un diritto della persona ad essere informata sul proprio stato di vita. Questo diritto non viene meno in presenza di una diagnosi e prognosi di malattia che porta alla morte, ma trova ulteriori motivazioni.

A Tale informazione infatti sono connesse importanti e indelegabili responsabilità. Vi sono responsabilità legate alle terapie da eseguire col consenso informato del paziente.

L'avvicinarsi della morte porta con sé la responsabilità di compiere determinati doveri riguardanti i propri rapporti con la famiglia, la sistemazione di eventuali questioni professionali, la risoluzione di pendenze verso terzi. Per un credente l'aprossimarsi della morte esige la disposizione a determinati atti posti con piena consapevolezza, soprattutto l'incontro riconciliatore con Dio nel sacramento della Penitenza.

Non si può abbandonare all'incoscienza la persona nell'«ora» decisiva della sua vita, sottraendola a se stessa e alle sue ultime e più importanti decisioni. «La morte raprresenta un momento troppo essenziale perché la sua prospettiva venga evitata».(254)

126. Il dovere della verità all'ammalato terminale esige nel personale sanitario discernimento e tatto umano.

Non può consistere in una comunicazione distaccata e indifferente della diagnosi e relativa prognosi. La verità non va sottaciuta ma non va neppure semplicemente notificata nella sua nuda e cruda realtà. Essa va detta sulla lunghezza d'onda dell'amore e della carità, chiamando a sintonizzare in questa comunione tutti coloro che assistono a vario titolo l'ammalato.

Si tratta di stabilire con lui quel rapporto di fiducia, accoglienza e dialogo che sa trovare i momenti e le parole. C'è un dire che sa discernere e rispettare i tempi dell'amalato, ritmandosi ad essi. C'è un parlare che sa cogliere le sue domande ed anche suscitarle per indirizzarle gradualmente alla conoscenza del suo stato di vita. Chi cerca di essere presente all'ammalato e sensibile alla sua sorte sa trovare le parole e le risposte che consentono di comunicare nella verità e nella carità: «facendo la verità nella carità» (Ef 4,15).

127. «Ogni singolo caso ha le sue esigenze, in funzione della sensibilità e delle capacità di ciascuno, delle relazioni col malato e del suo stato; in previsione di sue eventuali reazioni (ribellione, depressione, rassegnazione, ecc.), ci si preparerà ad affrontarle con calma e con tatto». (225) L'importante non consiste nell'esattezza di ciò che si dice, ma nella relazione solidale con l'ammalato. Non si trata solo di trasmettere dati clinici, ma di comunicare significati.

In questa relazione la prospettiva della morte non si presenta come ineluttabile e perde il suo potere angosciante: il paziente non si sente abbandonato e condannato alla morte. La verità che gli viene così comunicata non lo chiude alla speranza, perché lo fa sentire vivo in una relazione di condivisione e di comunione. Egli non è solo con il suo male: si sente compreso nella verità, riconciliato con sé e con gli altri. Egli è se stesso come persona. La sua vita, malgrado tutto, ha un senso, e si dispiega in un orizzonte di significato inverante e trascendente il morire.

Il momento della morte

128. L'impiego di tecnologie rianimative e il bisogno di organi vitali per la chirurgia dei trapianti pongono in modo nuovo il problema della diagnosi dello stato di morte.

La morte è vista e provata dall'uomo come una decomposizione, una dissoluzione, una rottura.(256) «Sopravviene quando il principio spirituale che presiede all'unità dell individuo non può più esercitare le sue funzioni sull'organismo e nell'organismo i cui elementi lasciati a se stessi, si dissociano. Certo, questa distruzione non colpisce l'essere umano intero. La fede cristiana -e non solo essa- afferma la persistenza, oltre la morte, del principio spirituale dell'uomo». La fede alimenta nel cristiano la speranza di «ritrovare la sua integrità personale trasfigurata e definitivamente posseduta in Cristo (cf. 1 Cor15,22)».(257)

Questa fede piena di speranza non esclude che «la morte sia una rottura dolorosa». Ma «il momento di questa rottura non è direttamente percettibile, ed il problema è quello di identificare i segni».(258) La costatazione e interpretazione di questi segni non è di pertinenza della fede e della morale ma della scienza medica. «spetta al medico ... dare una definizione chiara e precisa della morte e del momento della morte».(259) «Gli scienziati, gli analisti e gli eruditi devono portare avanti le loro ricerche ed i loro studi per determinare nel mondo più esatto possibile il momento preciso e il segno irrecusabile della morte».(260)

Una volta acquisita questa determinazione, alla sua luce si risolvono le questioni e i conflitti morali suscitati dalle nuove tecnologie e dalle nuove possibilità terapeutiche. La morale infatti non può riconoscere la determinazione biomedica come criterio decisivo.

129. Entrando nel merito di questa determinazione, la Pontificia Accademia delle Scienze ha dato un autorevole contributo. Anzitutto alla definizione biomedica della morte: «Una persona è morta quando ha subito una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di coordinare le funzione fisiche e mentali del corpo».

In secondo luogo, alla precisazione del momento della morte: «La morte sopravviene quando: a) le funzioni spontanee del cuore e della respirazione sono definitivamente cessate, oppure b) si è accertata la cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale». In realtà «la morte cerebrale è il vero criterio della morte, poiché l'arresto definitivo delle funzioni cardiorespiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale».(261)

La fede e la morale fanno proprie queste conlusioni della scienza. Esigono però, dagli operatori sanitari, l'impiego più accurato dei diversi metodi clinici e strumentali per una diagnosi certa di morte, al fine di non dichiarare morta e trattare come tale una persona che non lo sia.

L'assistenza religiosa al morente

130. La crisi che l'avvicinarsi della morte comporta, induce il cristiano e la Chiesa a farsi portatori della luce di verità che solo la fede può accendere sul mistero della morte.

La morte è un evento che introduce nella vita di Dio, su cui solo la rivelazione può pronunciare una parola di verità. Questa verità va annunciata nella fede al morente. L'annuncio «pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14) del Vangelo accompagna il cristiano dall'inizio al termine della vita che vince la morte e apre il morire umano alla speranza più grande.

131. Occorre dunque evangelizzare la morte: annunciare il Vangelo al morente. È un dovere pastorale della comunità ecclesiale in ciascun membro, secondo le responsabilità di ognuno. Un compito particolare compete al cappellano sanitario, chiamato in modo singolare a curare la pastorale dei morenti nell'ambito più ampio di quella dei malati.

Per lui tale compito implica non solo il ruolo da svolgere personalmente accanto ai morenti affidati alle sue cure, ma anche la promozione di questa pastorale, a livello di organizzazione dei servizi religiosi, di formazione e sensibilizzazione degli operatori sanitari, di coinvolgimento di parenti e amici.

L'annuncio del Vangelo al morente ha nella carità, nella preghiera e nei sacramenti le forme espressive e attuative privilegiate.

132. La carità significa quella presenza donante e accogliente che stabilisce con il morente una comunione fatta di attenzione, di comprensione, di premure, di pazienza, di condivisione, di gratuità.

La carità vede in lui, come in nessun altro, il volto del Cristo sofferente e morente che lo chiama all'amore. La carità verso il morente -questo «povero» che sta rinunziando a tutti i beni di questo mondo -è espressione privilegiata di amore di Dio nel prossimo (cf. Mt 25, 31-40).

Amarlo di carità cristiana è aiutarlo a riconoscere e fargli sentire viva la misteriosa presenza di Dio al suo fuanco: nella carità del fratello traspare l'amore del Padre.

133. La carità apre il rapporto con il morente alla preghiera, ossia alla comunione con Dio. In essa egli si rapporta a Dio come Padre che accoglie i figli che ritornano a Lui.

Favorire nel morente la preghiera e pregare insieme con lui vuol dire dischiudere al morire gli orizzonti della vita divina. Significa, al tempo stesso, entrare in quella «comunione dei santi» in cui si riannodano in modo nuovo tutti i rapporti che la morte sembra irrimediabilmente spezzare.

134. Momento privilegiato della preghiera con il morente è la celebrazione dei sacramenti: i segni, pieni di grazia, della presenza salvifica di Dio.

Anzitutto il sacramento dell'Unzione degli infermi, mediante cui lo Spirito Santo, completando nel cristiano l'assimilazione a Cristo iniziata nel battesimo, lo fa definitivamente partecipe della vittoria pasquale sul male e sulla morte.

Il Viatico è il nutrimento eucaristico, il pane della comunione con Cristo, che dà al morente la forza di affrontare l'ultima e decisiva tappa del cammino della vita.

La penitenza è il sacramento della riconciliazione: nella pace con Dio, il morente è in pace con se stesso e con il prossimo.

135. In questa fede piena di carità, l'impotenza davanti al mistero della morte non è subita come angosciante e paralizzante. Il cristiano trova la speranza ed in essa la possibilità, malgrado tutto, di vivere e non subire la morte.

