“Che cos’è? Che musica è questa così intensa e così piacevole, che riempie le mie orecchie?” –chiese Scipione l’Emiliano, pieno di meraviglia – “È quella prodotta dall’energia che muove le sfere stesse, – rispose Scipione l’Africano – composta da note emesse ad intervalli ineguali, ma tuttavia distribuiti ciascuno sulla base di un rapporto razionale; ne deriva una precisa varietà di armonie…”. Con queste parole Cicerone, in un noto passaggio del Sogno di Scipione – dove Scipione l’Africano mostra al nipote le meravigliose proprietà del cosmo – definisce il concetto di musica delle sfere, o armonia dei pianeti. Questo tema, difatti, lo ritroviamo spesso in moltissimi pensatori antichi, soprattutto legati ad ambienti pitagorico-platonici o da essi derivati, e si propagò nel corso dei secoli, penetrando nel medioevo cristiano e arrivando, senza soluzione di continuità e senza significativa obiezione, sin agli albori dell’illuminismo. Ma a quale periodo dobbiamo far risalire la sua nascita? E qual è il suo vero significato, appena sotteso nel testo dell’oratore romano, destinato a rimanere parte integrante e fondamentale di secoli e secoli di filosofia e teologia occidentale?
Per rispondere correttamente a queste domande è necessario recarsi alcuni secoli indietro, rispetto a quando fu composto il Somnium Scipionis, presso la scuola pitagorica, nella quale, secondo la leggenda, questa dottrina mosse i primi passi. Fu Pitagora (580/70 – 495 a.C.) stesso, infatti, secondo le fonti, grazie alle sue facoltà semidivine, ad ascoltare per primo il suono prodotto dai pianeti i quali, muovendosi in orbite perfette – come ritenevano i pensatori dell’epoca –, producevano ognuno un tono musicale e, tutti insieme, un grande accordo cosmico, sintomo e testimone della perfezione divina che decise di creare il mondo in modo bello e ordinato (kosmos, secondo il suo significato originario, avrebbe avuto l’esatto significato di “ordine”, inteso come convivenza e coesione di elementi diversi tra loro. Il dossografo Aezio (I-II sec d.C.), riprendendo questa tradizione, ci informa che: “Pitagora fu il primo a chiamare l’insieme di tutte le cose cosmo, per l’ordine che vi regna”. Aet.II 1, 1. D.327, 8).
Il significato di cosmo era dunque quello di “ordine equilibrato”, ovvero un luogo dove tutti gli elementi, con le loro caratterizzazioni e diversità, riuscivano a convivere e fondersi, grazie ad una divina harmonia, che generava tutte le realtà conosciute, determinanti il mondo stesso. In questo senso, la musica, considerata all’interno della scuola pitagorica sorella dell’astronomia e delle altre discipline matematiche, che formeranno il quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica), era l’ennesimo risultato di questo sommo ordine e, anzi, la sua manifestazione più concreta.
Pitagora, come riferisce Giamblico (Vita di Pitagora 15. 65-66), oltre ad aver determinato le consonanze musicali di tono, quarta, quinta e ottava, ascoltando il battere dei martelli nei pressi di una fucina, avrebbe, ispirato da questi purissimi suoni celesti, scoperto i modi, i quali influenzarono in modo decisivo la teoria e la prassi musicale occidentale (in un periodo che andrà dall’antica Grecia al Barocco, nonostante le importanti distinzioni tra quelli antichi e quelli medievali o moderni).
L’armonia delle sfere, nata dunque sotto la scuola pitagorica, ebbe ben presto una fortuna filosofica non indifferente, anche per merito di uno dei più grandi pensatori di ogni tempo che, inserendola in uno dei suoi scritti più importanti, ne determinò la definitiva consacrazione: Platone (427-347 a.C.).
