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Ricordando il '68: lampi di libertà?

Maggio 2018
Leonardo Allodi
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Università di Bologna

1968, cinquant’anni fa: a ridosso di un’Italia attraversata da manifestazioni studentesche, cortei non del tutto pacifici, occupazioni di Università (la prima fu la Cattolica di Milano, poi la Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma e quindi quella di Sociologia di Trento, dove l’occupazione si protrarrà per diversi mesi), uno dei più acuti intellettuali di allora, Augusto Del Noce, parlò di una ‘rivoluzione studentesca’ che gli appariva come il “frutto morale” dell’ultimo ventennio (1948-1968). Per tale ragione il ‘68 doveva considerarsi come “l’anno più ricco di filosofia implicita dal ’45 ad oggi” (Del Noce, 1970, 13). Il disagio e la ribellione generazionale che si esprimeva in forme “creative senza creatività” (Veneziani, 2007), apparivano dunque, già allora, qualcosa di complesso da afferrare nelle sue ragioni di fondo, non facilmente liquidabile come puro ribellismo, certo qualcosa che andava oltre la pura dimensione della politica. Qualcosa che si poteva realmente comprendere soltanto in una dinamica storica ampia, nella logica della long durèe di un mutamento socio-culturale i cui prodromi potevano essere colti già agli inizi dei Novecento, se non addirittura prima. Non a caso vi era chi, insieme a Del Noce, ad esempio Sergio Cotta, faceva risalire tutto a F. Nietzsche, il “maestro nascosto del nostro tempo”, il suo pensatore-chiave, colui che ha aveva portato alle estreme conseguenze la crisi del presente “rendendone chiari i termini essenziali”.  (Cotta, 1978, 110).

A testimonianza di questa natura filosofica, esistenziale e prepolitica del fenomeno della contestazione studentesca (ed operaia), per certi versi ancora indeterminata e quindi suscettibile sia di sviluppi positivi che negativi, può essere utile richiamare quel che accadeva nella Berkeley del Free Speech Movement (1964-1965), un movimento nato sulla scia di un discorso a favore della libertà di espressione degli studenti, destinato a divenir famoso, e improvvisato da un giovane sconosciuto studente, di origini italiane, Mario Savio. Ebbene, fra le opere cult che allora alimentavano le prime inquietudini di questa nuova generazione, vi fu The Quest for Community, un’opera sulla dialettica tra etica dell’ordine e della libertà uscita dalla penna di un ‘conservatore sociale’, Robert A. Nisbet. E già questo era piuttosto sorprendente. Pubblicata nel 1953, invocava un ritorno alla comunità concreta considerata come l’unico argine possibile al totalitarismo burocratico e anonimo, tanto della società opulenta e tecnocratica occidentale quanto di quella marxista, opera che verrà poi tradotta dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti (La Comunità e lo Stato. Studi sull’etica dell’ordine e della libertà, Ivrea/Roma 1957). Quello che qui affascinava e attirava gli studenti era la nuova riflessione sul senso della comunità, su quei legami sociali di tipo comunitario che un sistema sociale segnato dall’attivismo individualistico, dalla razionalità strumentale, dalla logica cioè di un mondo “di mezzi senza più fini”, sembrava aver rimosso definitivamente o comunque relegato all’ambito più privato. Per Nisbet nella società del boom economico e dell’opulenza si era consumata una perdita fondamentale e cioè “la perdita di quella base di esperienza umana concreta che si esprime nel piccolo gruppo spontaneo e consente all’individuo di non sentirsi solo e disarmato di fronte al potere centrale e remoto” (Nisbet, 1957, 285). Per questo Nisbet aveva istituito a Berkeley un campus a numero chiuso, il Riverside, amministrato secondo uno statuto comunitaristico. In questo senso, per Del Noce, la rivolta esprimeva in fondo un’indignazione morale che aveva qualcosa di naturale, e finanche comprensibile. Quel che si nascondeva in questo stato d’animo di un’intera generazione era una critica alla “filosofia implicita” della società del benessere e tecnocratica, una critica che in pochi anni, da Berkeley sarebbe passata a Parigi fino a Berlino, Milano e Roma. 