La soppressione della vita

136. L'inviolabilità della vita umana significa e implica da ultimo l'illeceità di ogni atto direttamente soppressivo. «L'inviolabilità del diritto alla vita dell'essere umano innocente dal concepimento alla morte è un segno e un'esigenza dell'inviolabilità stessa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono della vita».(262)

Dio stesso «si erge a vindice di ogni vita innocente»: «Domanderò contro della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello» (Gen 9, 5; cfr. Mt 19, 18; Rm 13, 9). Ed è categorico il suo comandamento: «Non uccidere» (Es 20, 13); «Non far morire l'innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole»(Es 23, 7).(263)

137. È per questo che «nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all'amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, irrinunciabile e inalienabile».(264)

Questo diritto viene all'uomo immediatamente da Dio (non da altri: i genitori, la società, un'autorità umana). «Quindi non vi è nessun uomo, nessuna autorità umana, nessuna scienza, nessuna "indicazione" medica, eugenica, sociale economica, morale, che possa esibire o dare un valido titolo giuridico per una diretta deliberata disposizione sopra una vita umana innocente, vale a dire una disposizione che miri alla sua distruzione, sia come a scopo, sia come a mezzo per un altro scopo, per sé forse in nessun modo illecito».(265)

In particolare «niente a nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato, incurabile o agonizante. Nessuno, inoltre, puà richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di un'offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l'umanità».(266)

138. «Ministri della vita e mai strumenti di morte»(267) agli operatori sanitari «spetta il compito di salvaguardare la vita, di vigilare affinché essa evolva e si sviluppi in tutto l'arco dell'esistenza, nel rispetto del desegno tracciato dal Creatore».(268)

Questo ministero vigile di salvaguardia della vita umana riprova l'omicidio come atto moralmente grave, in contraddizione con la missione medica, e contrasta la morte volontaria, il suicidio, come «inaccettabile», dissuadendo da esso chiunque fosse tentato.(269)

Tra le modalità, omidice o suicide, di soppressione della vita ve ne sono due -l'aborto e l'eutanasia- versi cui questo ministero deve farsi oggi particolarmente vigile e in certo modo profetico, per il contesto culturale e legislativo assai spesso insensibile, se non proprio favorevole al loro diffondersi.

L'aborto

139. L'inviolabilità della persona umana dal momento del concepimento, proibisce l'aborto come soppressione della vita prenatale. Questa è «una diretta violazione del diritto fondamentale alla vita dell'essere umano».(270) e costituisce un «abominevole delitto»(271)

Occorre fare esplicito riferimento alla soppressione abortiva della vita e alla sua gravità morale, per la facilità con cui si ricorre oggi a questa pratica omicida e per l'indifferenza etica indotta nei suoi confronti da una cultura edonistica ed utilitaristica, figlia del materialiemo teorico e pratico, che ha ingenerato una vera e propria mentalità abortista.

L'eliminazione della vita del nascituro indesiderato è diventata un fenomeno assai diffuso, finanziato da denaro pubblico e facilitato da legislazioni permissive e garantiste.(272) Tutto questo porta fatalmente molti a non avvertire più alcuna responsabilità verso la vita nascente e banalizzare una colpra grave.(273) «Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando... si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita una aspetto inedito e -se possibile- ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell'opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti alla libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l'impunità, ma persino l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l'intervento gratuito delle strutture sanitarie».(274)

140. La Chiesa, come ogni uomo amante della vita, non può assuefarsi a questa mentalità e alza la sua voce a tutela della vita, in particolare di quella indifesa e disconosciuta, qual è la vita embrionale e fetale.

Essa chiama gli operatori sanitari alla fedeltà professionale, che non tollera alcuna azione soppressiva della vita, malgrado «il rischio di incomprensioni, di fraintendimenti, ed anche di pesanti discriminazioni» che questa coerenza può comportare. (275) La fedeltà medico-sanitaria delegittima ogni intervento, chirurgico o farmaceutico, diretto a interrompere la gravidanza in ogni suo stadio.

141. È pur vero che in certi casi, rifiutando l'aborto, si reca pregiudizio a beni anche importanti, che è normale voler salvaguardare. È il caso della salute della madre, dell'aggravio di un figlio in puù, di una grave malformazione fetale, di una gravidanza originata da violenza sessuale.

Non si possono disconoscere o minimizzare queste difficoltà e le ragioni che le sorreggono. Si deve però affermare anche che nessuna di esse può conferire oggettivamente il diritto di disporre della vita altrui, anche se in fase iniziale. «La vita, infatti, è un bene troppo fondamentale perché possa essere posta a confronto con certi incovenienti anche gravissimi».(276)

142. La delegittimazione etica, come atto intrinsecamente riprovevole, riguarda ogni forma di aborto diretto. È atto abortivo anche l'uso di farmaci o mezzi che impediscono l'impianto dell'embrione fecondato o che ne provocano il distacco precoce. Coopera con l'azione abortiva il medico che consapevolmente prescrive o applica tali farmaci o mezi.

Quando l'aborto segue come conseguenza prevista ma non intesa né voluta, semplicemente tollerata, di un atto terapeutico inevitabile per la salute della madre, questo è moralmente legittimo. L'aborto è conseguenza indiretta di un atto in sé non abortivo.(277)

143. In presenza di una legislazione favorevole all'aborto, l'operatore sanitario «deve opporre il suo civile ma fermo rifiuto».(278) «L'uomo non può mai obbedire a una legge che ammettesse, in linea di principio, la liceità dell'aborto».(279)

Questo vuol dire che medici e infermieri sono obligati a sollevare obiezione di coscienza. Il bene grande e fondamentale della vita rende tale obbligo un dovere morale grave per il personale sanitario, indotto dalla legge a praticare l'aborto o a cooperare in maniera prossima all'azione abortiva diretta.

La coscienza del bene inviolabile della vita e della legge di Dio che lo tutela, antecede ogni legge positiva umana. Quando questa la contraddice, la coscienza afferma il suo diritto primario e il primato della legge di Dio: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29)

«Seguire la propria coscienza nell'obbedienza alla legge di Dio non è sempre una via facile. Ciò può comportare sacrifici e aggravi, di cui non è lecito disconoscere il peso; talvolta ci vuole eroismo per restare fedeli a tali esigenze. Tuttavia, è necessario proclamare chiaramente che la via dell'autentico sviluppo della persona umana passa per questa costante fedeltà alla coscienza mantenuta nella rettitudine e nella verità».(280)

144. Oltre che segno di fedeltà professionale, l'obiezione di coscienza dell'operatore sanitario, autenticamente motivata, ha l'alto significato di denuncia sociale di una ingiustizia legale perpetrata contro la vita innocente e indifesa.

145. La gravità del peccato d'aborto e la facilità con cui lo si compie, con il favore della legge e della mentalità corrente, inducono la Chiesa a comminare la pena della scomunica al cristiano che lo provoca: «Chi procura l'aborto ottenendo l'affetto incorre nella scomunione latae sententiae».(281)

La scomunica ha un significato essenzialmente preventivo e pedagogico. È un richiamo forte della Chiesa, mirante a scuotere l'insensibilità delle coscienze, a dissuadere da un atto assolutamente incompatibile con le esigenze del Vangelo e a suscitare la fedeltà senza riserve alla vita. Non si può essere nella comunione ecclesiale e disattendere con l'aborto il vangelo della vita.

La tutela e l'accoglienza della vita nascente, la sua imposponibilità ad ogni bene, è una testimonianza decisiva e credibile che il cristiano deve dare nonostante tutto.

146. Verso i feti abortiti gli operatori sanitario hanno degli obblighi particolari.

Il feto abortito, se ancora vivente, nei limiti del possibile, dev'essere battezzato.(282)

Al feto abortito, e già morto, è dovuto il rispeto proprio del cadavere umano. Ciò implica che non ci si può disfare di esso come di un qualunque rifiuto. Nei limiti del possibile gli va data adeguata sepoltura.

Come anche il feto non può diventare oggetto di sperimentazione e di espianto di organi, se fatto abortire volontariamente. Sarebbe una indegna strumentalizzazione di una vita umana.

L'eutanasia

147. Una mentalità sempre meno incline a riconoscere la vita come valore in se stesso, relativo a Dio solo, indipendente dal modo di essere al mondo; una concezione della qualità della vita in termini di efficienza e godibilità psicofisica, incapace di dare significato alla sofferenza e all'handicap, per ciò stesso da rifuggiare ad ogni costo e con tutti i mezzi; una visione della morte come fine assurda di una vita ancora da godere, o come liberazione da una esistenza ritenuta ormai priva di senso; tutto questo -all'interno di una cultura che, prescindendo da Dio, rende l'uomo responsabile solo davanti a se stsso e alle leggi della società liberamente stabilite- è il terreno di coltura dell'eutanasia. Dove queste convinzioni si diffondono «può apparire logico e "umano" porre fine "dolcemente" alla vita propria o altrui, quando essa riservasse solo sofferenze e menomazioni gravi».(283)

«Ma questo è in realtà assurdo e disumano».(284) L'eutanasia è un'atto omicida, che nessun fine può legittimare. Per eutanasia s'intende «un'azione o un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».(285)

La pietà suscitata dal dolore e dalla sofferenza verso malati terminali, bambini anormali, malati mentali, anzianti, persone affette da mali inguaribili, non autorizza nessuna eutanasia diretta, attiva o passiva. Qui non si tratta di aiuto prestato a un malato, ma dell'uccisione intenzionale di un uomo.

148. Il personale medico e paramedico -fedele al compito di «essere sempre al servizio della vita e assisterla sino alla fine»(286)- non può prestarsi a nessuna pratica eutanasica neppure su richiesta dell'interessato, tanto meno dei suoi congiunti. Non si dà infatti per l'individuo un diritto eutanasico, perché non si dà un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita. Nessun operatore sanitario dunque può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente.

Diverso è il caso del diritto, già menzionato, a morire con dignità umana e cristiana. Questo è un diritto reale e legittimo, che il personale sanitario è chiamato a salvaguardare, curando il morente e accettando il naturale compimento della vita. C'è radicale differenza tra «dare la morte» e «consentire il morire»: il primo è atto soppressivo della vita, il secondo è accettarla fino alla morte.

149. «Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l'ammalato ha bisogno è l'amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri».(287)

L'ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana, non cade nella depressione e nell'angoscia di chi invece si sente abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte e chiede di farla finita con la vita. È per questo che l'eutanasia è una sconfitta di chi la teorizza, la decide e la pratica. Tutt'altro che gesto di pietà verso l'ammalato, l'eutanasia è atto di autocommiserazione e di fuga, individuale e sociale, da una situazione provata come insostenibile.

150. L'eutanasia sconvolge il rapporto medico-paziente. Da parte del paziente, peerché questi si rapporta al medico come a colui che può assicurargli la morte. Da parte del medico, perché egli non è più assoluto garante della vita: da lui l'ammalato deve temere la morte. Il rapporto medico-paziente è una relazione fiduciale di vita e tale deve restare.

