Tu sei qui

Alchimia, scienze naturali e temporalità

Mircea Eliade
1956

Arti del metallo e alchimia

In questo saggio del 1956, che Eliade propone al termine del volume Arti del metallo e alchimia (1977), il filosofo della religione traccia la storia incrociata dell’alchimia e delle arti del metallo, dimostrando come antichi metallurghi e alchimisti s’incontrino su un punto fondamentale: la fede, nel carattere vivo e sacro della materia e nella possibilità di operare una sua trasmutazione, supplendo con le tecniche e il lavoro l’opera del Tempo. In questo senso, l’alchimia avrebbe contribuito ad accrescere nel mondo moderno la convinzione circa le possibilità illimitate dell’Homo faber e circa il significato escatologico della sua azione.

Noi non pretendiamo di aver esaurito, in così poche pagine, l’essenziale di un argomento vastissimo, molti aspetti del quale ci restano preclusi. Non era neppure nostro intento riassumere la storia della metallurgia e delle alchimie asiatica e occidentale. Intendiamo solo seguire lo sviluppo di alcuni boli e di alcune mitologie che dipendono da queste tecniche arcaiche, grazie alle quali l’uomo assumeva una responsabilità crescente di fronte alla Materia. Se le nostre analisi e le nostre interpretazioni sono fondate, l’alchimia continua e consuma un antichissimo sogno dell’Homo faber: collaborare al perfezionamento della Materia e nello stesso tempo perseguire la propria perfezione. Abbiamo già descritto alcune fasi capitali di questa collaborazione: perciò non le riprenderemo in esame. Un tratto emerge comune a tutti questi tentativi: assumendo la responsabilità di cambiare la Natura, l’uomo si è sostituito al Tempo: ciò che avrebbe richiesto millenni o Eoni per “maturare” nelle profondità della Terra, il metallurgo, e soprattutto l’alchimista, ritengono di poterlo ottenere in poche settimane. La fornace si sostituisce alla matrice tellurica: e in essa i minerali embrioni completano la propria crescita. Il vas mirabile dell’alchimista, le sue fornaci, le sue storte svolgono un ruolo ancora più ambizioso: questi apparecchi sono la sede di un ritorno al Caos primordiale, di una ripetizione della Cosmogonia; le sostanze vi muoiono e vi risuscitano per essere infine trasmutate in oro. Abbiamo analizzato l’aspetto spirituale dell’attività alchemica quanto basta per poterla ora studiare dall’esterno, come uno sforzo ordinato alla modificazione della materia. In quanto tale, questa attività prosegue l’impresa dell’artifex delle età preistoriche che ricorreva al fuoco per modificare la Natura, per creare forme nuove, in breve per collaborare con il Creatore, perfezionare la sua Creazione. La figura mitica del Fabbro Eroe civilizzatore africano non ha ancora perso il significato religioso del lavoro metallurgico: il Fabbro Celeste, come abbiamo visto, completa la creazione, organizza il mondo, fonda la cultura e guida gli esseri umani verso la conoscenza dei misteri.

È soprattutto per mezzo del fuoco che si “cambia la Natura”, ed è significativo che il dominio del fuoco si affermi tanto all’interno di quegli ambiti culturali che risentono dei progressi della metallurgia quanto nelle tecniche psico-fisiologiche che fondano le più antiche magie e mistiche sciama­niche conosciute. Fin da questo stadio arcaico della cultura, il fuoco è utilizzato come agente di “trasmutazione”: l’incombustibilità degli sciamani rivela che essi hanno superato la condizione umana, che essi partecipano alla condizione degli “spiriti” (la messa in scena rituale dei firetricks conferma e convalida periodicamente il prestigio degli sciamani). Come agente di trasmutazione, il fuoco è presente pure in alcune iniziazioni, di cui restano tracce nei miti e nelle leggende greche. Chi sa che il rito dell’incenerimento non traducesse anch’esso la speranza di una trasmutazione attraverso il fuoco? In tutti questi contesti magico-religiosi, il “dominio del fuoco” indica, d’altra parte, l’interesse per quella sfera che definiremo generalmente “spirituale”: lo sciamano se, più tardi, lo yogin o il mistico sono gli specialisti dell’anima, dello spirito, della vita interiore. Un simbolismo estremamente complesso associa le terrificanti teofanie ignee alle più soavi fiamme dell’amore mistico e alle epifanie luminose, ma anche agli innumerevoli “ardori” e alle “passioni” dell’anima. A livelli differenti, il fuoco, la fiamma, la luce abbagliante, il calore interiore esprimono sempre esperienze spirituali, l’incorporazione del sacro, la prossimità al Dio.