Giunto a contatto con un contesto europeo molto più ideologizzato, questo “stato d’animo di una generazione” imboccherà la strada della più radicale politicizzazione, nella quale riemergerà la tragedia della “lunga guerra civile europea” (come la chiamerà E. Nolte), una non del tutto prevedibile metamorfosi e una radicale deformazione che dalla lotta per i diritti civili assumerà i toni e i modi della violenza rivoluzionaria. Una sostanziale virata verso l’estremismo (“il puro passivo idealmente prodotto dalla società del benessere”, dice Del Noce), il cui esito finale sarà la  “radicalizzazione”  dei mali della società che rifiutava, una sorta di “eterogenesi dei fini”:  puro prodotto, diceva Del Noce perché “accettava supinamente allo stato di poltiglia frammentaria quei principi ideali che sono all’inizio del processo che ha portato al sistema attuale, quel sistema che vorrebbe contestare” (1970, 31). La “violenza” delle istituzioni totali della società che si voleva contestare si trasferì, con l’enfatizzazione estrema del mito della rivoluzione e dell’“uomo nuovo”, insieme a quello giovanilistico, nel movimento del ’68, allontanandolo definitivamente proprio da quelle fonti filosofiche che avrebbero potuto fornire alla ‘naturale’ ribellione e indignazione giovanile un quadro più positivo, il senso di una nuova misura, una forma più alta di convivenza sociale e civile.  Ciò che si determinò fu anche un essenziale cambio di paradigma culturale, con il quale ancora oggi la storia occidentale sta cercando di fare i conti. Se non un tramonto certamente una prolungata eclissi dei valori della tradizione europea, e, come avrebbe osservato un protagonista di quegli anni, J. Ratzinger, “l’ultima cesura storica in seno all’Occidente…inizio o esplosione della sua grande crisi culturale”.

A distanza di cinquant’anni da quegli eventi vi è oggi chi, non a caso, pone in relazione quella ‘ultima cesura storica’ dell’Occidente con una “prima generazione incredula” di giovani appiattiti in un nichilismo banale e pratico. Nel ’68 si condensa e precipita così una inquietudine, già ‘postmoderna’ nella sua portata, che percorre tutto il Novecento, e giustamente vi è chi ha parlato di un deja vu: il dannunzianesimo, la Carta del Carnaro e Fiume, un ‘nietzschianesimo’ che diventa il denominatore comune di molte generazioni, fino a quella del ’68. Da una parte la rivendicazione di una “nuova soggettività”, come nuova fondamentale tappa verso la realizzazione di una “cultura dell’autenticità”, piena realizzazione del progetto ‘Moderno’, un libertarismo che genera i movimenti pacifisti, quelli ecologisti, di rivendicazione dei diritti civili, ma anche una antropologicamente distruttiva “rivoluzione sessuale”: una vera e propria rivoluzione dei costumi, destinata a rimanere e a produrre un enorme mutamento socio-culturale. Ha ragione un bravo giornalista come Toni Capuozzo quando dice che il ’68 è stato moltissime cose immateriali: “la musica, i poster, Bandiera gialla alla radio, la scoperta dei ‘giovani’ a livello planetario” ma anche di moltissime cose materiali: “l’eskimo e le Clarks, le minigonne, gli stivaletti, i mangiadischi, il ciclostile e il megafono”, e quindi “l’assemblearismo” ma anche il “nomadismo e il misticismo”. (Capuozzo 2018, 11). L’“emergere del nuovo valore fondamentale del se-stesso” (Cotta 1978, 127), esposto al rischio di perdere ogni cifra normativa dell’esistenza e il senso della non negoziabilità delle opzioni etiche più alte, in sé oggettive e vincolanti per tutti. Ma dall’altra l’esplosione di una violenza nichilistica le cui radici storiche affondano addirittura nell’Ottocento Cfr. Strada, 2018), un revival politico-romantico che si concluderà in un “violento illiberalismo intellettuale” (Lübbe 2007, 153). Uno “spirito rivoluzionario” nel quale, tuttavia, riemergeva anche qualcosa che è e rimane geneticamente inscritto nella cultura europea, l’idea biblica dell’”Esodo” (Cfr. Walzer, 1986). La traccia di quella “immanente dinamica universalistica” che si collega ad un tratto preciso della tradizionale autocoscienza europea: la convinzione dell’esistenza di un diritto naturale, secondo cui “ogni tradizione, allorché limiti la libertà dell’uomo, deve giustificarsi con una motivazione” (Spaemann 1987, 6). Qualcosa che in Occidente sembra destinato a riconsegnare ad ogni generazione uno specifico compito, ma anche qualcosa che richiede che ogni generazione si riappropri dell’ontologica libertà della natura umana. Un’antropologia capace di misurare condizioni umane e sociali del proprio tempo con un parametro e un criterio universali: l’idea per cui “ogni uomo è immagine di Dio e ha diritto a una patria e alla libertà, e ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione” (Spaemann 1987, 7).