L'eutanasia è «un crimine» cui gli operatori sanitari, garanti sempre e solo della vita, non possono cooperare in alcun modo.(288)

Per la scienza medica essa segna «un momento di regresso e di abdicazione, oltreché un'offesa alla dignità del morente e alla sua persona».(289) Il suo profilarsi, come «ulteriore approdo di morte dopo l'aborto», deve essere colto come un «drammatico appello» alla fedeltà effettiva e senza riserve verso la vita.(290)


(1) GIOVANNI PAOLO II, Durante la visita al «Mercy Maternity Hospital» di Melbourne, 28 nov. 1986, in Insegnamenti IX/2 (1986) 1734, n. 5. «La vita e la salute fisica sono beni preziosi donati da Dio. Dobbiamo averne ragionevolmente cura, tenendo conto delle necessità altrui e del bene comune» (CCC 2288).

(2) EV, 89.

(3) Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 1010, n.6.

(4) «Nell'esercizio della vostra professione, voi avete sempre a che fare con la persona umana, che consegna nelle vostre mani il suo corpo, fidando nella vostra competenza oltre che nella vostra sollecitudine e premura. È la misteriosa e grande realtà della vita di un essere umano, con la sua sofferenza e con la sua speranza, quella che voi trattate»: GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Congresso di chirurgia, 19 febb. 1987, in Insegnamenti X/1 (1987) 374, n.2.

(5) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno medico sulla terapia dei tumori, 25 febb. 1982, in Insegnamenti V/1 (1982) 698. Cf. anche GIOVANNI PAOLO II: «Ciascuno di voi non può limitarsi ad essere medico di organo o di apparato, ma deve farse carico di tutta la persona», Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/83 (1982) 673-674, n. 4.

(6) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso dei Medici Cattolici Italiani, OssRom, 18 ottobre 1988.

(7) GIOVANNI PAOLO II, Motu Proprio Dolentium Hominum, 11 febb. 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985) 474, n. 2. «La cura della salute dei cittadini richiede l'apporto della società perché si abbiano le condizioni d'esistenza che permettano di crescere e di raggiungere la maturità: cibo e indumenti, abitazione, asssistenza sanitaria, insegnamento di base, lavoro, previdenza sociale» (CCC 2288).

(8) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno medico sulla terapia dei tumori, 25 febb. 1982, in Insegnamenti V/1 (1982) 698, n. 4. Cf. Ai partecipanti a un Congresso scientifico, 21 mag. 1982, inInsegnamenti V/2 (1982) 1792, n. 5.

(9) «Come più volte ho ripetuto nei miei incontri con gli operatori sanitari, la vostra professione corrisponde ad una vocazione che vi impegna nella nobile missione di servizio all'uomo nel vasto, complesso e misterioso campo della sofferenza» (GIOVANNI PAOLO II, Ai rappresentanti dei medici cattolici italiani, 4 mar. 1989, in Insegnamenti XII/1 [1989] 480, n. 2).

(10) Cf. GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medici Cattolici Italiani, 28 dic. 1978, in Insegnamenti I (1978) 436. «Voi sapete quale stretta relazione esiste, quale analogia, quale interscambio tra la missione del sacerdote da una parte e quella dell'operatore sanitario dall'altra: tutti sono dediti, a diverso titolo, alla salvezza dell'uomo, alla cura della sua salute, a liberarlo dal male, dalla sofferenza e dalla morte, a promuovere in lui la vita, il benessere, la felicità» (GIOVANNI PAOLO II, Discorso in occasione del 120° anniversario della fondazione dell'ospedale «Banbini Gesù», 18 mar. 1989, in InsegnamentiXII/1 [1989] 605-608, n. 2).

(11) EV, 1.

(12) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apost. Salvifici Doloris, in Insegnamenti VII/1 (1984) 353-358, nn. 28-30; A un gruppo internazionale di scienziati, 27 apr. 1984, in Insegnamenti VII/1 (1984) 1133-1135, n. 2; Alle Organizzazioni sanitarie cattoliche degli Stati Uniti, 14 sett. 1987, in Insegnamenti X/3 (1987) 506.

(13) «Il personalissimo rapporto di dialogo e di fiducia che si instaura tra voi e il paziente esige in voi una carica di umanità che si risolve, per il credente, nella ricchezza della carità cristiana. È questa virtù divina che arricchisce ogni vostra azione e dà ai vostri gesti, anche al più semplice, la potenza di un atto compiuto da voi in interiore comunione con Cristo»: GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione dei medici dentisti, 14 dic. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 1592-1594, n. 4. «Voi recate nella camera dell'infermo e sopra la tavola di operazione qualche cosa della carità di Dio, dell'amore e della tenerezza di Cristo, il grande Medico dell'anima e del corpo»: GIOVANNI PAOLO II, All'ospedale «Fatebenefratelli», 5 apr. 1981, in Insegnamenti IV/1(1981), n.3.

(14) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Alla scuola per infermieri professionali «Armida Barelli», 27 mag. 1989, in Insegnamenti XII/1 (1989) 1364, n. 3. «Quale stimolo all'auspicata "personalizzazione" della medicina può venire dalla carità cristiana, che fa scoprire nei lineamenti di ogni infermo il volto adorabile del grande, misterioso Paziente, che continua a soffrire in coloro sui quali si curva, sapiente e provvida, la vostra professione!» (GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 [1980] 1010, n.7].

(15) Cf. GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medici Cattolici Italiani, 28 dic. 1978, in Insegnamenti I (1978) 327-438.

(16) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Al personale dell'ospedale «Fatebenefratelli», 5 apr. 1981, in Insegnamenti IV/1 (1981) 895, n.3.

(17) GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medici Cattolici Italiani, 28 dic. 1978, in Insegnamenti I (1978) 437.

(18) GIOVANNI PAOLO II, Alla Federazione Italiana fra Operatori nella Tecnica Ortopedica, 19 nov. 1979, in Insegnamenti II/2 (1979) 1207, n. 4; cf. Ai partecipanti ad un Congresso scientifico, 21 mag. 1982, in Insegnamenti V/2 (1982) 1792, n.5.

(19) «La vostra opera ... può trasformarsi in un atto religioso» (GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti ad un Congresso di chirurgia, 19 febb. 1987, in Insegnamenti X/1 [1987] 375, n. 3; cf. Paolo VI,Insegnamenti di Paolo VI I, 1963, p.141).

(20) GIOVANNI PAOLO II, Motu Proprio Dolentium hominum, 11 febb. 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985), p. 475.

(21) «Ogni preoccupazione per la malattia e la sofferenza è parte della vita e della missione della Chiesa» (GIOVANNI PAOLO II, Alle organizzazioni sanitarie cattoliche degli Stati Uniti d'America, 14 sett. 1987, in Insegnamenti X/3 [1987] 502-503, n.3). «Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù "buon samaritano" (cf. Lc 10, 29-37) e sostenuta dalla sua forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea su queste frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie, specialmente religiose e religiosi, in forme antiche e sempre nuove, hanno consacrato e continuato a consacrare la loro vita a Dio donandola per amore del prossimo più debole e bisognoso» (EV 27).

(22) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 672, n.3. «Il Signore Gesù Cristo, medico delle nostre anime e dei nostri corpo, colui che ha rimesso i peccati al paralitico e gli ha reso la salute del corpo, ha voluto che la sua Chiesa continui, nella forza dello Spirito Santo, la sua opera di guarigione e di salvezza, anche presso le proprie membra. È lo scopo dei due sacramenti di guarigione: del sacramento della Penitenza e dell'Unzione degli infermi (CCC 1421)»

(23) «La vostra presenza accanto al malato si ricollega con quella di quanti- sacerdoti, rligiosi e laici- sono impegnati nella pastorale degli infermi. Non pochi aspetti di tale pastorale si incontrano con i problemi e i compiti del servizio alla vita compiuti dalla medicina. Vi è una necessaria interazione tra esercizio della professione medica ed azione pastorale, poiché unico oggeto di entrambe è l'uomo, colto nella sua dignità di figlio di Dio, di fratello bisognoso, al pari di noi, di aiuto e di conforto» (GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 [1982] 676, n. 6).

(24) «Voi, mentre alleviate le sofferenze e cercate di guarirle, nelo stesso tempo siete testimoni di una visione cristiana della sofferenza e del significato della vita e della morte, così come viene insegnato dalla vostra fede cristiana» (GIOVANNI PAOLO II, Alle Organizzazioni sanitarie cattoliche degli Stati Uniti d'America, 14 sett. 1987, in Insegnamenti X/3 [1987] 502 e 505).

(25) GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Christifideles Laici, 30 dic. 1988, in Insegnamenti XI/4 (1988) 2160, n. 53.

(26) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Congresso Internazionale sull'assistenza ai morenti, in OssRom, 18 mar. 1992, n. 6. «Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero del Verbo di Dio che si è fatto carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa» (EV, 3).

(27) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Congresso di chirurgia, 19 febb. 1987 in Insegnamenti X/1 (1987) 375, n.3. «Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultima l'umanità, ma piuttosto la stimola ad affrontare la lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica, Veritatis Splendor, n. 1).

(28) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Motu proprio Dolentium Hominum, 11 febb 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985) 475. «Particolarmente significativo è il risveglio di una riflessione etica intorno alla vita: con la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono favoriti la riflessione e il dialogo -tra credenti e non-credenti, come pure tra credenti di diverse religioni- su problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo» (EV, 27).

(29) Cf. GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione degli operatori sanitari cattolici, 24 ott. 1986, in Insegnamenti IX/2 (1986) 1171, n.3. «Nel contesto culturale e sociale odierno, nel quale la scienza e l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa dimensione etica, essi possono talvolta fortemente essere tentati di trasformarsi in artefici di manipolazione della vita o addirittura in operatori di morte» (EV, 89).