Fonditori, fabbri e alchimisti sono tutti “signori del Fuoco”, come tutti e tre, assecondando l’opera della Natura, precipitano il ritmo del Tempo e, in definitiva si sostituiscono ad esso. Senza dubbio, non tutti gli alchimisti ne erano coscienti; ma poco importa: l’essenziale è che la loro opera, la trasmutazione, implicava, sotto una qualunque forma, l’abolizione del Tempo. Come dice un personaggio di Ben Jonson, “il piombo e gli altri metalli sarebbero oro se avessero avuto il tempo di diventarlo”. E un altro alchimista aggiunge: “Ed è ciò che realizza la nostra arte.”

Ma, convinti di lavorare con la partecipazione di Dio, gli alchimisti consideravano la loro opera come un perfezionamento della Natura tollerato, se non incoraggiato, da Dio. Lontanissimi dalla ideologia degli antichi metallurghi e fabbri, essi conservavano, tuttavia, il medesimo atteggiamento nei confronti della Natura: per il minatore delle culture arcaiche come per l’alchimista occidentale, la Natura è una ierofania: essa non è soltanto “vivente”, è anche divina, o almeno ha una dimensione divina. È d’altronde grazie a questa sacralità della Natura — rivelata nell’aspetto “sottile” delle sostanze — che l’alchimista riteneva di poter ottenere sia la Pietra Filosofale, agente di trasmutazione, che l’Elisir dell’immortalità. Non torneremo sulla struttura iniziatica dell’opus alchymicum. Basti ricordare come l’affrancamento della Natura dalla legge del Tempo procedesse di pari passo con la liberazione dell’adepto.

L’alchimista occidentale raggiunge l’ultima tappa dell’antichissimo programma, avviato dall’homo faber fin dal giorno in cui si accinse a trasformare una Natura che egli considerava, secondo prospettive diverse, come sacra o suscettibile di essere ierofanizzata. Il concetto della trasmutazione alchemica è il coronamento favoloso della fede nella possibilità di cambiare la Natura attraverso il lavoro umano (lavoro che comporta sempre, non dimentichiamolo, un significato liturgico).

I princìpi dell’alchimia tradizionale, cioè la crescita dei minerali, la trasmutazione dei metalli, l’Elisir e l’obbligo al segreto, non furono contestati durante il Rinascimento e all’epoca della Riforma. Neppure nel diciottesimo secolo i dotti mettevano in discussione la crescita dei minerali. Essi si do­mandavano, tuttavia, se l’alchimia poteva aiutare la Natura in questo processo e, soprattutto, se “coloro che pretendevano di averlo già fatto erano persone oneste, stupidi o impostori”) [1]. Herman Boerhaave (1664-1739), considerato il più grande chimico “razionalista” del suo tempo, famoso per i suoi esperimenti strettamente empirici, credeva ancora nella trasmutazione dei metalli. E vedremo tra poco l’importanza dell’alchimia nella rivoluzione scientifica compiuta da Newton.

Tuttavia, l’orizzonte dell’alchimia medievale si alterò nell’impatto con il neoplatonismo e con l’ermetismo, le due gnosi filosofiche che acquistarono notevole rilievo con la loro riscoperta da parte di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola. La certezza che l’alchimia fosse in grado di assecondare l’opera della Natura acquisì un significato cristologico. Gli alchimisti affermarono allora che, proprio come Cristo aveva riscattato l’umanità attraverso la sua morte e la sua risurrezione, l’opus alchymicum poteva assicurare la redenzione della Natura. Un celebre ermetico del sedicesimo secolo, Heinrich Khunrath, identificava la Pietra Filosofale con Gesù Cristo, il “Figlio del Macrocosmo”; egli pensava inoltre che la scoperta della Pietra avrebbe svelato la vera natura del macrocosmo, come il Cristo aveva accordato la pienezza spirituale all’uomo, cioè al microcosmo [2]. La convinzione che l’opus alchymicum potesse salvare sia l’uomo che la Natura riprendeva il sogno di una renovatio radicale, che assillava il cristianesimo occidentale dopo Gioacchino da Fiore.