Il filosofo ateniese presenta la dottrina nella Repubblica e precisamente durante la narrazione del mito di Er, soldato caduto sul campo di battaglia cui l’universo aveva assegnato un compito speciale: tornare dall’aldilà per testimoniare cosa si trovasse nel mondo ultraterreno. Er, in una singolare descrizione della forma dell’universo e delle orbite planetarie, afferma che, su ogni pianeta, sedeva una sirena la quale, cantando una precisa nota musicale, si univa al gran concerto delle altre, determinando così un magnifico accordo cosmico. Anche in questo caso, la musica dei cieli era testimonianza di un sommo e divino ordine (kosmos), che si manifestava in una fantastica e astronomica sinfonia.
Da Platone, come già accennato, la diffusione del tema fu inarrestabile e si dilungò in un lasso di tempo storico estesissimo. Solo nel periodo antico e tardo antico, oltre al già citato Cicerone, è presente negli scritti di filosofi di lingua greca e latina, come: Alessandro di Efeso (I sec. a.C.), Igino (64 a.C.-17 d.C.) , Plinio il Vecchio (23 - 79 d.C.), Nicomaco di Gerasa (60 – 120), Plutarco di Cheronea (46/48-125/127), Tolomeo (100 - 168), Aristide Quintiliano (III-IV sec), Censorino (III-IV sec), Favonio Eulogio (IV sec), Calcidio (IV sec), Macrobio (390-430), Marziano Capella (IV-V sec) e Boezio (475-525).
È importante aggiungere che, oltre che filosofiche, le motivazioni cercate per giustificare il suono planetario furono anche fisiche o, addirittura, empiriche. Asserisce infatti Boezio: “Come è possibile che la veloce macchina del cielo si muova con tacito e silenzioso corso? Sebbene non giunga al nostro udito quel suono […] non potrà tuttavia un movimento così veloce di corpi tanto grandi non eccitare suono alcuno quando si tenga conto che i corsi degli astri, in modo particolare, sono tra loro connessi con tale armonia che nulla si possa intendere ugualmente organizzato, nulla che sia allo stesso modo intimamente ordinato”. Se qualche scettico – come fu Aristotele (384/3 – 322 a.C.) a tale riguardo – provava a smontare la teoria asserendo che, in realtà, nessuno riusciva a percepire quel suono, questi avrebbe ricevuto risposte rievocanti le più diverse ragioni, tra le quali le più diffuse erano: 1) l’abitudine all’ascolto, ovvero il fatto che, udendo quest’accordo sin dalla nascita, le orecchie si abituavano subito, diventando così, con il tempo, “insensibili”; 2) l’inabilità delle facoltà umane di percepire un suono così grande, così come gli occhi non sono adatti a vedere il sole; 3) la bassa purezza umana, alla quale è riservata solo la conoscenza delle cose terrene, mentre, agli uomini più elevati, poteva risultare possibile la percezione di un concerto come quello celeste.
Questa teoria, quindi, si diffuse per tutto il periodo antico e tardo antico e per merito di alcuni tardi autori, come Marziano Capella e Boezio, giunse al Medioevo. Questo, anche se in un primo momento potrebbe risultare sorprendente, non deve meravigliarci troppo, poiché il fatto che l’universo fosse sommamente ordinato per merito di una bontà divina non poteva certo dispiacere a pensatori di stampo cristiano che, anzi, richiamarono proprio i testi dei primissimi seguaci della Chiesa, sicuramente influenzati da un forte contesto culturale di stampo medio e neoplatonico. Tra gli esempi più noti di antichi pensatori cristiani che trattarono la teoria vi fu sicuramente Caldicio, ma se ne occuparono anche autori più vicini alle Scritture, come S. Attanasio (296 – 373), S. Ambrogio (339/40 – 397) e S. Agostino (354 – 430). Dobbiamo considerare, inoltre, che questi autori non si rifecero solamente ad una letteratura di stampo filosofico ma, per indagare e confermare questa dottrina, chiamarono in causa le stesse Scritture. Pensiamo, ad esempio, a passi come quello di Giobbe 37, 4-7: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le sue basi, o chi ha posto la pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?”. Oppure, ricordiamo il Salmo 88, dove è scritto: “I cieli cantano le tue meraviglie, Signore!”.