(30) Sinodo dei Vescovi, Assemblea speciale per l'Europa, Dichiarazione conclusiva, in OssRom, 20 dic. 1991, n. 10. «È illusorio rivendicare la neutralità morale della ricertca scientifica e delle sue applicazioni. D'altra parte, i criteri orientativi non possono essere dedotti né dalla semplice efficacia tecnica, né dall'utilità che può derivarne per gli uni a scapito degli altri, né, peggio ancora, dalle ideologie dominanti. La scienza e la tecnica richiedono, per il loro stesso significato intrinseco, l'incondizionato rispetto dei critesti fondamentali della moralità; devono essere al servizio della persona umana, dei suoi inalienabili diritti, del suo bene vero e integrale, in conformità al progetto e alla volontà di Dio» S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988), Introduzione, 2, p. 73 (cf. CCC2294).

(31) Comitati etici, formati da esperti in campo medico e morale, vengono costituiti anche dai governi con compiti consultivi o di sorveglianza. «La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza» (GIOVANNI PAOLO II, EnciclicaVeritatis Splendor, n. 3). «... nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso della vita» (Ivi,n. 1; cf. EV, 4).

(32) Cf. GIOVANNI PAOLO II, All'Assemblea plenaria del Pontif. Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, 9 febb. 1990, in Insegnamenti XIII/2 (1990) 405, n. 4.

(33) GIOVANNI PAOLO II, Lettera apost. Salvifici Doloris, in Insegnamenti VII/1 (1984) 354-356, n. 29.

(34) Cf. GIOVANNI PAOLO II, A scienziati e ad operatori sanitari, 12 nov. 1987, in Insegnamenti X/3 (1987) 1088: «L'umanizzazione della medicina risponde a un dovere di giustizia, il cui assolvimento non può essere delegato interamente ad altri, richiedendo l'impegno di tutti. Il campo operativo è vastissimo: esso va dall'educazione sanitaria alla promozione di una maggiore sensibilità nei responsabili della cosa pubblica; dall'impegno diretto nel proprio ambiente di lavoro e quello di forme di cooperazione -locale, nazionale e internazionale- che sono rese possibili dall'esistenza di tanti organismi e associazioni aventi tra le loro finalità statutarie il richiamo, diretto o indiretto, alla necessità di rendere sempre più umana la medicina».

(35) EV, 27.

(36) EV, 34.

(37) Ivi, 43.

(38) GIOVANNI PAOLO II, All'associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1983, in Insegnamenti VI/2 (1983) 921. Cf. Allocuzione ai partecipanti ad un Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze, 23 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 895-898.

(39) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 85. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Christifideles Laici, 30 dic. 1988, in Insegnamenti XI/4 (1988) 2133-2135, n. 38; Santa Sede, Carta dei diritti della Famiglia, 22 ott. 1983, art. 4.

(40) GIOVANNI PAOLO II, All'Unione Giuristi Cattolici Italiani, 5 dic. 1987, in Insegnamenti X/3 (1987) 1295. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo «dovere permanente di scrutare i segni dei tempo e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis Splendor, n. 2).

(41) GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1983, in Insegnamenti VI/2 (1983) 921-923. Cf. S.Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 90-92.

(42) Cf. Conc. Ecum. Vaticano II, Costit, past. Gaudium et Spes, n. 50; Paolo VI, Enciclica Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 487.

(43) EV, 43.

(44) Cf. PAOLO VI, Enciclica Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 487, n. 10.

(45) Conc. Ecum. Vaticano II, Costit. past. Gaudium et Spes, n. 51.

(46) Cf. PAOLO VI, Enciclica Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 488, n. 12.

(47) «Per la sua intima struttura, l'atto coniugale, mentre unisce profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell'essere stesso dell'uomo e della donna» (Paolo VI, Enciclica Humanae vitae, in AAS 60 [1968] 488-489, n. 12).

(48) Cf. S.Congr. Dott. Fede, Istruz, Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 91.

(49) Cf. Paolo VI, Enciclica Humanae Vitae, n. 12; GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Familiaris Consortio, in AAS 74 (1982) 118, n. 32. «Per questo, "l'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del prorpio essere deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo ..."» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veitatis Splendor, n. 8).

(50) I metodi naturali «sono mezzi diagnostici dei periodi feritli della donna, che aprono la possibilità all'astinenza dai rapporti sessuali quando giustificati motivi di responsabilità chiedono di evitare il concepimento» (GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un corso per insegnanti di metodi naturali, 10 genn. 1992, in Oss Rom, 11 genn. 1992, n.3)

(51) Cf. Paolo VI, Enciclica Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 488, n. 11 e 492, n. 16.

(52) EV, 97.

(53) Cf. Paolo VI, Enciclica Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 489, n. 13; cf. anche GIOVANNI PAOLO II, Esortaz, apost. Familiaris Consortio, in AAS 74 (1982) 118, n. 32.

(54) EV, 23.

(55) Cf. Paolo VI, Enciclica Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 490, n. 14.

(56) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Familiaris Consortio, in AAS 74 (1982) 118, n. 32.

(57) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un corso per insegnamenti di metodi naturali, 10 genn. 1992, in OssRom, 11 genn. 1992, n. 3.

(58) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Familiaris consortio, in AAS 74 (1982) 118, n. 32.

(59) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a due Congressi sui problemi del matrimonio, della famiglia e della fertilità, 8 giu. 1984, in Insegnamenti VII/1 (1984) 1664-1665. «Al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei coniugi, la contraccezione impone un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all'altro in totalità» (Esort. ap. Familiaris Consortio, 32).

(60) EV, 13.

(61) GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Familiaris consortio, in AAS 74 (1982) 120, n. 32.

(62) Cf. ivi, p. 122, n. 33.

(63) Ivi, p. 125, n. 35.

(64) EV, 14.

(65) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 76.

(66) GIOVANNI XXIII, Enciclica Mater et Magistra, III, in AAS 53 (1961) 447. Cf. Pio XII, Alle congressiste dell'Unione Cattolica Italiana Ostetriche, 29 ott. 1951, in AAS 43 (1951) 850.

(67) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 16 gennaio 1980, in Insegnamenti III/1 (1980) 148-152.

(68) Cf. Pio XII, Alle congressiste dell'Unione Cattolica Italiana Ostetriche, 29 ott. 1951, in AAS 43 (1951) 850.

(69) GIOVANNI XXIII, Enciclica Mater et Magistra, III, in AAS 53 (1961) 447.

(70) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 96.

(71) Pio XII, Ai partecipanti al IV Congresso Internazionale dei Medici Cattolici, 30 settembre 1949, in AAS 41 (1949) 560.

(72) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 92.

(73) «La FIVET omologa è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell'intervento; essa affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana» (Ivi, p. 93).

(74) Cf. ivi, in AAS 80 (1988) 85-86, 91-92, 96-97. «L'origine di una persona umana è in realtà il risultato di una donazione. Il conceptio dovrà essere il frutto dell'amore dei suoi genitori. Non può essere voluto né concepito come il prodotto di un intervento di tecniche mediche e biologiche: ciò equivarrebbe a ridurlo a diventare l'oggetto di una tecnologia scientifica. Nessuno può sottoporre la venuta al mondo di un bambino a delle condizioni di efficienza tecnica valutabili secondo parametri di controllo e di dominio» (Ivi, p. 92).

(75) Cf. ivi, in AAS 80 (1988), 91, 92-94.

(76) EV, 22.

(77) Cf. S.Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 93.

(78) Cf. ivi, p. 97. «Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono. Il "dono più grande del matrimonio", è una persona umana. Il figlio non può essere considerato come oggetto di proprietà: a ciò condurrebbe il riconoscimento di un preteso "diritto al figlio". In questo campo, soltanto il figlio ha veri diritti: quello "di essere il frutto dell'atto specifico dell'amore coniugale dei suoi genitori e anche il diritto a essere rispettato come persona del suo concepimento"» (CCC 2378)

(79) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 85 e 84. I «cosiddetti "embrioni soprannumerari" vengono... utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono la vita umana a semplice "materiale biologico" di cui poter liberamente disporre» (EV, 14).

(80) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 94. «Certamente la FIVET omologa non è gravata di tutta quella negatività etica che si riscontra nella procreazione extraconiugale; la famiglia e il matrimonio continuano a costituire l'ambito della nascita e dell'educazione dei figli». Tuttavia essa contrasta con la dignità della procreazione umana, privandola della dignità che le è propria e connaturale.

(81) Ev, 23.

(82) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 87-89.

(83) Cf. ivi, p. 88.

(84) EV, 23.

(85) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Istruz, Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 89.

(86) Cf. ivi, pp. 92-94.

(87) Cf. ivi, p. 95.

(88) Cf. ivi, pp. 95-96.

(89) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Al personale dell'ospedale nuovo «Regina Margherita», 20 dic. 1981, in Insegnamenti IV/2 (1981) 1179, n.3.

(90) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla 35a Assemblea generale dell'Associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1983, in Insegnamenti VI/2 (1983) 917-923 [AAS 76 (1984) 390]; Alle Organizzazioni sanitarie cattoliche degli Stati Uniti d'America, 14 sett. 1987, in Insegnamenti X/3 (1987) 500-507; Ai partecipanti al VII Simposio dei Vescovi Europei, 17 ott. 1989, in Insegnamenti XII/2 (1989) 947, n.7.

(91) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18 giugno 1974, in AAS 66 (1974) 738.

(92) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 78-79.

(93) EV, 44.

(94) La stessa teoria del 14° giorno -giorno della comparsa della stria primitiva, in cui le cellule perdono la totipotenzialità e non sono più possibili scissioni gemellari- non può disconoscere e smentire il dato biogenetico fondamentale e decisivo della natura umana e individuale del frutto del concepimento.

(95) GIOVANNI PAOLO II, Alle partecipanti ad un Convegno per ostetriche, 26 genn. 1980, in Insegnamenti III/1 (1980) 192, n.1.