Un’antropologia dalla quale il ’68 in un qualche modo sorse ma che, per paradosso, proprio il ’68 rifiuterà. Del Noce lo avrebbe chiamato “suicidio della rivoluzione”. Perché la ricerca di una società più umana e migliore, al servizio di una più consapevole autenticità personale e di una maggiore quota di libertà civile, si è alla fine pervertita in una “apparente tolleranza” e “in un totalitarismo reale”? In un antigiuridicismo che avrebbe negato ogni misura e forma alla vita sociale e alla relazione tra le persone? Perché la “ricerca della comunità” si è tradotta in una forma di radicale assenza di dialogicità, di rispetto, di misura? Perché, soprattutto nel nostro Paese, “il comune stato d’animo di una generazione” ha inaugurato “gli anni di piombo” ma anche la stagione delle stragi impunite, “la notte più lunga della Repubblica (1968-1989)”? Perché siamo ancora immersi in un “immobilismo storiografico” e interpretativo, come lo chiama E. Galli della Loggia, che non consente alle differenti culture politiche di uscire dalla logica e dalla morsa della nostalgia/deprecazione, di elaborare una “memoria condivisa” e pacificatrice?

Molti sono stati i modi di vivere il sessantotto. P.P. Pasolini, il “mancato poeta del ‘68” (famosa la sua poesia dopo gli scontri di Valle Giulia in cui prendeva le difese dei poliziotti - questi sì, figli di proletari -), ha parlato di una mutazione antropologica verso il soggettivismo. J. Habermas, il maggior esponente contemporaneo della Scuola di Francoforte (quella scuola che per alcuni aveva fornito la linfa teorica vitale al Sessantotto stesso), parlerà di Linksfaschismus (fascismo di sinistra). E vi fu anche chi (non furono pochi) che visse il Sessantotto nella prospettiva non di chi lo fece ma di chi lo subì, e che oggi lo ricorda come una “nube tossica mitizzata”, una “intolleranza permissiva” (Veneziani 2007, 9).

Modernizzazione, antiautoritarismo, nuovi costumi sociali meno ipocriti ma anche una nuova ‘violenza sociale’: quale fu la vera e perdurante cifra del Sessantotto? Tutte queste dimensioni furono presenti, ma per quanto quella che nel decennio 1968-1977, soprattutto nel nostro Paese, prevalse sia stata quella rivoluzionaria e violenta,  quella che invece si doveva rivelare come la più duratura e vitale è stata la dimensione antropologica ed esistenziale, un processo di modernizzazione delle coscienze dagli esiti molto problematici. La “società italiana è una società di soggetti solo dal ’68 in poi”, dice Galli Della Loggia, una “gigantesca tappa dello sviluppo dell’individualismo”: una “esplosione di soggettività nuova”. Una conquista di autonomia soggettiva e di libertà personale, ormai irreversibile ma anche antropologicamente indeterminata. Per Marco Boato (uno dei suoi leader) fu l’antiautoritarismo, il rifiuto dei “padri”, il denominatore comune di questo movimento. Un soggettivismo che poneva in discussione ogni istanza etica esterna all’individuo. L’obbedienza non era più una virtù (don Enzo Mazzi e la comunità di base dell’Isolotto: cfr. Capuozzo 2018, 83: ‘La tonaca non è più un’obbedienza’). Per Franco Piperno o Mario Tronti, il Sessantotto coincise con la coscienza che la classe operaia “era l’unica forza rivoluzionaria che controlla, minacciosa e terribile, l’ordine presente”. Parole oscure e ambigue che nascondevano la riproposizione di un’illusione antica: l’idea che per eliminare la violenza sia necessario ricorrere ad essa, e dunque l’idea di rivoluzione come “un inizio del tutto nuovo, senza precedenti, come dopo un terremoto che abbia fatto tabula rasa dei vecchi edifici” (Cotta, 1978, 24). 