John Dee, il famoso alchimista, matematico ed enciclopedista nato nel 1527 che aveva assicurato l’imperatore Rodolfo II di possedere il segreto della trasmutazione, riteneva che una riforma spirituale di portata mondiale potesse essere effettuata grazie alle forze scatenate dalle “operazioni occulte”, in primo luogo dalle operazioni alchemiche [3]. Anche l’alchimista inglese Elias Ashmole vedeva nell’alchimia, nell’astrologia e nella magia naturalis il “Redentore” di tutte le scienze. In effetti, per i sostenitori di Paracelso e di Van Helmont, la Natura poteva essere compresa solamente attraverso lo studio della “filosofia chimica”, cioè della nuova alchimia, o della “vera Medicina” [4]. Era la chimica, non l’astronomia, che costituiva la chiave di decifrazione dei segreti del Cielo e della Terra. Poiché la creazione era spiegata come un processo chimico, i fenomeni celesti e terrestri potevano essere interpretati in termini chimici. Tenendo conto dei rapporti macrocosmo/ microcosmo, il “filosofo chimico” poteva apprendere tanto i segreti della Terra che quelli dei corpi celesti. Così Robert Fludd presentò una descrizione chimica della circolazione del sangue ricalcata sul movimento circolare del sole [5].

Come molti contemporanei, gli ermetici e i “filosofi chimici” attendevano, e alcuni di loro preparavano febbrilmente, una riforma generale e radicale di tutte le istituzioni religiose, sociali e culturali. La prima, indispensabile tappa di questa renovatio universale era la riforma del sapere. Un volumetto anonimo, Fama Fraternitatis, pubblicato nel 1614, rivendicava un nuovo modello educativo. L’autore rivelava l’esistenza di una società segreta, quella dei Rosacroce. Il suo fondatore, il leggendario Christian Rosenkreutz, padroneggiava i “veri segreti della medicina” e, conseguentemente, di tutte le altre scienze. Aveva scritto, in seguito, alcuni testi la cui circola­zione era limitata esclusivamente ai membri dell’ordine rosacrociano [6]. L’autore della Fama Fraternitatis si rivolgeva a tutti i dotti d’Europa, esortandoli a unirsi fraternamente per realizzare la riforma del sapere; in altri termini, per accelerare la renovatio del mondo occidentale. Questo appello ebbe un’eco senza pari. In meno di dieci anni, il programma propo­sto dalla misteriosa società dei Rosacroce fu dibattuto in diverse centinaia di libri e di opuscoli.

Johann Valentin Andreae, considerato da alcuni storici l’autore della Fama Fraternitatis, pubblicò nel 1619 Christianopolis, un’opera che influenzò, probabilmente, la New Atlantis di Bacone [7]. Andreae auspicava la costituzione di una comunità di dotti che lavorasse alla elaborazione di un nuovo metodo educativo basato sulla “filosofia chimica”. Nell’utopica Christianopolis, il centro degli studi è il laboratorio: là “si congiungono il Cielo e la Terra” e “si rivelano i misteri divini impressi sulla superficie del mondo” [8]. Tra i numerosi ammiratori della riforma del sapere auspicata dalla Fama Fraternitatis era anche Robert Fludd, membro del Royal College of Physicians, fervente adepto dell’alchimia mistica. Fludd sosteneva l’impossibilità di padroneggiare la filosofia naturale senza uno studio approfondito delle scienze occulte. Per Fludd, la “vera medicina” era il fondamento stesso della filosofia naturale. La conoscenza del microcosmo, cioè del corpo umano, ci rivela la struttura dell’universo e ci indirizza verso il Crea­tore. Inoltre, quanto meglio si conosce l’Universo, tanto più si avanza nella conoscenza di sé stessi [9].