(96) Cf. Codice di Diritto Canonico, can. 826/2.

(97) GIOVANNI PAOLO II, Alle partecipanti a un Convegno per ostetriche, 26 genn. 1980, in Insegnamenti III/1 (1980) 192, n. 2. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis Splendor, n. 13.

(98) Conc. Ecum. Vaticano II, Costit. past. Gaudium et Spes, n. 24.

(99) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 74.

(100) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla 35a Assemblea Generale dell'Associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1983, in Insegnamenti VI/2 (1983) 917-923 [AAS 76 (1984) 393]. «La persona umana, creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale. Il racconto biblico esprime questa realtà con un linguaggio simbolico, quando dice che "Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l'uomo divenne un essere vivente" (Gn 2,7). L'uomo tutto intero è quindi voluto da Dio» (CCC 362).

(101) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 74-75. «L'unità dell'anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l'anima come la «forma» del corpo; ciò significa che grazie all'anima spirituale il corpo composto di materia è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell'uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un'unica natura» (CCC 365).

(102) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla 35a Assemblea Generale dell'Associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1983, in Insegnamenti VI/2 (1983) 920, n. 5.

(103) «Il corpo rivela l'uomo, esprime la persona ed è il primo messaggio di Dio all'uomo stesso» (GIOVANNI PAOLO II, Allocuzioni del 9 gennaio e 20 febbraio 1980, in Insegnamenti III/1 [1980] 88-95 e 428-434).

(104) La legge morale, in cui i significati biologici prendono corpo, «non può essere concepita come normativa semplicemente biologica», ma integralmente umana: in essa s'esprime «l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo»: S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 74; Paolo VI, Encicl. Humanae Vitae, in AAS 60 (1968) 487, n. 10.

(105) Cf. EV, 23.

(106) GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. Apost. Christifideles Laici, 30 dic. 1988, in Insegnamenti XI/4 (1988) 2133, n. 38.

(107) EV, 40.

(108) Cf. Pio XII, Ai partecipanti al Congresso dell'Unione Cattolica Italiana Ostetriche, 29 ott. 1951, in AAS 43 (1951) 838 GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al 54° Corso di aggiornamento dell'Università Cattolica, 6 sett. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 333. «Il corpo dell'uomo partecipa alla dignità di "immagine di Dio": è corpo umano proprio perché e animato dall'anima spirituale, ed è la persona umana tutta intera ad essere destinata a diventare, nel Corpo di Cristo, il tempio dello Spirito» (CCC 364).

(109) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno del «Movimento per la vita», 12 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 9333-936, n.2. Cf. A scienziati e ad operatori sanitari, 12 nov. 1987, inInsegnamenti X/3 (1987) 1084-1085, n.2. Cf. Pio XII, Ai membri del I Congresso internaz. di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 (1952) 782.

(110) Cf. Pio XII Discorsi e radiomessaggi, X, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1949, pp. 98ss.; All'Unione Italiana medico-biologica «San Luca», 12 nov. 1944, in Discorsi e radiomessaggi, VI, cit., 191ss.; GIOVANNI PAOLO II, Alla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1081, n. 3.

(111) GIOVANNI PAOLO II, Alle partecipanti a un Convegno per ostetriche, 26 genn. 1980, in Insegnamenti III/1 (1980) 192, n. 2; Ai partecipanti al Congresso dell'Associazione Italiana di Anestesiologia, 4 ott. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 750, n. 4; Alle Organizzazioni sanitarie cattoliche degli Stati Uniti, 14 sett. 1987, Insegnamenti X/3 (1987) 504.

(112) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno del «Movimento per la vita», 12 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 933-936, n.2.

(113) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al III Congresso dell'Associazione degli operatori sanitari cattolici, 24 ott. 1986, in Insegnamenti IX/2 (1986) 1172.

(114) «Scienziati e medici non devono considerarsi i padroni della vita, bensì i suoi esperti e generosi servitori» (GIOVANNI PAOLO II, Alla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in InsegnamentiVIII/" (1985) 1081, n.3.

(115) EV, 39.

(116) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno del «Movimento per la vita» 4 dic. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 1513, n. 5; Alla Pontificia Accademia delle Scienze, 23 ott. 1982, inInsegnamenti V/3 (1982) 896, n. 2; Ai partecipanti al Colloquio della Fondazione internazionale «Nova Spes», 9 nov. 1987, in Insegnamenti X/3 (1987) 1050-1051, n. 2.

(117) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 73.

(118) Conc. Ecum. Vaticano II, Costit. past. Gaudium et Spes, n. 15: «L'epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza, perché diventino più umane tutte le sue nuove scoperte».

(119) Cf. Pont. Cost. «Cor Unum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 luglio 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1137, n. 2.1.1.

(120) Cf. GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medici Cattolici Italiani, 28 dic. 1978; in Insegnamenti I (1978) 438; A due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 (1980) 1007, n. 3; A una delegazione dell'Associazione «Food and Disarmament International», 13 febb. 1986, in Insegnamenti IX/1 (1986) 458, n.3.

(121) Cf. S.Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 544-545; GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1983, in Insegnamenti VI/2 (1983) 918, n.2; Esortaz. Apost. Christifideles Laici, 30 dic. 1988, in Insegnamenti XI/4 (1988) 2133-2135, n. 38.

(122) GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Christifideles Laici, 30 dic. 1988, in Insegnamenti XI/4 (1988) 2133, n. 38. «Come della vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al "volere dell'Altissimo", al suo disegno di amore» (EV, 46).

(123) «Il medico ha sul paziente soltanto il potere e i diritti che questi gli conferisce, sia implicitamente sia esplicitamente e tacitamente. Da parta sua il paziente non può conferire più diritti di quanti non ne abbia» (Pio XII, Ai membri del I Congresso internaz. di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 [1952] 782.

(124) «Il paziente è legato alla teologia immanente stabilita dala natura. Possiede il diritto d'uso, limitato dalla finalità naturale, delle facoltà e delle forze della sua natura umana» (Pio XII, Ai membri del I Congresso internaz. di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 [1952] 782).

(125) EV, 47.

(126) Cf. Pio XII, Ai membri del I Congresso internaz. di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 (1952) 782.

(127) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti ad un Congresso di chirurgia, 19 febb. 1987, in Insegnamenti X/1 (1987) 374, n. 2.

(128) GIOVANNI PAOLO II, Al personale dell'ospedale «Regina Margerita», 20 dic. 1981, in Insegnamenti IV/2 (1981) 1179, n. 3.

(129) Pont. Cons. «Cor Unum», Salute comunitaria, in Enchiridion Vaticanum, 6. Documenti ufficiali della Santa Sede 1977-1979. EDB, Bologna 1983, p. 325, n. 1.2.

(130) EV, 79.

(131) GIOVANNI PAOLO II, Motu proprio Dolentium Hominum, 11 febb. 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985) 473-474. «La malattia e la sofferena sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l'uomo fa l'esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravvedere la morte» (CCC 1500). «La missione di Gesù con le numerose guarigioni operate, indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo» (EV, 47)

(132) GIOVANNI PAOLO II, Motu proprio Dolentium Hominum,11 febb. 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985) 473-474.

(133) EV, 50.

(134) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Durante la visita al «Mercy Maternity Hospital» di Melbourne, 28 nov. 1986, in Insegnamenti IX/2 (1986) 1733, n. 2. «Anche i malati sono mandati come operai nella vigna del Signore. Il peso che affatica le membra del corpo e scuote la serenità dell'anima, lungi dal distorglierli dal lavorare nella vigna, li chiama a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del Regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose» (GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Christifideles Laici, 30 dic. 1988, in Insegnamenti XI/4 [1988] 2160, n. 53).

(135) GIOVANNI PAOLO II, Discorso pronunciato a Lourdes, 15 agosto 1983, n. 4 «Sulla croce, Cristo ha preso su di sé tutto il peso del male e ha tolto "il peccato del mondo" (Gv 1, 29), di cui la malattia non è che una conseguenza. Con la sua passione e la sua morte sulla Croce, Cristo ha dato un senso nuovo alla sofferenza: essa può ormai configurarci a lui e unirci alla sua passione redentrice» (CCC 1509).

(136) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esortaz. apost. Familiaris Consortio, n. 75.

(137) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno del «Movimento per la Vita», 4 dic. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 1512, n. 4.

(138) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 79-80. Relativamente alle tecniche diagnostiche più impegnante, che sono l'ecografia e l'amniocentesi, va detto che la prima non sembra presentare rischi, mentre la seconda comporta tassi di rischio ritenuti accettabili e perciò proporzionati. Non così deve dirsi per altre tecniche, come la placentocentesi, la fetoscopia e il prelievo dei villi conali che presentano coefficienti di rischio più o meno elevati.

(139) Ivi. «Le diagnosi pre-natali, che non presentano difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenestico ... che nasce da una mentalità ... che accoglie la vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità» (EV, 14).

(140) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 febb. 1987, in AAS 80 (1988) 79-80. «L'embrione, poichè fin dal concepimento deve essere trattato come una persona, dovrà essere difeso nella sua integrità, curato e guarito, per quanto è possibile, come ogni altro essere umano» (CCC 2274).

(141) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Motu proprio Dolentium Hominum, 11 febb. 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985) 473-474. «Coloro la cui vita è minorata o indebolita richiedono un rispetto particolare. Le persone ammalate o handicappate devono essere sostenute perché possano condurre un'esistenza per quanto possibile normale» (CCC 2276).

(142) C'è «un diritto primario di ogni uomo a quanto è necessario per la cura della propria salute e quindi ad un'adeguate assistenza sanitaria» (GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 [1982] 673, n.3)

(143) S. Congre. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 549.

(144) «La scienza, anche quando non può guarire, può e deve curare e assistere il malato» (GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti ad un Corso di studio sulle «preleucemie umane», 15 nov. 1985, inInsegnamenti VIII/2 [1985] 1265, n.5). Cf. GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1082, n.4.

