Il 15 febbraio 1564 Galileo Galilei nasceva a Pisa in una nobile famiglia fiorentina. Suo padre, Vincenzo Galilei, era mercante per necessità ma musico per passione. Non si dilettava semplicemente nel suonare e comporre, aveva anche un profondo interesse per la teoria della musica e per le sue basi matematiche. Non è affatto azzardato supporre che il figlio Galileo, vedendo il padre contemplare armonie numeriche dietro gli spartiti musicali, sia stato a sua volta ispirato a leggere il libro della natura in caratteri geometrici.
In questo curioso connubio, tipicamente umanistico, di platonismo, tecnica e arte, è nata la scienza moderna. Una scienza artigiana e contemplativa allo stesso tempo. Quando Galilei era professore a Padova possedeva, accanto alla propria abitazione, una bottega in cui fabbricava e provava strumenti: lì vide la luce il cannocchiale per l’osservazione astronomica. La scienza galileiana vive dell’intreccio profondo tra tecnica e teoria, tra il momento empirico dell’osservazione sperimentale e il momento speculativo della matematizzazione del reale.
Il nuovo metodo di conoscenza non doveva per Galilei rompere l’antica armonia tra i saperi. Nella terza giornata dei Discorsi intorno a due nuove scienze, affrontando il rapporto tra teologia e scienza in riferimento al credo della creazione, Galilei dice: “Ma simili profonde contemplazioni si aspettano a più alte dottrine che le nostre: a noi deve bastare d’esser quei men degni artefici, che dalle fodine scoprono e cavano i marmi, ne i quali poi gli scultori industri fanno apparire meravigliose immagini, che sotto roza ed informe scorza stavano ascoste”. [Galileo Galilei, Opere, a cura di Franz Brunetti, Torino, 2005, volume II, pp. 135.]
Sappiamo come già per Michelangelo Buonarroti scopo dell’arte fosse portare alla luce la forma nascostamente contenuta nelle cose stesse: nel passo appena letto Galilei fa suo tale concetto e lo riapplica al rapporto tra i saperi. La scienza sperimentale è l’arte mineraria, in grado di scovare buoni blocchi di marmo e di prepararli per lo scultore. Il filosofo e ancor più il teologo sono gli artisti, coloro che dalla pietra appena abbozzata portano a termine l’opera della conoscenza. Ogni sapere è autonomo nel suo procedere, allo stesso tempo ogni sapere necessita dell’altro: senza gli scienziati-minatori ai filosofi e teologi mancherebbe della materia importante su cui operare, senza filosofi e teologi il lavoro della scienza sperimentale rimarrebbe solo un abbozzo.
Tra i saperi vi è un ordine gerarchico dettato dall’importanza delle verità successivamente disvelate, una gerarchia che non si traduce però in dispotismo, come troviamo scritto da Galilei nella lettera a Madama Cristina di Lorena: “Ora, se la teologia, occupandosi nell’altissime contemplazioni divine e risedendo per dignità nel trono regio, per lo che ella è fatta di somma autorità, non discende alle più basse ed umili speculazioni delle inferiori scienze, anzi, come sopra si è dichiarato, quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbono i ministri e professori di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non esercitate né studiate da loro; perché questo sarebbe come se un principe assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse, non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de’ miseri infermi, e manifesta rovina degli edifizi.” [ibidem, volume I, pp. 570].
La storia ci insegna come, all’avvento della scienza moderna, la conquista di un’armonia tra i saperi fu però una battaglia assai ardua, a cominciare dalla Chiesa stessa. Il 31 Ottobre 1992, il beato Giovanni Paolo II, presentando alla Pontificia Accademia delle Scienze i risultati della commissione di studio sul caso Galileo, istituita 11 anni prima, diceva: “La rappresentazione geocentrica del mondo era comunemente accettata nella cultura del tempo come pienamente concorde con l’insegnamento della Bibbia, nella quale alcune espressioni, prese alla lettera, sembravano costituire delle affermazioni di geocentrismo. Il problema che si posero dunque i teologi dell’epoca era quello della compatibilità dell’eliocentrismo e della Scrittura. Così la scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura. La maggior parte non seppe farlo” (n. 5).