Così, nel lungo corso dell’era medievale, il tema dell’armonia cosmica si diffuse, sia per i numerosi autori di glosse e commentari degli antichi testi, ove il tema era già trattato – ricordiamo, ad esempio, il Commento a Marziano Capella realizzato da Remigio d’Auxerre (841 - 908) –, sia per taluni passi di alcuni dei più abili e famosi autori d’ogni tempo, come Dante Alighieri (1265 – 1321) il quale, nel Paradiso I, 76-84, scrive i famosi versi: “Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso, con l’armonia che temperi e discerni parvemi tanto, allor, del cielo acceso, de la fiamma de sol, che poggia o fiume lago non fece mai tanto disteso la novità del suono e ‘l grande lume di lor cagion m’accesero un disio mai non sentito di cotanto acume”. L’autore della Comedìa, come si sarà immaginato, fu in numerosa compagnia: infatti, autori come Giovanni Scoto Eriugena (815 – 877), Aureliano di Reomé (IX sec.), Regino di Prum (840 – 915), Onorio Augustodunense (1080 – 1154) Jacobus di Liegi (1260 – 1330), Ugolino di Orvieto (1380 – 1457), ed altri ancora, trattarono il tema nei loro scritti.
Dal medioevo, la dottrina si tramandò ulteriormente, comparendo, in epoca Rinascimentale, nelle opere di autori come Marsilio Ficino (1433 – 1499), Pico della Mirandola (1463 – 1494), Francesco Zorzi (1466 – 1540) o Giordano Bruno (1548 – 1600), arrivando a contagiare anche grandi umanisti come Jean Bodin (1529 – 1596). Il tema fu così vitale che, continuando a percorrere il corso della storia, si ritrovò nei testi non solo di filosofi o eruditi, ma anche di “scienziati” o specialisti di vario tipo, tra i quali non può non emergere il grandissimo studioso e astronomo Giovanni Keplero (1571 – 1630). Questi, nell’Harmonices Mundi, come suggerisce lo stesso titolo, non si limitò a parlare dell’universo dal solo punto di vista tecnico-meccanico, bensì analizzò il creato da una prospettiva filosofica più ampia. Riprendendo numerosi spunti dalle più importanti scuole filosofiche passate e dalla tradizione cristiana, l’astronomo tedesco arrivò a trattare il tema dell’anima e del suo rapporto con il cosmo poiché, proprio come quest’ultimo, essa era, in accordo con la tradizione platonica, costruita da rapporti che derivavano da legami di natura armonica secondo la stessa volontà del Creatore. Parlare di armonia delle sfere era quindi inevitabile, e il modello proposto da Keplero può considerarsi tra i più particolari della storia: com’è noto, infatti, per Keplero i pianeti non percorrevano orbite circolari, bensì ellittiche. Di conseguenza, l’astronomo affermò che il suono sarebbe stato acuto o grave secondo la velocità di spostamento del pianeta, la quale dipendeva dalla sezione d’ellissi percorsa durante il moto di rivoluzione intorno al sole (la cosiddetta seconda legge di Keplero). Così, è immaginabile non un singolo e sommo accordo, bensì una dinamica e variabile sinfonia che accompagnava lo spostamento dei corpi celesti.
Anche se in una brevissima parentesi, ritengo doveroso specificare che, un universo sommamente ordinato e divinamente armonizzato, non fu nella mente solo di pensatori “occidentali”, ma si diffuse anche in altri contesti storici e culturali, come il mondo arabo ed ebraico. In tali contesti, infatti, molte energie furono dedicate al tema da pensatori come: Hunayn ibn Ishaq (808 – 873) Al-Hasan al-Katib (X – XI sec), Isaac Ben Abraham ibn Latif (1210 – 1280), Isaac Ben Haim (1476 – 1518).