Fino a pochi anni fa, non si conosceva il ruolo di Newton in questo movimento generale che mirava alla renovatio della religione e della cultura europea, attraverso una sintesi audace delle tradizioni occulte e delle scienze naturali. Newton non pubblicò mai i risultati dei suoi esperimenti alchemici, pur avendo dichiarato che alcuni di essi erano stati coronati da successo. I suoi numerosissimi manoscritti alchemici, ignorati fino al 1940, sono stati recentemente analizzati con cura da Betty Teeter Dobbs nel suo libro The Foundations of Newton Alchemy, edito nel 1975. La Dobbs afferma che Newton sperimentò nel suo laboratorio le operazioni descritte nell’immensa letteratura alchemica, “in una quantità mai raggiunta né prima né dopo di lui” [10]. Servendosi dell’alchimia, Newton sperava di scoprire la struttura del microcosmo, allo scopo di omologarlo al suo sistema cosmologico. La scoperta della gravità, la forza che trattiene i pianeti nelle loro orbite, non lo soddisfaceva completamente. Ma, pur proseguendo infaticabilmente gli esperimenti dal 1669 al 1696, non riuscì a identificare le forze che governano i corpuscoli. Tuttavia quando, verso il 1679-80, cominciò a studiare la dinamica del moto orbitale, egli applicò all’Universo le sue concezioni “chimiche” sull’attrazione [11].

Come hanno dimostrato McGuire e Rattansi, Newton era convinto che, al principio, “Dio comunicò ad alcuni privilegiati i segreti della filosofia naturale e della religione. In seguito questa conoscenza andò perduta, per essere però recuperata più tardi, quando fu incorporata in favole e formulazioni mitiche, in cui restò nascosta ai non iniziati. Ma, ai nostri giorni, queste conoscenze possono essere riscoperte attraverso l’esperienza, e in maniera ancora più rigorosa” [12].

Per questo motivo, Newton esaminò soprattutto le sezioni più esoteriche della letteratura alchemica, nella speranza che racchiudessero i veri segreti. È significativo che il fondatore della meccanica moderna non abbia rifiutato la tradizione di una rivelazione primordiale e segreta, così come non rifiutò neppure il principio di trasmutazione. “La trasformazione dei corpi in luce e della luce in corpi è pienamente conforme alle leggi della natura, perché la natura sembra affascinata dalla trasmutazione” [13]. Secondo la Dobbs, “il pensiero alchemico di Newton era così radicato che egli non negò mai la sua validità generale. In un certo senso, l’intera carriera di Newton dopo il 1675 può essere interpretata come un lungo sforzo per articolare l’integrazione tra l’alchimia e la filosofia meccanica” [14].

Dopo la pubblicazione dei Principia, gli avversari avevano dichiarato che le “forze” di Newton erano in realtà “qualità occulte”. La Dobbs riconosce che, in un certo senso, i critici avevano ragione:

Le forze di Newton somigliano molto alle simpatie e antipatie nascoste, di cui parla la letteratura dell’occultismo rinascimentale. Tuttavia, Newton aveva attribuito alle forze un regime ontologico equivalente a quello della materia e del movimento. Grazie a questa equivalenza, rafforzata dalla quantificazione delle forze, egli ha permesso ai filosofi meccanicisti di porsi al di sopra del livello dell’immaginario “impact mechanism” [15].

Analizzando la concezione newtoniana di forza, Richard Westfall giunge alla conclusione che la scienza moderna sia il risultato di un connubio tra la tradizione ermetica e la filosofia meccanicistica [16].

Nel suo spettacolare sviluppo, la scienza moderna ha ignorato, o respinto, l’eredità dell’ermetismo. In altre parole, il trionfo della meccanica di Newton ha finito per annullare il suo ideale scientifico. In effetti, Newton e i suoi contemporanei attendevano un modello completamente differente di rivoluzione scientifica. Proseguendo e sviluppando le speranze e gli obiettivi della neoalchimia rinascimentale, primo fra tutti la redenzione della Natura, personalità tanto diverse come Paracelso, John Dee, Comenio, J. V. Andreas, Fludd e Newton vedevano nell’alchimia il modello di un’impresa non meno ambiziosa, che realizzasse la perfezione dell’uomo attraverso un nuovo metodo del sapere. Un simile metodo avrebbe dovuto integrare in un cristianesimo non confessionale la tradizione ermetica e le scienze naturali, cioè la medicina, l’astronomia e la meccanica. Questa sintesi avrebbe costituito una nuova creazione cristiana, paragonabile agli straordinari risultati ottenuti con le precedenti integrazioni del platonismo, dell’aristotelismo e del neoplatonismo. Questo tipo di “sapere” sognato, e parzialmente elaborato nel diciottesimo secolo, rappresenta l’ultimo progetto “complessivo” che si tentò di realizzare nell’Europa cristiana. Analoghi sistemi di “pensiero totale” erano stati proposti in Grecia da Pitagora e da Platone e caratterizzano anche la cultura cinese tradizionale, in cui nessuna arte, scienza o tecnica era intelligibile senza presupposti e implicazioni cosmologiche, etiche e “esistenziali” [17].