In Italia il Sessantotto coincise dunque con una modernizzazione delle coscienze che “si abbigliò subito con le vesti di una politicità estrema e dirompente” (Galli Della Loggia, 2018, 226), la cui fragilità antropologica non avrebbe impedito né la degenerazione violenta, e nemmeno -  nel giro davvero di pochi anni -  un capovolgimento radicale nel rifiuto stesso della politica e in una nuova illusione generazionale non meno perdente: la cultura del disincanto e del riflusso. 

Il ’68, soprattutto nel nostro paese, ha come premessa il boom economico e la grande trasformazione della società italiana che avviene negli anni sessanta: forte migrazione dal Sud al Nord, crescente disagio operaio nelle fabbriche che arriva ad esprimersi nella insofferenza e rottura con la sinistra tradizionale, la saldatura fra lotte operaie e lotte studentesche: un’anticipazione  significativa si ebbe nel 1963 con la contestazione, del tutto imprevista, del segretario del PCI Togliatti alla Normale di Pisa. Nel 1960 vi erano stati i fatti di Genova: la forte contestazione contro il governo Tambroni (poi costretto dimettersi) per aver consentito lo svolgimento del Congresso del Movimento Sociale Italiano in quella città, medaglia d’oro della Resistenza. In quelle giornate la violenza dei portuali “armati di ganci micidiali” fu la protagonista degli scontri.

Nell’autunno del 1967 gli studenti occupano la Cattolica per protestare contro l’aumento delle tasse; il 1 marzo 1968 gli scontri di Valle Giulia fra gli studenti che avevano occupato la Facoltà di Architettura e la polizia, mentre continuava l’occupazione della Facoltà di Sociologia a Trento iniziata il 31 gennaio. Occorre ricordare anche il contesto internazionale: nel 1963 J.F. Kennedy viene assassinato; nel 1964-1965 all’Università di Berkeley nasce il Free Speech Movement. Successivamente gli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Circa dieci anni prima vi era stata l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956), la famosa primavera di Praga (il prodromo di un ’68 dimenticato e rimosso a lungo, quello dell’Est); la rivoluzione culturale di Mao iniziata nel 1966. Un ruolo non meno rilevante lo ebbero le contestazioni per la guerra in Vietnam. Nel 1969, uno degli eventi più drammatici del nostro Paese, la strage di Piazza Fontana. 

Secondo la ricostruzione di M. Brambilla (1993), anche se resta difficile se non impossibile datare l’inizio della violenza ‘politica’ in Italia, una data e un nome risultano sufficientemente significativi: “La data è il 19 novembre 1969 e il nome è quello di Antonio Annarumma, ventiduenne agente di polizia che quel giorno cadde a Milano” (Brambilla 1993, 36). La città di Milano si era progressivamente trasformata in un quotidiano teatro di scontri fra opposte fazioni fino a divenire la “capitale italiana della violenza politica”. Sono anni in cui si contano molte vittime sia dell’estremismo di sinistra che di quello di destra. Gli assassini politici di Sergio Ramelli (19 anni) ‘sprangato’ da un collettivo studentesco di Medicina e di Alberto Brasili (19 anni), accoltellato da cinque estremisti di destra, si possono considerare come gli eventi-simbolo di quegli anni drammatici. Due giovani di appena diciannove anni, vittime di una diffusa “vigliaccheria”: con la vita si pagava la fedeltà alle proprie idee (Ramelli), con la vita si pagava il fatto di transitare con un ‘eskimo’ addosso per un luogo proibito della città, controllato dalla fazione politica opposta. Il culmine dei cosiddetti “anni di piombo” sarà il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e dei 5 agenti della sua scorta (9 maggio 1978), ad opera della organizzazione terroristica delle Brigate Rosse (difficile contare esattamente il numero di rapimenti politici, gambizzazioni, assassini di cui questa formazione si è macchiata in pochi anni).

