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"L’attività scientifica come servizio", intervista al prof. Bruno Dallapiccola

Luglio 2015
Silvia Pompei
Laurea Magistrale in Biologia Cellulare, Università degli Studi La Sapienza, Roma


Efficienza e servizio, umanità e ricerca, scoperte scientifiche e fede: elementi distinti e differenti che compongono però l'ampio spettro di condizioni e situazioni che un medico oggi deve affrontare nella direzione di un ospedale, nell'assistenza dei propri pazienti e nella ricerca di cure per le malattie di cui soffrono.
Cosa significhi dirigere un ospedale, scontrarsi ogni giorno con il mistero della sofferenza umana, quali siano gli impatti della fede sull'attività scientifica e quali quelli delle scoperte scientifiche sulle proprie credenze, lo abbiamo chiesto in un’intervista al prof. Bruno Dallapiccola, già ordinario di Genetica Medica e oggi Direttore Scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, responsabile dell'Area di Ricerca Malattie Genetiche e Malattie Rare e membro del Consiglio Superiore di Sanità e del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB).


Professore, da alcuni anni lei guida l’attività scientifica dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù. Potrebbe dirci qual è il suo ricordo più significativo di questi anni?
L’essere riuscito, partendo da una solida realtà esistente, a valutare le eccellenze, mettere nuove regole e, lavorando in trasparenza, a rinvigorire tutto quello che già si svolgeva qui dentro, raddoppiare in cinque anni l'Impact Factor dell'istituto e dunque riorganizzare ciò che necessitava essere messo in ordine. Il Bambino Gesù ha una forza straordinaria dal punto di vista clinico, delle persone di altissimo livello e da quello scientifico. Quindi, con poche leve, è stato possibile ottenere grandi risultati. Questo è il ricordo sicuramente più significativo dell'attività che ho svolto questi anni, una ricetta estremamente semplice che ha avuto però un grande successo."


In un medico o in un operatore sanitario siamo portati a pensare che la fede cristiana influisca sul rapporto con i pazienti. Riflettiamo però meno sul fatto che essa possa influire anche in altri ambiti della sua attività. Potrebbe dirci, professore, se e come la sua fede cristiana ha influenzato il suo modo di fare ricerca scientifica?

"La fede dà una serenità nell'operare, un'indicazione di come ponderare i valori di ciò che si deve fare e, soprattutto, per uno che fa ricerca biomedica, un grande rispetto per la vita e di tutte quelle regole che hanno sicuramente influenzato il mio modo di operare. Aggiungerei poi il senso della gratitudine nei confronti di chi lavora, nel senso di saper privilegiare e premiare chi lavora bene. Il premio può essere anche un riconoscimento pubblico. A me sarebbe piaciuto negli anni, nei vari posti in cui ho lavorato, ricevere anche solo una carezza, un segnale di riconoscimento per il lavoro fatto, non necessariamente un beneficio di tipo economico. Certamente nel mondo della ricerca dove i ricercatori sono mal pagati, anche un beneficio economico va dato, tanto è vero che da tre anni abbiamo instaurato in questo ospedale un sistema premiante per quei ricercatori che superano il valore soglia delle loro attività. Il rispetto dei valori, il saper premiare gli uomini che fanno bene il loro mestiere, avere dei principi guida che ti conducano nel lavoro, sono certamente frutto di una cultura, educazione, formazione cristiana in cui io mi identifico e di cui sono praticante.

Che consiglio si sentirebbe di dare ai giovani che intendono intraprendere il cammino del lavoro universitario e della ricerca scientifica?

"Il primo consiglio che do sempre è rendersi conto che questa in Italia è una strada molto difficile, chi fa il ricercatore oggi in Italia non è assolutamente un privilegiato ma anzi una persona che vive in una condizione estremamente difficile in cui tutto è precario. Io, peraltro, non sono convinto che il ricercatore debba avere un posto per la vita e concordo con la mentalità di tipo americano. Il ricercatore deve aver l'opportunità di mettersi in moto e continuare a mantenere la sua posizione dimostrando la sua bravura. Proprio perché tutto questo definisce il profilo del ricercatore, la sua è una vita particolarmente dura. Bisogna dunque, aver possibilmente rispetto delle passioni, anzi sostenerle, metterle in sintonia con le proprie attitudini e volontà di far ricerca, ma certamente si deve essere consapevoli che la vita è molto dura. Secondo consiglio fondamentale è quello di fare riferimento ad un professore che possa seguire ed orientare il cammino del ricercatore. Queste sono le regole minime per sopravvivere alla ricerca qui oggi, in questo tipo di paese.

Come medico e genetista di fama internazionale, lei ha potuto accostarsi ad un certo numero di patologie a base genetica, nonché un gran numero di malattie rare. Come medico, come vive la relazione con le persone affette da questo tipo di condizione?