(145) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 549-550.

(146) Cf. ivi.

(147) «Il principio di totalità afferma che la parte esiste per il tutto, e che di conseguenza il bene della parte resta subordinato al bene del tutto: che il tutto è determinante per la parte e può disporne nel proprio interesse» (Pio XII, ai membri del primo Congresso internazionale di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 (1952) 787.

(148) Pio XII, Ai membri del XXVI Congresso italiano di urologia, 8 ott. 1953, in AAS 45 (1953) 674; cf. Pio XII, Ai membri del primo Congresso internazionale di istopatologia del sistema nervos, 14 sett, 1952, in AAS 44 (1952) 782-783. Il principio di totalità si applica sul piano d'insorgenza della malattia: solo lì si verifica «correttamente» la relazione della parte al tutto. Cf. ivi, p. 787. «Dove si verifica la relazione del tutto alla parte, nella misura in cui si verifica, la parte è subordinata al tutto, il quale può nel suo proprio interesse disporre della parte» (Ivi). Non si può violare l'integrità fisica di una persona per la cura di un male d'origine psichica o spirituale. Qui non si danno organi malati o malfunzionanti. Così che la loro manipolazione medico-chirurgica è un'alterazione arbitraria dell'integrità fisica della persona.

Non è lecito sacrificare al tutto, mutilandola, modificandola o asportandola, una parte che non si relaziona patologicamente al tutto. È per questo che non si può correttamente assumere il principio di totalità a criterio di legittimazione della sterilizzazione antiprocreativa, dell'aborto terapeutico e della medicina e chirurgia transessuale. Diverso è il caso di sofferenze psichice e disagi spirituali su base organica, originati cioè da un difetto o da una morbilità fisica, su cui è legittimo invece intervenire terapeuticamente.

(149) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 5 mag. 1980, in AAS 80 (1988) 75.

(150) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 545.

(151) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18 giu. 1974, in AAS 66 (1974) 736-737.

(152) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti sl Congresso dell'Associazione Italiana di anestesiologia, 4 ott. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 749, n.2.

(153) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 542-552, III.

(154) «Il cristiano è tenuto a mortificare la propria carne e ad applicarsi alla purificazione interiore ... Nella misura in cui il dominio di sé e delle tendenze sregolate è impossibile da acquistarsi senza l'aiuto del dolore fisico, questo diventa una necessità e bisogna accettarlo: ma, in quanto non è richiesto a questo scopo, non si può affermare che esiste al riguardo un obbligo stretto. Il cristiano non è dunque mai obbligato a bolerlo per se stesso; egli lo considera come un mezzo più o meno adeguato, secondo le circostanze, allo scopo che persegue» (Pio XII, A un'Assamblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 [1957] 135).

(155) Ivi, p. 136.

(156) Cf. Pont. Cons. «Cor Umum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 lug. 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1141, n. 2.3.1.: GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1082, n.4.

(157) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Congresso dell'Associazione Italiana di Anestesiologia, 4 ott. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 750, n.3.

(158) Cf. Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 (1957) 138-143.

(159) Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 (1957) 138-143.

(160) «Non si può fare del malato l'oggetto di decisioni che non è lui a prndere, o, se non è in grado di farlo, che non potrebbe approvare. La "persona", principale responsabile della propria vita, deve essere il centro di qualsiasi intervento di assestenza: gli altri sono presenti per aiutarla, non per sostituirsi ad essa» (Pont. Cons. «Cor Unum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 lug. 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1137, n. 2.1.2.).

(161) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 673, n.4.

(162) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a due Congresi di medicina e chirurgia, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 (1980) 1008-1009, n. 5.

(163) GIOVANNI PAOLO II, Ai rappresentanti della Società Italiana di Medicina e della società Italiana di Chirurgia Generale, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 (1980) 1008, n.3.

(164) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Congreso sul Cancro, 26 apr. 1986, in Insegnamenti IX/1 (1986) 1152-1153.

(165) A scienziati e ad operatori sanitari, 12 nov. 1987, in Insegnamenti X/3 (1987) 1086-1087, n.4. «Si devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis Splenor, n.33).

(166) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 (1980) 1009, n.5.

(167) Pio XII, Ai membri del I Congresso internaz. di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 (1952) 788.

(168) GIOVANNI PAOLO II, Ad una conferenza sui farmaci svoltasi nell'aula del Sinodo, 24 ott. 1986, in Insegnamenti IX/2 (1986) 1183; cf. Ai partecipanti ad un Congresso di chirurgia, 19 febb. 1987, inInsegnamenti X/1 (1987) 376, n.4. «Le ricerche o sperimentazioni sull'essere umano non possono legittimare atti in se stessi contrari alla dignità delle persone e alla legge morale. L'eventuale consenso dei soggetti non giustifica simili atti. La sperimentazione sull'essere umano non è moralmente legittima se fa correre rischi sproporzionati o evitabili per la vita o l'integrità fisica e psichica dei soggetti» (CCC2295).

(169) Cf. GIOVANNI PAOLO II, in Insegnamenti III/2 (1980) 1008-1009, n. 5; Ai partecipanti ad un Corso di studio sulle «preleucemie umane», 15 nov. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1265, n.5.

(170) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti ad un Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze, 23 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 897, n. 4; «Pertanto la diminuzione di sperimentazioni su animali, progressivamente resesi sempre meno necessarie, corrisponde al disegno e al bene dell'intera creazione» (Ivi).

(171) Cf. GIOVANNI PAOLO II, A una conferenza sui farmaci svoltasi nell'aula del Sinodo, 24 ott. 1986, in Insegnamenti IX/2 (1986) 1183.

(172) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 550. «Può accadere, in casi dubbi, quando siano falliti i mezzi già noti, che un nuovo metodo, ancora insufficientemente provato, offra, accanto a elementi assai pericolosi, delle buone probabilità di successo. Se il malato dà il suo assenso, l'applicazione del provvedimento in questione è lecita» (Pio XII, Ai partecipanti al I Congresso internaz. di istopatologia del sistema nervoso, 14 sett. 1952, in AAS 44 [1952] 788).

(173) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Corso dis tudio sulle «preleucemie umane», 15 nov. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1265, n.5.

(174) Pio XII, Ai partecipanti all'VIII Assemblea dell'Associazione Medica Mondiale, 30 sett. 1974, in Pio XII, Discorsi ai Medici, Roma 1960, p. 358.

(175) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ott. 1980, in Insegnamenti III/2 (1980) 1009, n. 5.

(176) Ivi.

(177) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, in AAS 80 (1988) 81-83. «La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle recenti forme di interventi sugli embrioni umani, che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l'uccisione... Si deve affermare che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona» (EV, 63).

(178) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, in AAS 80 (1988) 81-83. «Condanno nel modo più esplicito e formale le manipolazioni sperimentali fatte sull'embrione umano, perché l'essere umano, dal momento del suo concepimento fino alla morte, non può mai essere strumentalizzato per nessuna ragione» (GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze, 25 ott. 1982, in AAS 75 [1983] 37). «Il rispetto per la dignità dell'essere umano esclude ogni sorta di manipolazione sperimentale o sfruttamento dell'embrione» (Santa Sede, Carta dei diritti della famiglia, 4/b, inOssRom, 25 nov. 1983).

(179) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale sui trapianti di organi, 20 giugno 1991, in Insegnamenti XVI/1 (1991) 1710.

(180) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, in AAS 80 (1988) 81-83. «Il trapianto di organi non è moralmente accettabile se il donatore o i suoi aventi diritto non vi hanno dato il loro esplicito consenso. Il trapianto di organi è conforme alla legge morale e può essere meritorio se i danni e i rischi fisici e psichici in cui incorre il donatore sono proporzionati al bene che si cerca per il destinatario. È moralmente inammissibile provocare direttamente la mutilazione invalidante o la morte di un essere umano, sia pure per ritardare il decesso di altre persone» (CCC 2296).

(181) Cf. Pio XII, Ai delegati dell'Associazione italiana donatori di cornea e dell'Unione italiana ciechi, 14 mag. 1956, in AAS 48 (1956) 464-465; GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale sui trapianti di organi, 20 giu. 1991, in Insegnamenti XIV/1 (1991) 1711-1712, n.3.

(182) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale sui trapianti di organi, 20 giu. 1991, in Insegnamenti XIV/1 (1991) 1711.

(183) Ivi, p. 1712, n.4.

(184) Cf. Pio XII, Ai delegati dell'Associazione italiana di cornea e dell'Unione italiana ciechi, 14 mag. 1956, in AAS 48 (1956) 462-464.

(185) Ivi, pp. 466-467.

(186) Cf. Pontificia Accademia delle Scienze, Dichiarazione circa il prolungamento artificiale della vita e la determinazione esatta del momento della morte, 21 ott. 1985, n. 1, 3.

(187) Pio XII, Ai delegati dell'Associazione italiana donatori di cornea e dell'Unione itaoiana ciechi, 14 mag. 1956, in AAS 48 (1956) 460.

(188) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale sui trapianti di organi, 20 giu. 1991, in Insegnamenti XIV/! (1991) 1711, n.3.

(189) Ivi; cf, Pio XII, Ai delegati dell'Associazione italiana donatori di cornea e dell'Unione italiana ciechi, 14 mag. 1956, in AAS 48 (1956) 465. Cf. Pio XII, Discorsi ai Medici, p. 467: «Nella propaganda (della donazione di cornea, ndr) si deve certamente osservare un riserbo intelligente per evitare seri conflitti esteriori e interiori. Bisogna, inoltre, come spesso accade, rifiutare per principio qualsiasi compenso? La questione è posta. È fuori di dubbio che possono verificarsi gravi abusi se si esige una retribuzione; ma sarebbe esagerato giudicare immorale qualsiasi accettazione o esigenza di retribuzione. Il caso è analogo a quello della trasfusione di sangue; è un merito del donatore rifiutare un compenso, ma non è necessariamente una colpa l'accettarlo».