Con l’omicidio di Aldo Moro, si registra non soltanto il culmine della violenza terroristica in Italia ma anche l’inizio del suo inesorabile declino, con una riscossa delle istituzioni del Paese, di una coscienza civile per troppo tempo rimasta silente e imbrigliata. Un ruolo cruciale di sottovalutazione spesso ideologica del fenomeno del terrorismo in quegli anni lo ebbe in generale la stampa italiana. Brambilla ha dedicato un libro significativo al “conformismo, i silenzi, l’autocensura” che distinsero gli organi di stampa di allora. Per molto tempo le “Brigate rosse” continuarono ad essere considerate “sedicenti”: come testimonia il famoso articolo di Giorgio Bocca su “La favola delle Brigate rosse”, secondo il quale i brigatisti erano soltanto “professionisti della provocazione”, un fenomeno costruito a tavolino dai servizi segreti:  “Ci fu un periodo – dice Brambilla – in cui tutto quanto veniva da sinistra era benedetto, mentre il sistema era sempre e comunque un mostro con le fauci spalancate” (1993, 8). Il linciaggio mediatico del Commissario Calabresi e il suo successivo assassinio (17 maggio 1972) si inscrive in questo clima. La vicenda del “Rapporto Mazza” resta emblematica anche del ‘disarmo’ delle istituzioni in quel frangente storico: il Prefetto di Milano Mazza, l’autore di un puntuale “Rapporto” sulla violenza politica milanese, sarà fatto passare “per un ottuso conservatore, non credibile”. Inviato il 22 dicembre 1970 al Ministero degli Interni, tale “Rapporto” rimarrà a lungo colpevolmente ignorato e segretato. 

L’interpretazione complessiva del “lungo ’68” (iniziato prima e finito dopo, come dice Marco Boato), continua a dividere la storiografia di quegli anni e le diverse culture politiche che ancora oggi la alimentano. Per Marcello Veneziani, il Sessantotto “fu il virus di un’epoca riassunto nella superstizione di una cifra” (2007, 9), “l’apoteosi del parricidio gioioso, il progetto di liberarsi dal padre per andare incontro ai ‘domani che cantano’”. Con un esito ben preciso: “L’esito è stato che alla perdita del padre ha corrisposto la perdita dei figli; il rifiuto del passato ha prodotto il rifiuto del futuro e il dominio egocentrico del presente. Il parricidio si fece infanticidio, tra aborti, contraccettivi e denatalità. Chi elimina il padre elimina il figlio. I sessantottini vollero sentirsi figli del proprio tempo anziché dei propri padri. E al proprio tempo sacrificarono anche quello delle generazioni venture. Cominciò con l’avvento di una generazione, che diventò poi una degenerazione” (2007, 11-12). Per Veneziani, e per molti studiosi prima di lui (un manipolo di pochi intellettuali coraggiosi: Del Noce, Cotta, Matthieu, Morra e pochi altri), con il ‘68 si è determinato il passaggio “dal vecchio universo cristiano-famigliare e nazionale a una neoborghesia spregiudicata e sradicata, priva di valori e pudori, irridente alla morale”.