Dei rapporti con i pazienti forse sarebbe meglio chiedere ai pazienti. Nel senso che se hai un buon rapporto con loro in genere sono loro che parlano bene di te. Io credo, in linea di massima, di avere sempre avuto un buon rapporto con i pazienti. Molti miei collaboratori mi hanno ripetuto molte volte che mentre io sono uno che corre molto svolgendo le mie attività, nel momento in cui comincio a fare attività ambulatoriale con i pazienti, mi trasfiguro e dedico loro tutto il tempo di cui hanno bisogno. Il paziente viene, mi pone delle domande e fino a che non ha le risposte a tutte le domande non esce dalla stanza. Naturalmente, l'abitudine a vivere con i malati, i malati rari, i malati che hanno alle spalle una tragedia piccola, media, o grande, mi ha dato una certa abitudine a convivere con le sofferenze umane. Non è che non viva o non mi metta nei panni delle tragedie che incontro, ovviamente provo una compartecipazione, sympatheia, ma cerco comunque di mantenere un certo distacco per non soccombere, dovendo confrontarmi con molte situazioni tragiche ogni giorno. Vivo, sento i problemi dei pazienti, cerco di trovare nei limiti del possibile, le soluzioni, l'adattamento migliore, le risposte che possono essere a ciascuno più congeniali. Una delle regole della consulenza genetica è proprio cercare di aiutare le persone a trovare il miglior adattamento possibile alla loro situazione. In questo senso quindi mi faccio coinvolgere e cerco di trovare delle risposte. Purtroppo, con i limiti delle nostre conoscenze in questo mondo: in quasi due terzi dei casi siamo in grado di dare delle risposte, in un terzo non lo siamo.


Pur contando su risorse di alta eccellenza scientifica e tecnologica, non possiamo mai evitare del tutto il dolore e la sofferenza umana. Cosa ci insegna, a suo parere, l’incontro con il mistero della sofferenza umana?

"Questo incontro secondo me ci aiuta a valorizzare la fede. Poiché soltanto chi ha veramente fede e crede in valori superiori a quelli terreni, riesce a superare i problemi del dolore, della disperazione, delle disgrazie. Per cui, secondo me, sono veramente fortunate le persone che hanno fede e che quindi riescono ad identificare in un valore superiore la possibilità di superare cose che la medicina ufficiale, le situazioni della vita, la contingenza in cui si vive non ti consentirebbero di superare. Purtroppo quella della fede è una ricetta che non tutti hanno, poiché aver fede è frutto di una serie di "fortune" che una persona ha, come quella di crescere in una famiglia in cui sono stati insegnati certi tipi di valori ad esempio. Certe persone, purtroppo, non incontrano la fede perché non hanno avuto la fortuna di incontrare qualcuno che gli abbia insegnato a vivere questi valori superiori; oppure ci sono persone fortunate che riescono comunque a conquistare questi valori in maniera indiretta nel corso della vita. Credo che il riferimento fondamentale, la ricetta "antidolore", non è la pillola che prendi in farmacia, ma è credere in dei valori trascendentali che ti aiutano a vivere il tuo quotidiano."

Alcuni ricercatori, come il genetista statunitense Francis Collins, sono convinti sostenitori che il mondo biologico e della vita rechi con sé un messaggio che lo trascende giungendo a parlare, nel titolo di un suo libro, del DNA come del linguaggio di Dio. A partire dalla sua esperienza, professore, ha mai considerato che l’incontro con il mistero della vita rivelasse in qualche modo l’esistenza di un Creatore?

Il concetto del linguaggio di Dio è stato un argomento tirato fuori nel giugno del 2000 quando è stato sequenziato il genoma umano e, a mio avviso, è impropria come affermazione quella di dire che il sequenziamento del genoma corrisponda alla decodificazione di un linguaggio di Dio. Se fosse così infatti, se il linguaggio di Dio fosse fatto dalle basi del DNA, non lo avrebbe scoperto lui, ma lo avrebbe fatto trent'anni prima Korenberg che aveva identificato il codice genetico. Detto questo, la risposta è che, mentre c'è una parte del mondo della ricerca scientifica che pensa che la scienza possa dare spiegazione a tutto, ce n'è poi un'altra, a mio parere, convinta di come ogni avanzamento della ricerca sposti in là l'asticella e ci consenta di guardare sempre più in alto e pensare che esista un qualcosa che è stato all'inizio di tutto e per chi ha la fede, sicuramente questo non può che essere un Creatore da cui è partito tutto. Francis Collins, che conosco, non è cattolico ma è un uomo di fede e un grande ricercatore. Sicuramente credo di poter condividere il suo modo di vedere: se non si pensa a qualcosa di superiore che governa il mondo e da cui tutto discende, non è possibile spiegare la creazione e tutto il resto che ne è derivato, semplicemente con gli strumenti della nostra ricerca scientifica”.