Allorché l’alchimia scompare dall’attualità storica, la totalità del suo sapere empirico, valido chimicamente, viene integrata nella chimica, ma non è in questa giovane scienza che bisogna cercare la sopravvivenza dell’ideologia degli alchimisti. La nuova scienza chimica utilizza esclusivamente le loro scoperte empiriche che non costituiscono, per quanto numerose e importanti le si supponga, il vero senso dell’alchimia. Non si deve credere che il trionfo della scienza sperimentale abbia cancellato i sogni e gli ideali degli alchimisti. Al contrario, l’ideologia della nuova epoca, coagulata intorno al mito di un progresso illimitato, accreditato dalle scienze sperimentali e dal processo di industrializzazione, questa ideologia che domina e ispira tutto il diciannovesimo, secolo recupera e fa proprio, nonostante la sua radicale secolarizzazione, il sogno millenario dell’alchimista. È nel dogma caratteristico del diciannovesimo secolo, che la vera missione dell’uomo consista nel modificare, nel trasformare la Natura, che egli possa fare meglio e più in fretta di essa, che egli sia chiamato a diventare il suo signore, è in questo dogma, dunque, che bisogna cercare la ripresa autentica del sogno degli alchimisti. Il mito soteriologico del perfezionamento e, in prospettiva, della redenzione della Natura sopravvive, occultato, nel programma patetico delle società industriali, che mirano alla “trasmutazione” totale della Natura, alla sua trasformazione in “energia”. Nel diciannovesimo secolo, dominato dalle scienze fisico-chimiche e dal decollo industriale, l’uomo giunge a sostituirsi al Tempo, nei suoi rapporti con la Natura. Si realizza allora, in proporzioni fino a quel momento inimmaginabili, il suo desiderio di precipitare i ritmi temporali, attraverso uno sfruttamento sempre più rapido ed efficace delle miniere, dei giacimenti di carbon fossile, delle risorse petrolifere; ed è soprattutto allora che la chimica organica, interamente mobilitata a forzare il segreto dei fondamenti organici della Vita, apre la via agli innumerevoli prodotti “sintetici”. Veniva così dimostrato, per la prima volta, come sia possibile abolire il Tempo, preparare in laboratorio e in fabbrica sostanze in quantità tali che la Natura avrebbe impiegato millenni per ottenerle. Ed è noto fino a che punto la “preparazione sintetica della vita”, persino nell’umile forma di qualche cellula di protoplasma, fosse il sogno supremo della scienza durante tutta la seconda metà del diciannovesimo secolo fino ai primi anni del ventesimo: si trattava ancora una volta di uno sogno alchemico, quello dell’omuncolo.

Sul piano della storia della cultura, si può quindi affermare che gli alchimisti, nel loro desiderio di sostituirsi al Tempo, hanno anticipato quanto vi è di essenziale nell’ideologia dell’uomo moderno. La chimica ha raccolto solo insignificanti frammenti dell’eredità alchemica. Il nucleo di questa eredità si trova altrove, nelle ideologie letterarie di Balzac, di Victor Hugo, dei naturalisti, nei sistemi dell’economia politica capitalistica, liberale e marxista, nelle teologie secolarizzate del materialismo, del positivismo, del progresso infinito, ovunque insomma risplenda la fede nelle possibilità illimitate dell’Homo faber, ovunque si manifesti il significato escatologico del lavoro, della tecnica, dello sfruttamento scientifico della Natura. E, a guardar meglio, si scopre che questo entusiasmo frenetico si nutre soprattutto di una certezza: dominando la Natura attraverso le scienze fisico-chimiche, l’uomo si sente capace di rivaleggiare con essa, ma senza dispersione di tempo. D’ora in poi saranno la scienza e il lavoro a compiere l’opera del Tempo. Con ciò che riconosce in sé come veramente essenziale, la sua intelligenza applicata e la sua capacità di lavoro, l’uomo moderno assume la funzione della durata temporale, in altre parole si sostituisce al Tempo.