Secondo altri (si veda il recente doppio fascicolo della rivista ‘Micromega” sul ’68) la violenza, l’estremismo, l’utopismo non sarebbero i veri topoi del Sessantotto. La violenza sociale di quegli anni fu solo e semplicemente ‘difensiva’’. Le istanze più autentiche e perduranti del Sessantotto andrebbero cioè identificate nelle lotte per i diritti civili, nella conquista dello Statuto dei lavoratori, nella ‘Legge Basaglia’, nella istituzione del Servizio sanitario nazionale; nelle “Radio libere” e nella trasformazione del sistema dell’informazione. Una tesi che tuttavia, anche un ex magistrato come Giancarlo Caselli, proprio dalle pagine di Micromega  ha fortementente ridimensionato parlando apertamente di una “cultura della violenza politica e di ambiguità del movimento del ‘68”. 

Per Franco Piperno (leader e fondatore, insieme a Toni Negri e Oreste Scalzone di “Potere operaio”), al contrario, il Sessantotto fu il “paradiso ormai caduto in terra”, il “volto liberatorio della violenza”, (a p. 46 del suo libro sul Sessantotto ricorre una frase che fa letteralmente tremare i polsi: occorreva “non lasciare il male al Diavolo”). Era l’idea rivoluzionaria, marxista e maoista, per cui la democrazia volesse dire, parafrasando Lenin, “il fucile sulla spalla dell’operaio e dello studente”. Per Marco Boato la degenerazione violenta fu, dal punto di vista del significato civile del ’68, marginale: il vero ’68 coincidendo con la nascita dei movimenti ecologisti, pacifisti, antinucleari, dei diritti civili. Boato ricorda, ad esempio, la nascita della Comunità di Sant’Egidio, i notevoli risultati della sua parallela azione diplomatica. Ma certo, il ’68 fu anche una rivoluzione “del desiderio”, la quale, scambiando il principio di piacere con quello di realtà, era destinata a produrre una emergenza educativa, demografica e antropologica che oggi è sotto gli occhi di tutti. Il rifiuto del padre e l’antiautoritarismo si tradussero in disgregazione della famiglia, della scuola, della parrocchia, la liberazione sessuale in uso commerciale e consumistico del sesso e della donna. Come qualcuno ha detto, “Prometeo è stato sconfitto da Orfeo e Narciso” (Morra, 2018), una rivoluzione antropologica in cui Freud batte Marx e nella quale “Agostino tace, e parla Vasco Rossi”.

Assai interessante, in tal senso, appare la riflessione che a distanza di molti anni è stata avanzata da Mario Tronti, uno degli  ex-leaders del ’68 e uno dei padri del cosiddetto ‘operaismo italiano” (la classe operaia come unica forza sociale capace di trasformare i rapporti economici e politici). Per Tronti la crisi odierna non è soltanto economico-finanziaria, essa "investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti con i processi di civilizzazione del passato. Penso, in particolare, alle forme più spinte di secolarizzazione, che hanno abbandonato l’uomo a sé stesso e prodotto il deterioramento delle relazioni personali. Questa è l’emergenza ‘antropologica’ "(Cfr. Avvenire, 31 ottobre, 2012, 33). La “cultura radicale” che si è imposta, e che secondo Tronti, costituisce la vera e fondamentale eredità del ’68, genera oggi un individualismo narcisistico, un “nar-cinismo” (C. Soler) “che rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale” (Tronti, ivi). Anche per Marco Boato i rischi che la democrazia corre oggi sono connessi ad una vera e propria “emergenza antropologica” in atto. 

Il tema della “emergenza antropologica”, oggi pienamente riemerso nel dibattito sul ’68 restituisce vigore alla tesi di Del Noce circa la “necessità di una interpretazione filosofica della storia contemporanea”. Nel suo sforzo di affermarsi storicamente, dice C. Taylor, la cultura moderna sembra rivelare qualcosa di grande ma anche di vacuo e di pericoloso. Nella misura in cui la concezione della libertà si autocomprende come radicale auto-determinazione e autonomia, essa nega l’intrinseca dialogicità del Sé umano e la necessità che quell’“animale razionale dipendente” (MacIntyre), che resta l’essere umano, ha di condividere orizzonti morali comuni. L’autenticità e l’autonomia a cui l’uomo moderno aspira non può cioè “essere difesa in maniere che distruggono gli orizzonti morali; questo ideale dell’autenticità infatti ha bisogno di un orizzonte di questioni rilevanti; la necessità dunque che la libertà si misuri con orizzonti morali comuni e condivisi” (Taylor, 1994, 65 e sgg.). Se questo non avviene, la cultura dell’autenticità si banalizza e perverte in vuoto individualismo e narcisismo. La politica si sostituisce in tal modo alla religione e alla filosofia, la politicizzazione estrema (“tutto è politica”) conduce inevitabilmente al “suicidio della rivoluzione”. Senza l’appello a valori permanenti non può nemmeno essere salvato l’aspetto positivo della società tecnologica (Del Noce 1970,  17).