(190) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale sui trapianti di organi, 20 giu. 1991, in Insegnamenti XIV/1 (1991) 1712.

(191) Cf. ivi, p. 1713, n. 5.

(192) Ivi: «La difficoltà dell'intervento, la necessità di agire rapidamente, la necessità di massima concentrazione nel compito, non devono far sì che il medico perda di vista il mistero dell'amore racchiuso in ciò che sta facendo». «I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei molteplici bene che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo, in relazione con dio, col prossimo e col mondo delle cose» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis Splendor, n.13).

(193) «Alla radice dell'abuso di alcool e di stupefacenti -pur nella dolorosa complessità delle cause e delle situazioni- c'è di solito un vuoto esistenziale, dovuto all'assenza di valori e ad una mancanza di fiducia in se stessi, negli altri e nella vita in generale» (GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla Conferenza internazionale su droga e alcool, 23 nov. 1991, in Insegnamenti XIV/2 [1991] 1249, n.2).

(194) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla Conferenza Internazionale su droga e alcool, 23 nov. 1991, in Insegnamenti XIV/2 (1991), n.4.

(195) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti all'VIII Congresso mondiale delle Comunità terapeutiche, 7 sett. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 347, n.3.

(196) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti all'VII Congresso mondiale delle Comunità terapeutiche, 7 sett. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 350, n.7.

(197) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Messaggio alla Conferenza internazionale di Vienna, 4 giugno 1987, in Insegnamenti X/1 (1987) 1940-1943.

(198) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti all'VIII Congresso mondiale delle Comunità terapeutiche, 7 sett. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 347, n.3.

(199) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla Conferenza Internazionale su droga e alcool, 23 nov. 1991, in Insegnamenti XIV/2 (1991) 1252, n. 4. «L'uso della droga causa gravissimi danni alla salute e alla vita umana. Esclusi i casi di prescrizioni strettamente terapeutiche, costituisce una colpa grave. La produzione clandestina di droghe e il loro traffico sono pratiche scandalose; costituiscono una cooperazione diretta, dal momento che spingono a pratiche gravemente contrarie alla legge morale» (CCC 2291).

(200) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla conferenza Internazionale su droga e alcool, 23 nov. 1991, in Insegnamenti XIV/2 (1991) 1251, n.4.

(201) Ivi.

(202) «Le attuali condizioni economiche della società, come pure gli elevati tassi di povertà e di disoccupazione, possono contribuire ad aumentare nel giovane un senso di inquietudine, di insicurezza, di frustrazione e di alienazione sociale e possono condurlo al mondo illusiorio dell'alcool come fuga dai problemi della vita»: GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno sull'alcoolismo, 7 giu. 1985, inInsegnamenti VIII/1 (1985) 1741.

(203) Vi sono tre categorie di psicofarmaci. La prima è quella dei neurolettici, gli antipsicotici che hanno permesso di chiudere gli ospedali psichiatrici, perché debellano agitazione, deliri, allucinazioni, rendendo inutili le misure, peraltro non curative, del contenimento e della reclusione. La seconda comprende i sedativi o tranquillanti e la terza gli antidepressivi.

(204) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla Conferenza Internazionale su droga e alcool, 23 nov. 1991, in Insegnamenti XVI/2 (1991) 1251, n.4.

(205) Ivi.

(206) Cf. Pio XII, Al Congresso internaz. di neuropsicofarmacologia, 9 sett. 1958, in Discorsi e Radiomessaggi, Vol. XX, pp. 237-333-

(207) Lo conferma la frequenza e la convinzione con cui i pazienti dicono al medico: «Adesso che ho parlato con lei mi sento già meglio». Ed infatti come «ci sono degli apporti terapeutici che la cura somatico può arrecare allo spirito del paziente...; c'è, inversamente l'apporto terapeutico che la sofferenza fisica può ricevere mediante il conforto psicologico-spirituale». Paolo VI, Al III Congresso mondiale dell'«International College Psychosomatic Medicine», 18 sett. 1975, in AAS 67 (1975) 544.

(208) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Motu Proprio Dolentium Hominum, 11 febb. 1985, in Insegnamenti VIII/1 (1985) 474.

(209) «Considerata nel suo complesso, la psicologia moderna merita approvazione dal punto di vista morale e religioso» (Pio XII, Ai membri del XIII Congresso internaz. di psicologia applicata, 10 apr. 1958, in AAS 50 (1958) 274.

(210) Ivi, p. 276.

(211) Ivi, p. 281.

(212) «L'esperienza insegna che l'uomo, bisognoso di assestenza, sia preventiva sia terapeutica, svela esigenze che vanno oltre la patologia organica in atto. Dal medico egli non si attende soltanto una cura adeguata -cura che, del resto, prima o dopo finirà fatalmente per rivelarsi insufficiente- ma il sostegno umano di un fratello, che sappia partecipargli una visione della vita, nella quale trovi senso anche il mistero della sofferenza e della morte. E dove potrebbe essere attinta, se non alla fede, tale pacificante risposta agli interrogativi supremi dell'esistenza?» (GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso Mondiale dei Medici Cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 [1982] 675, n.6).

(213) EV, 30.

(214) «Dal mistero pasquale s'effonde una luce singolare compito specifico che la pastorale sanitaria è chiamata a svolgere nel grande impegno dell'evangelizzazione» (GIOVANNI PAOLO II, All'Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, 11 febb. 1992, in OssRom, 12 febb. 1992, n.7). Cf. CCC 1503.

(215) «L'uomo gravemente infermo ha bisogno, nello stati di ansia e di pena in cui si trova, di una grazia speciale di Dio per non lasciarsi abbattere, con il pericolo che la tentazione faccia vacillare la sua fede. Proprio per questo, Cristo ha voluto dare ai suoi fedeli malati la forza e il sostegno validissimo del sacramento dell'Unzione» (S. Congr. Culto Divino, Sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, 17 nov. 1972. Ed. Typica, Typ. Pol. Vatic., 1972, p. 81, n. 5). Cf. CCC 1511.

(216) S. Congr. Culto Civino, Sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, n. 6.

(217) Cf. Conc. Ecum. Vaticano II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosantum Concilium, n. 73. Cf. CCC 1514.

(218) «Per la grazia di questo sacramento il malato riceve la forza e il dono di unirsi più intimamente alla passione di Cristo; egli viene in certo qual modo consacrato per portare frutto mediante la configurazione alla Passione redentrice del Salvatore» (CCC 1521). «I malati che ricevono questo sacramento, unendosi «spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo» contribuiscono «al bene del popolo di Dio» (Lumen Gentium, 11). Celebrando questo sacramento, la Chiesa, nella comunione dei santi, intercede per il bene del malato. E l'infermo, a sua volta, per la grazia di questo sacramento, contribuisce alla santificazione della Chiesa e al bene di tutti gli uomini per i quali la Chiesa soffre e si offre, per mezzo di Cristo, a Dio Padre» (CCC 1522).

(219) Cf. S. Congr. Culto Divino, Sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, nn. 8-19.

(220) Codice di Diritto Canonico, can. 1005; cf. cann. 1004-1007.

(221) S. Congr. Culto Divino, Sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, n. 26. Cf. CCC 1524.

(222) S. Congr. Culto Divino, Sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, n. 26.

(223) «Tutti i battezzati che possono ricevere la Comunione sono obbligati a ricevere il Viatico. Infatti tutti i fedeli che per qualsiasi causa si trovano in pericolo di morte, sono tenuti per precetto a ricevere la santa Comunione, e i pastori devono vigilare perché non venga differita l'amministrazione di questo Sacramento, in modo che i fedeli ne ricevano il conforto quando sono nel pieno possesso delle loro facoltà» (Ivi, n. 27).

(224) Cf. ivi, n. 29.

(225) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Congresso Internazionale dell'Associazione «Omnia Hominis», 25 ago. 1990, in Insegnamenti XIII/2 (1990) 328. «Ciò mette a dura prova gli equilibri a volte già instabili della vita personale e familiare, sicché, da una parte, il malato, nonostante gli aiuti sempre più efficaci dell'assistenza medica e sociale, rischia di sentirsi shiacciato dalla propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono effettivamente legati, può operare un senso di comprensibile anche se malintesa pietà» (EV, 15).

(226) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 551.

(227) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno internazionale sull'assistenza ai morenti, in OssRom, 18 mar. 1992, n.5.

(228) «Soltanto una presenza umana, discreta e attenta, che permette al malato di esprimersi e di trovare un conforto umano e spirituale, avrà un effetto tranquillizzante» (Pont. Cons. «Cor Unum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 lug. 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1151, n. 4.3.).

(229) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno internazionale sull'assistenza ai morenti, in OssRom, 18 marzo 1992, n.5.

(230) Ivi, n. 1. «In faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo. Per un verso la morte corporale è naturale, ma per la fede essa in realtà è "salario del peccato" (Rm 6, 23). E per coloro che muoiono nella grazia di Cristo, è una partecipazione alla morte del Signore, per poter partecipare anche alla sua Risurrezione» (CCC 106; cf. anche CCC 1009).

(231) GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1083, n.6; cf. Ai partecipanti al Convegno internazionale sull'assistenza ai morenti, in OssRom, 18 marzo 1992, n. 5.

(232) GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1083, n. 6. Cf. CCC 1010. «... la morte è tutt'altro che un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza che si spalanca sull'eternità e, per quanti la vivono in Cristo, è esperienza di partecipazione al suo mistero di morte e di risurrezione» (EV, 97).

(233) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 549.

(234) Ivi.

(235) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno internazionale sull'assistenza ai morenti, in OssRom, 18 mar. 1992, n. 4. Cf. EV, 65.

(236) GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1082, n.5.

(237) «Da questo punto di vista, l'uso dei mezzi terapeutici talvolta può sollevare dei problemi»: S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 549.