Non svilupperemo né continueremo queste poche osservazioni relative all’ideologia e alla situazione dell’Homo faber nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo. Vogliamo solo mostrare che è nella sua fede nella scienza sperimentale e nei suoi grandiosi progetti industriali che si devono cercare le tracce dei sogni degli alchimisti. L’alchimia ha dato al mondo moderno molto più di una chimica rudimentale: gli ha trasmesso la sua fede nella trasmutazione della Natura e la sua ambizione di dominare il Tempo. Certo, questa eredità è stata intesa e realizzata dall’uomo moderno su un piano ben diverso da quello dell’alchimista. Questi si comportava ancora come l’uomo arcaico, per il quale la Natura era una fonte di ierofanie e il lavoro costituiva un rituale. Ma la scienza moderna si è potuta costituire solo attraverso una desacralizzazione della Natura; i fenomeni scientifici validi si manifestano a prezzo della scomparsa delle ierofanie. Le società industriali hanno perduto ogni rapporto con un lavoro liturgico, solidale ai riti dei mestieri. Questo tipo di lavoro è divenuto impraticabile in un’officina, non foss’altro che per la mancanza di una iniziazione possibile, per la mancanza di una “tradizione” industriale.

Sottolineeremo anche un altro fatto. Pur sostituendosi al Tempo, l’alchimista si guardava bene dall’accettarne le regole; sognava di precipitare i ritmi temporali, di fare l’oro più velocemente della Natura, ma, da buon filosofo o mistico che fosse, l’alchimista aveva paura del Tempo, non si riconosceva come un essere essenzialmente temporale, aspirava alle beatitudini del Paradiso e sognava l’eternità, perseguiva l’immortalità, l’Elixir Vitae. Sotto questo aspetto, l’alchimista si comportava come tutta l’umanità premoderna che, con ogni mezzo, eludeva la coscienza dell’irreversibilità del Tempo, sia “rigenerandolo” periodicamente attraverso la ripetizione della cosmogonia, sia santificandolo attraverso la liturgia, sia “dimenticandolo”, rifiutandosi, cioè, di prendere in considerazione gli intervalli profani tra due azioni significative, e, di conseguenza, sacre. Bisogna ricordare soprattutto che l’alchimista “dominava il Tempo” quando reiterava simbolicamente, nei suoi apparecchi, il caos primordiale e la cosmogonia e quando subiva “la morte e la risurrezione” iniziatiche. Ogni iniziazione era una vittoria sulla morte, cioè sulla tempora­lità: l’iniziato si proclamava “immortale”, si era forgiato un’esistenza post mortem che dichiarava indistruttibile.