L’antigiuridicismo, è il frutto malato (non inevitabile) dell’emergere “del nuovo valore fondamentale del sé-stesso”, una assolutizzazione del soggetto, sia individuale che collettivo, che non conclude in una maggiore libertà individuale “ma nella sovranità anonima del tutto al posto della responsabile libertà dell’individuo” (Cotta, 1978, 80). La protesta e la rivolta ricadono nella violenza quando si pensa di poter scindere il momento negativo della critica e della “distruzione” da quello positivo: quando questo accade, s’insinua inevitabilmente un senso apocalittico che conferisce novità alla violenza odierna: “La violenza è ora finalizzata a dischiudere un nuovo destino: non più una violenza subita, e quindi priva di senso, come nel passato, ma una violenza voluta consapevolmente” (Cotta 1978, 48).

In Stato e rivoluzione Lenin non esita ad affermare che “i servi del capitalismo vanno distrutti fisicamente”. La contraddizione in cui cade questa posizione filosofica è sempre la stessa: per eliminare la violenza è necessario ricorrere ad essa. Con il Sessantotto, in questo senso, e in una sua componente decisiva, è stato superato il tradizionale giudizio negativo sulla violenza: “La violenza torna, come una marea, a invadere il terreno (ideale e pratico) dal quale si pensava fosse stata costretta a ritirarsi. E vi torna non già per una causa naturale, per una sorta di meccanica alternanza, ma perché chiamata volontariamente” (Cotta 1978, 48). Viene così meno la capacità di distinguere tra ‘violenza’ e ‘forza’. L’atto violento ha suoi caratteristici tratti: quello della immediatezza  (non  c’è mediazione né meditazione), della discontinuità  (l’atto violento non si distende in una attività mediata, normale, è una esplosione, uno scoppio), della  sproporzione allo scopo (l’atto violento, essendo immediato, si rapporta a uno scopo ma non in maniera calcolata), della non durevolezza (si esaurisce con rapidità, senza mai acquisire una durata consistente) e della imprevedibilità (nel nascere, nell’esaurirsi, nella direzione, nel risultato). Solo la ‘forza’ conserva misura e forma, proporzionalità e durevolezza. Ma chi s’impossessa dell’altro con la violenza “si autospossessa del proprio sé: cede all’animalità di cui parla Kierkegaard e decade dalla propria spiritualità, come dice Scheler” (Cotta 1978, 73). Ma nella ribellione al diritto (così diffusa proprio in un movimento come il ’68) si palesa anche una precisa posizione metafisica: la concezione dell’uomo come Dio (Cotta 1978, 110), dal momento che “la semplice presenza del diritto attesta ch’egli, l’uomo, non è Dio, non è né pura bontà né onnipotenza”. 

Quale lezione trarre dunque da questa complessa vicenda che chiamiamo “Sessantotto”, certamente molto più articolata di quanto possano suggerire queste riflessioni, un’epoca che ancor oggi ci unisce soltanto nel riconoscimento della sua crucialità, della sua assialità per i decenni successivi? Vorrei dire: la necessità di una nuova riflessione sulla “metafisica della soggettività”, sui suoi esiti distruttivi e sulle sue potenzialità ancora tutte da scoprire. Il grande tema del nostro tempo, quella riflessione su libertà e limite, su autonomia e norma, e su quella idea di forma che, come ben vide il più geniale dei sociologi del Novecento, Georg Simmel, non è sempre e soltanto ostacolo alla fioritura dell’uomo e della società, ma una sua premessa necessaria.

      

Bibliografia minima

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