È difficile stabilire quando, effettivamente, terminò l’attenzione di questo rilevante concetto di accordo celeste, poiché è indubitabile che grandi pensatori e alchimisti del calibro di Robert Fludd (1574 – 1637), Marin Mersenne (1588 – 1648) o Athanasius Kircher (1602 – 1680) trattarono con serietà l’argomento, così come molte attenzioni vi furono date anche da veri e propri progenitori di quelli che oggi chiamiamo uomini di scienza, come Isaac Newton (1642 – 1727), o il già citato Keplero. È certo, però, che ad un tratto, nel corso della storia moderna, vinse la sensibilità empirica della non-percezione dei suoni planetari, e non si cercò più di attribuire a questo concetto una qualche realtà. Si preferì, semmai, pensare ad un’armonia universale più concettuale, intendendo con ciò, un’armonia astratta degli elementi che compongono il cosmo, nella sua meravigliosa e ordinata molteplicità.
Prima di concludere, vale la pena di menzionare un’eloquente aneddoto. Le famose sonde Voyager 1 e 2, lanciate dalla Nasa nel 1977, registrarono, grazie a un fenomeno di conversione sonora chiamato data sonification, ciò che sembrava essere una vibrazione, generata dall’emissione di onde radio da parte dei pianeti del nostro sistema solare. Come sappiamo, nello spazio vuoto, il movimento di onde sonore è assolutamente impossibile, tuttavia, i sofisticati strumenti delle due sonde seppero convertire questo segnale in una frequenza acustica assolutamente percepibile dall’orecchio umano (20 – 20.000 Hz). Il risultato è stato inciso su un CD, acquistabile dalla Nasa stessa, oppure ascoltabile in numerosi siti e portali online, come Spotify – in cui la Nasa stessa ha reso pubblico l’album Nasa Voyager Space Sounds – o Youtube.com. Per la prima volta nella storia, quindi, a ciascuno di noi è stata data la possibilità di ascoltare una “vera e propria musica delle sfere”.
Al di là dell’aneddoto, la breve ricostruzione storica delle vicende dell’armonia dell’universo e della “musica delle sfere” qui offerta è un modo per percepire l’importanza della connessione fruttuosa, sebbene talvolta “tortuosa”, tra pensiero scientifico, pensiero filosofico, e apertura teologica-religiosa. La ricerca di proporzioni armoniche nello studio del mondo fisico, dalle orbite celesti alla conformazione geometrica delle molecole, è ispirata, se non talvolta persino motivata, dalla convinzione che il mondo sia intellegibile – vale a dire: derivato da aspetti regolari, proporzionati e ordinati, scaturenti da una superiore volontà o “presenza”. In ultima analisi, è questa convinzione, di natura evidentemente meta-empirica e filosofica, che induce lo studioso del mondo fisico (il filosofo naturale di ieri e lo scienziato di oggi) ad indagare quegli elementi regolari proporzionati e ordinati (intelligibili, appunto), cercando una loro eventuale collocazione logica all’interno di un disegno indubbiamente ordinato: questa convinzione filosofica, come si sarà immaginato, affonda spesso le sue radici in un rimando al divino. Questo rimando, già presente nelle fonti antiche, sia greche che latine, assume forma più compiuta nella tradizione ebraico-cristiana, dove l’intelligibilità del mondo è riferita all’intelligenza di un Dio Creatore personale. Così, soprattutto in questa veste, il richiamo all’intelligibilità ha giocato un ruolo impossibile da trascurare negli sviluppi della scienza durante la storia occidentale moderna (non sarà inopportuno ricordare la grande religiosità, nonché educazione teologico-filosofica, di uomini come Leonardo, Keplero o Newton). Probabilmente, in epoca contemporanea questo rimando continua innegabilmente a giocare un ruolo – magari inconscio o istintivo – non “istituzionalizzato”, a differenza del passato, e circoscritto alla dimensione personale dell’uomo o della donna di scienza.