Ma non appena il sogno individuale dell’alchimista fu realizzato da un’intera società, proprio sull’unico piano su cui fosse collettivamente realizzabile, quello delle scienze fisico-chimiche e dell’industria, la difesa dal Tempo cessò di essere possibile. La tragica grandezza dell’uomo moderno è legata al fatto che, per primo, egli ha avuto l’audacia di assumere, nei confronti della Natura, il ruolo del Tempo. Abbiamo visto come le sue spettacolari conquiste realizzino, su un piano completamente diverso, i sogni degli alchimisti. Ma c’è ben altro: l’uomo delle società moderne ha finito per accettare il Tempo non solo nei suoi rapporti con la Natura, ma anche nei riguardi di sé stesso. Sul piano filosofico, egli si è riconosciuto essenzialmente, e talvolta addirittura esclusivamente, un essere temporale, costituito dalla temporalità, votato alla storicità. E il mondo moderno nella sua totalità, nella misura in cui rivendica la propria grandezza e si fa carico del proprio dramma, percepisce la propria identità con il Tempo, quell’identità che egli è stato indotto a riconoscere, nel diciannovesimo secolo, per le pressioni della scienza e dell’industria, e del dogma da loro proclamato secondo cui l’uomo può fare meglio e più velocemente della Natura, a condizione di penetrarne con l’intelligenza i segreti e di supplire con il proprio lavoro il Tempo, quelle molteplici durate temporali (i ritmi geologico, botanico, animale) che la Natura richiede per portare a compimento le sue opere. La tentazione era troppo forte perché si potesse resisterle: per svariati millenni gli uomi­ni hanno sognato di fare più in fretta della Natura. Come immaginare che l’uomo esitasse di fronte alle favolose prospettive che le sue stesse scoperte gli dischiudevano? Ma non dobbiamo nascondercene il prezzo ineluttabile: non era possibile sostituirsi al Tempo senza condannarsi per ciò stesso implicitamente a identificarsi con esso, a svolgere il suo ruolo anche a proprio dispetto. L’opera del Tempo poteva essere sostituita solo dal lavoro intellettuale e manuale, anzi soprattutto da quello manuale! Senza dubbio, l’uomo è da sempre condannato al lavoro, ma c’è una differenza fondamentale: per fornire l’energia necessaria a realizzare i sogni e le ambizioni del diciannovèsimo secolo, il lavoro si è dovuto secolarizzare. Per la prima volta nel corso della sua storia, l’uomo ha assunto questo durissimo lavoro “per fare meglio e più in fretta della Natura” senza più disporre di quella dimensione liturgica che, in altre società, rendeva il lavoro sopportabile. E in questo lavoro definitivamente secolarizzato, lavoro allo stato puro, calcolato in ore e unità di energia spese, l’uomo percepisce nel modo più implacabile la durata temporale, la sua lentezza e il suo peso. Insomma, l’uomo delle società moderne ha assunto, nel senso letterale di questo termine, il ruolo del Tempo: egli si esaurisce in questo lavoro che sostituisce il Tempo, è divenuto un essere esclusivamente temporale. E poiché l’irreversibilità e la vacuità del Tempo sono divenute un dogma per tutto il mondo moderno, esattamente per tutti coloro che non si riconoscono più solidali all’ideologia giudaico-cristiana, la temporalità assunta e sperimentata dall’uomo si traduce, sul piano filosofico, nella coscienza tragica della vanità dell’esistenza umana. Fortunatamente le passioni, le immagini, i miti, i giochi, gli svaghi, i sogni — per non parlare della religione, che non appartiene all’orizzonte culturale dell’uomo moderno — impediscono a questa coscienza tragica di imporsi anche su altri piani, oltre quello filosofico. Queste considerazioni non sono finalizzate a una critica del mondo moderno, né a un elogio di altre società, arcaiche o esotiche. Si possono criticare molti, aspetti della società moderna, come si possono criticare aspetti particolari delle altre società, ma ciò è assolutamente estraneo ai nostri scopi. Noi abbiamo solamente inteso mostrare in quale senso le idee cardine dell’alchimia, radicate nella preistoria, persistano nell’ideologia del diciannovesimo secolo, e con quali conseguenze. Quanto alle crisi del mondo moderno, bisogna tener conto del fatto che questo mondo inaugura un tipo di civiltà assolutamente originale. È impossibile prevederne gli sviluppi futuri. Ma è opportuno ricordare che la sola rivoluzione che gli possa essere paragonata nel passato dell’umanità, la scoperta dell’agricoltura, ha provocato rivolgimenti e sincopi spirituali di cui noi possiamo difficilmente immaginare la gravità. Un mondo venerabile, quello dei cacciatori nomadi, scompariva assieme alle sue religioni, alle sue mitologie, alle sue concezioni morali. Furono necessari alcuni millenni per spegnere definitivamente i lamenti dei rappresentanti del “vecchio mondo”, condannato a morte dall’agricoltura. Si deve anche supporre che la profonda crisi spirituale provocata dalla decisione dell’uomo di fermarsi e di legarsi alla terra abbia richiesto diversi secoli per essere completamente integrata. È impossibile immaginare il “sovvertimento di tutti i valori” che ha avuto luogo in seguito alla transizione da una condizione nomade a un’esistenza sedentaria; è impossibile soprattutto immaginarne le ripercussioni psicologiche e spirituali.