Galilei, nella disputa tra geocentrismo ed eliocentrismo, invocò il principio di prudenza nell’interpretazione della Bibbia, invocando che non si impegnassero i versetti in un’interpretazione in senso geocentrico, almeno fino a quando non si fosse provata effettivamente la costituzione del cosmo. Non fu ascoltato e il peso del processo del 1633 ha gravato sui rapporti tra Chiesa e cultura fino ai giorni nostri. Così ancora diceva il beato Giovanni Paolo II nella medesima circostanza: «In virtù della missione che le è propria, la Chiesa ha il dovere di essere attenta alle incidenze pastorali della sua parola. Sia chiaro, anzitutto, che questa parola deve corrispondere alla verità. Ma si tratta di sapere come prendere in considerazione un dato scientifico nuovo quando esso sembra contraddire delle verità di fede. Il giudizio pastorale che richiedeva la teoria copernicana era difficile da esprimere nella misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell’insegnamento stesso della Scrittura. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle abitudini di pensiero e inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo di Dio. Diciamo, in maniera generale, che il pastore deve mostrarsi pronto a un’autentica audacia, evitando il duplice scoglio dell’atteggiamento incerto e del giudizio affrettato, potendo l’uno e l’altro fare molto male» (n. 7).
Ancora oggi la visione galileiana di una scienza sperimentale libera nel suo procedere e non chiusa alle istanze filosofiche e teologiche, collocata in una gerarchia di saperi ordinati secondo l’oggetto di studio, autonomi e allo stesso tempo interdipendenti tra loro, è un ideale per nulla scontato e con diversi ostacoli che spesso ne impediscono l’attuazione. Ne evidenziamo in special modo due.
Un primo ostacolo è interpretare la distinzione tra i saperi come netta separazione. Qualsiasi cosa dicano la biologia a riguardo della storia della vita o la cosmologia a proposito dello sviluppo dell’universo, ciò non tocca minimamente il lavoro filosofico e teologico. I metodi e gli oggetti di studio sono tanto diversi da essere incomparabili. Dunque quale conflitto potrebbe mai crearsi? Purtroppo l’altra faccia della medaglia di tale posizione è la perdita dell’unità del sapere, la vittoria di uno specialismo riduzionista e l’abbandono della ricerca di una sapienza in grado di portare a sintesi le tante e diverse dimensioni dell’unica verità dell’esistenza. E al limite una sorta di relativismo della doppia verità.
Il secondo ostacolo è lo sviluppo tecnologico come solo fine della ricerca scientifica. Che l’economia spinga la ricerca, finanziandola in vista di futuri sviluppi tecnici e dunque anche commerciali, è sicuramente un bene. Anche Galilei cercò, senza successo, di vendere alla Spagna un metodo di calcolo delle longitudini basato sulle osservazioni astronomiche dei satelliti di Giove. Sicuramente ebbe invece successo la sua produzione di compassi, tanto che durante il periodo padovano (1592-1609) dovette prendere a stipendio un artigiano per stare dietro alle commesse e scrisse l’opuscolo Le operazioni del compasso geometrico e militare come manuale di istruzione per i suoi clienti. Ma se Galilei si fosse limitato solo a ciò, se l’orizzonte del successo economico fosse stato l’unico movente del suo agire, oggi probabilmente non ne ricorderemmo i 450 anni dalla nascita. Ridurre la ricerca scientifica al solo sviluppo tecnologico significa eliminare l’intrinseco desiderio di sapienza che vi è in ogni opera di studio, tagliando ancora una volta il dialogo con la filosofia e la teologia.
Nel tragitto della modernità la scienza galileiana è stata il più delle volte traghettata da filosofie positiviste, convenzionaliste e relativiste, contrariamente dai desideri di chi la ideò e praticò. Oggi i tempi si stanno facendo sempre più maturi per riscoprire un’unità organica del sapere, questa volta proposta e difesa non con la sola autorità di un tribunale del Sant’Uffizio, ma con l’umile forza di una teologia scientificamente edotta e di una scienza filosoficamente ben fondata. Questo fu anche il senso profondo della commissione di studio sul caso Galileo istituita dal beato Giovanni Paolo II nel 1981: non tanto rifare un processo al contrario, quanto nel mettere a frutto ciò che è effettivamente maturato nel rapporto tra scienza moderna e teologia cristiana