(238) Cf. GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1082, n. 5.

(239) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 551. Cf. EV, 65.

(240) Cf. Pont. Cons. «Cor Unum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 lug. 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1165, n. 7.2.; Ivi p. 1143, n. 2.4.1: «La vita terrena è un bene fondamentale ma non assoluto.Per cui si devono individuare i limiti dell'obligo di mantenere in vita una persona. La distinzione -già delineata- tra mezzi «proporzionati», cui non si deve mai rinunciare per non anticipare e causare la morte, e mezzi «sproporzionati», cui si può e, per non cadere nell'accanimento terapeutico, si deve rinunciare, è criterio etico decisivo per l'individuazione di quei limiti.

Inesso l'operatore sanitario trova un significativo e rassicurante indirizzo per la soluzione dei complessi casi affidati alla sua responsabilità. Pensiamo in particolare agli stati di coma permanente e irreversibile, alle patologie tumorali con prognosi infausta, ad anziani in gravi e terminali condizioni di vita».

(241) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Congresso dell'Associazione Italiana di Anestesiologia, 4 ott. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 749, n.2; A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1082, n.4.

(242) Per il credente «il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio», come «partecipazione alla passione» e «unione al sacrificio redentore» di Cristo. Per cui il cristiano può essere liberamente indotto ad accettare il dolore senza alleviarlo o moderando l'uso di analgesici: cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 547.

(243) Cf. Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurgi, 24 febb. 1957, in AAS 49 (1957) 147; Ai partecipanti a un Congresso di neuropsicofarmacologia, 9 sett. 1958, in AAS 72 (1980) 547.

(244) Cf. GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1082, n. 4.

(245) Cf. Pio XII, A un'Assemblea internazinale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 (1957) 144.

(246) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 547-548.

(247) Cf. Pio XII, Ai partecipanti a un Congresso di neuropsicofarmacologia, 9 sett. 1958, in AAS 50 (1958) 694.

(248) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 548. Cf. Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 (1957) 146; Ai partecipanti a un Congresso di neuropsicofarmacologia, 9 sett.1958, «BME 329». Cf. EV, 65.

(249) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 548.

(250) Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 (1957) 144-145.

(251) Cf. Pont. Cons. «Cor Unum» Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, 27 lug. 1981, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1153, n. 4.4.

(252) Cf. Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb.1957, in AAS 49 (1957) 145.

(253) Cf. ivi, p. 143-146; S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 548. «Se il malato si rifiuta ostinatamente e persiste nel chiedere la narcosi, il medico può consentirvi senza rendersi colpevole di collaborazione formale alla colpa commessa. Questa, infatti, non dipende dalla narcosi, ma dalla volontà immorale del paziente; gli si procuri o no l'analgesia, il suo comportamento sarà identido: egli non adempirà il suo dovere» (Pio XII, A un'Assemblea internazionale di medici e chirurghi, 24 febb. 1957, in AAS 49 [1957] 146).

(254) Cf. Pont. Cons. «Cor Unum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, in Enchiridion Vaticanum, 7. Documenti ufficiali della Santa sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1159, n. 6.1.1. «La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell'uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo»(CCC 1013).

(255) Pont. Cons. «Cor Unum», Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, in Enchiridion Vaticanum 7. Documenti ufficiali della Santa Sede 1980-1981. EDB, Bologna 1985, p. 1159, n. 6.1.2.

(256) Cf. Concilio Ecum. Vaticano II, Costit. past. Gaudium et Spes, n. 18; GIOVANNI PAOLO II, Lettera apost. Salvifici Doloris, in Insegnamenti VII/1 (1984) 333-335, n. 15; Ai partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla «Determinazione del momento della morte», 14 dic. 1989, in Insegnamenti XII/" (1989) 1527, n.4.

(257) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla «Determinazione del momento della morte», 14 dic. 1989, in Inegnamenti XII/2 (1989) 1523.1529, n.4.

(258) Cf. ivi.

(259) Pio XII, A un gruppo di medici, 24 nov. 1957, «BME 432,434»; cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla «Determinazione del momento della morte», 14 dic. 1989, in Insegnamenti XII/2 (1989) 1523-1529, n.6.

(260) GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla «Determinazione del momento della morte», 14 dic. 1989, in Insegnamenti XII/2 (1989) 1523-1529, n.6.

(261) Cf. Pont. Accademia delle Scienze, Dichiarazione circa il prolungamento artificiale della vita e la determinazione esatta del momento della morte, n.1.

(262) S. Congr. Dott. Fede, Istruz. Donum Vitae, 22 feb. 1987, in AAS 80 (1988) 75-76; cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti alla 3a Assenble generale dell'Associazione Medica Mondiale, 29 ott. 1985, inInsegnamenti VIII/2 (1985) 933-936, n.2.

(263) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Convegno del «Movimento per la vita», 12 ott. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 933-936, n.2.

(264) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 544. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis Splendor, n. 13.

(265) Cf. Pio XII, Al Congresso dell'unione cattolica italiana ostetriche, 29 ott. 1951, in AAS 43 (1951) 838. -«La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: "Non far morire l'innocente e il giusto" (Es 23, 7). L'uccisione volontaria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell'essere umano, alla regola d'oro e alla santità del Creatore. La legge che vieta questo omicidio ha una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto» (CCC 2261).

(266) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag- 1980, in AAS 72 (1980) 544-545. «Una discriminazione fondata sui diversi periodi della vita non è giustificata più di qualsiasi altra. Il diritto alla vita resta intatto in un vecchio, anche molto debilitato; un malato incurabile non l'ha perduto. Non è meno legittimo nel piccolo appena nato che nell'uomo maturo» (S. Congr. Dott. Fede, Dichiaraz. sull'aborto procurato, 18 giu. 1974, in AAS 66 (1974) 737-738.

(267) GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medici Cattolici Italiani, 28 dic. 1978, in Insegnamenti I (1978) 438.

(268) GIOVANNI PAOLO II, Al Congresso mondiale dei Medici Cattolici, 3 ott. 1982, in Insegnamenti V/3 (1982) 671.

(269) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 maggio 1980, in AAS 72 (1980) 545. «Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio... La morte volontaria ossia il suicidio... costituisce, da parte dell'uomo, il rifiuto della volontà de Dio e del suo disegno di amore. Il suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell'amore verso se stessi, negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera, benché talvolta intervengano -come si sa- dei fattori psicologici che possono attenuare o, addirittura, togliere la responsabilità. Si dovrà tuttavia, tener ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una causa superiore -quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli- si offre o si pone in pericolo la propria vita.»(Ivi).

(270) Santa Sede, Carta dei diritti della famiglia, art. 41a.

(271) Conc. Ecum. Vaticano II, Costit. past. Gaudium et spes, n. 51. Cf. Paolo VI, Ai partecipanti al XXIII Congresso nazion. dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, in AAS 64 (1972) 776-779.

(272) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai rappresentanti del «Movimento per la vita», 25 genn. 1986, in Insegnamenti IX/1 (1986) 190-192, n.3.

(273) Cf. GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi internazionali di studiosi, 3 nov. 1979, in Insegnamenti II/2 (1979) 1034-1035.

(274) EV, 4.

(275) Cf. GIOVANNI PAOLO II, All'Associazione Medici Cattolici Italiani, 28 dic. 1978, in Insegnamenti I (1978) 438; S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18 giu. 1974, in AAS 66 (1974) 744, n. 24. «Fin dal primo secolo la Chiesa ha dichiarato la malizia morale di ogni aborto provocato. Questo insegnamento non è mutato. Rimane invariabile. L'aborto diretto, cioè voluto come un fine o come un mezzo, è gravemente contrario alla legge morale: Non uccidere il bambino con l'aborto, e non sopprimerlo dopo la nascita» (CCC 2271).

(276) Cf. S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18 giu. 1974, in AAS 66 (1974) 739.

(277) Cf. Pio XII, Al «Fronte della famiglia» e alle «Associazioni delle famiglie numerose», 27 nov. 1951, in AAS 43 (1951) 859.

(278) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Alle partecipanti a un Convegno per ostetriche, 26 genn. 1980, in Insegnamenti III/1 (1980) 194, n.3.

(279) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18 giu. 1974, in AAS 66 (1974) 744, n. 22.

(280) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18 giu. 1974, in AAS 66 (1974) 744, n. 24.

(281) Codice di Diritto Canonico, can. 1398. Latae sententiae vuol dire che non è necessario che la scomunica sia pronunciata dall'autorità in ogni singolo caso. Vi incorre chiunque procura l'aborto, per il semplice fatto di procurarlo volontariamente, e sapendo di incorrervi.

(282) Cf. Codice di Diritto Canonico, can. 871.

(283) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al 54° Corso di aggiornamento dell'Università Cattolica, 6 sett. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 333-334.

(284) Ivi, p. 334, n. 3. «Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossima alla morte. Essa è moralmente inaccettabile» (CCC 2276).

(285) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 545-546.

(286) Cf. Paolo VI, Ai partecipanti al III Congresso mondiale dell'«International College psychosomatic Medicine», 18 sett. 1975, in AAS 67 (1975) 545.

(287) S. Congr. Dott. Fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 5 mag. 1980, in AAS 72 (1980) 546. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al Convegno internazionale sull'assistenza ai morenti, in OssRoma, 18 marzo 1992, nn. 3, 5.

(288) Cf. GIOVANNI PAOLO II, A due gruppi di lavoro promossi dalla Pontificia Accademia delle Scienze, 21 ott. 1985, in Insegnamenti, VIII/2 (1985) 1081, n.3.

(289) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti a un Corso di studio sulle «preleucemie umane», 15 nov. 1985, in Insegnamenti VIII/2 (1985) 1265, n.5.

(290) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Ai partecipanti al 54° Corso di aggiornamento dell'Università Cattolica, 6 sett. 1984, in Insegnamenti VII/2 (1984) 334, n.4.