Ora, le scoperte tecniche del mondo moderno, il suo do­minio del Tempo e dello Spazio rappresentano una rivoluzione di proporzioni analoghe e di cui noi siamo ben lontani dall’aver integrato le conseguenze. La desacralizzazione del lavoro costituisce in particolar modo una piaga aperta nel corpo delle società moderne. Niente ci impedisce comunque di pensare che si possa produrre, in futuro, una nuova sacralizzazione. Quanto al carattere temporale della condizione umana, questa rappresenta una scoperta ancora più grave. Ma una riconciliazione con la temporalità resta possibile, a condizione che si elabori una più corretta concezione del Tempo. Non è però questo il luogo in cui affrontare simili problemi. Intendevamo solamente mostrare che la crisi spirituale del mondo moderno conta anche, tra le sue lontane premesse, i sogni demiurgici dei metallurghi, dei fabbri e degli alchimisti. È opportuno che la coscienza storiografica dell’uomo occidentale scopra la sua solidarietà con gli atti e gli ideali di questi antichissimi antenati, anche se l’uomo moderno, erede di tutti questi miti e di tutti questi sogni, non è riuscito a realizzarli se non perdendo i loro significati originari.


[1] Betty J. Teeter Dobbs, The Foundations of Newton’s Alchemy (1975) p. 44.

[2] Ibid., p. 54.

[3] P. French, John Dee (Londra 1972); R. J. W. Evans, Rudolf II and his world (1975) p. 218 sgg.; Frances Yates, The Rosicrucian Enlightment (Londra 1972) pp. 37 sg. [trad. it. L’illuminismo dei Rosa-Croce (Einaudi, Torino 1977)].

[4] A. C. Debus, Alchemy and the Historian of Science, Hist. Sci., vol. 6, 134 (1976).

[5] A. C. Debus, The Chemical Dream of Renaissance (Cambridge 1968) pp. 7, 14 sg.

[6] Ibid., pp. 17 sg. Sulla Fama e la letteratura rosacrociana, vedi la Nota bibliografica 15. Osserviamo incidentalmente che, agli inizi del secolo dodicesimo, sì ritrova lo stesso scenario che caratterizzava i testi cinesi, quelli tantrici e quelli ellenistici: una rivelazione primordiale, riscoperta recentemente ma riservata unicamente agli iniziati.

[7] Vedi Christianopolis, an Ideal State of the Seventeenth Century, trad. a cura di F. E. Held (Londra e New York 1916). Vedi anche Yates, op. cit., pp. 145 sg. Debus, The Chemical cit., pp. 19 sg. e la Nota bibliografica 15.

[8] Christianopolis, pp. 196 sg. della traduzione di Held.

[9] R. Fludd, Apologia Compendiaris Fraternitatem de Rosea Cruce Suspicionis et Infamiae Maculis Aspersam, Veritatis quasi Fluctibus abluens et abstergens (Leida 1616) pp. 88-93, 100-103, citato da Debus, The Chemical cit., pp. 22 sg.

[10] Dobbs, op. cit., p. 88.

[11] R. S. Westfall, Newton and the Hermetic Tradition, in “Science, Medicine and Society in the Renaissance. Essays to honor Walter Pagel”, a cura di A. G. Debus (New York 1972) vol. 2, pp. 183-98 e in particolare 193 sg. Vedi anche Dobbs, op. cit., p. 211.

[12] Dobbs, op. cit., p. 90, che cita l’articolo di E. McGuire e P. M. Rattansi, Newton and the “Pipes of Pan”, Notes Rec. R. Soc. Lond., vol. 21, pp. 108-43 (1966).

[13] Opticks (1704) citato da Dobbs, op. cit., p. 231.

[14] Dobbs, op. cit., p. 230.

[15] Ibid., p. 211.

[16] R. S. Westfall, Force in Newton’s Physics. The Science of Dynamics in the Seventeenth Century (Londra e New York 1971) pp. 377-91; Dobbs, op. cit., p. 211.

[17] Ritorneremo su questo problema nel terzo volume della nostra Histoire des croyances et des idées religieuses.

Mircea Eliade, Arti del metallo e alchimia, Boringhieri, Torino 1982, tr. it. di Francesco Sircana, pp. 152-165.