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Embrione umano

Anno di redazione: 
2002
Roberto Colombo

I. Lineamenti per uno statuto biologico dell'embrione umano - II. La questione dello statuto ontologico dell'embrione - III. Confronto fra la prospettiva ontologica e quella biologica - IV. Il dibattito contemporaneo circa l'utilizzo di cellule staminali da embrioni e da organismi adulti.

All'interno dei temi di pertinenza della bioetica, della teologia morale speciale e del biodiritto, la questione della vita umana prenatale ha occupato uno spazio assai rilevante che potrebbe apparire ad alcuni perfino eccessivo. Sull'argomento il Magistero della Chiesa cattolica è più volte tornato con documenti di particolare autorità e profondità, senza dimenticare i numerosi discorsi dei romani pontefici e i frequenti interventi dell'episcopato mondiale. A livello delle altre confessioni cristiane e dell'ebraismo c'è da registrare una più modesta ma interessante produzione documentaria e di studio, cui va aggiunto il contributo proveniente dalla riflessione dalle religioni non cristiane. La tematica ha riscosso una notevole attenzione anche da parte del pensiero cosiddetto "laico", nei confronti del quale la posizione della riflessione cattolica trova alcuni punti d'incontro, ma anche altri di notevole contrasto, dando origine negli ultimi anni ad un dibattito etico-scientifico che ha reso molto vivace la discussione, ma arduo il tentativo di elaborare un completo status quaestionis . In questo contributo riprenderemo le linee essenziali dell'approccio biologico alla natura dell'embrione umano (Sezione I), esporremo alcune fra le principali prospettive che ne discutono lo statuto ontologico (Sezione II), per proporne poi un breve confronto (Sezione III) ed occuparci infine di alcuni temi di attualità in relazione al possibile utilizzo di cellule staminali provenienti da embrioni umani (Sezione IV).

  

I. Lineamenti per uno statuto biologico dell'embrione umano

Esporremo qui sinteticamente il quadro delle conclusioni che riteniamo scaturiscano dall'analisi scientifica dei dati biomedici sulla riproduzione e lo sviluppo dell'uomo oggi a nostra disposizione, quadro entro il quale è possibile identificare gli elementi conoscitivi essenziali per fondare uno "statuto biologico" dell'embrione. La nostra trattazione sarà necessariamente solo esemplificativa, non essendo possibile in questa sede affrontare tutte le questioni sollevate dal dibattito in corso.

1. L'inizio della vita umana. L'attuale vita umana cellulare (non individuale) ha avuto inizio con la comparsa sulla terra dell' Homo sapiens sapiens , e si è sviluppata sul nostro pianeta senza soluzione di continuità da decine di migliaia di anni. La vita umana organismica (individuale), presente anch'essa sulla terra da quando esiste la nostra specie, mostra invece - nel suo ciclo vitale che la definisce - due punti di massima discontinuità, che sono rappresentati dalla fertilizzazione e dalla morte organismica. Con la fusione dei gameti umani, uno materno e l'altro paterno, e la ricostruzione di un diverso corredo cromosomico diploide, inizia ad esistere un nuovo organismo maschile o femminile, dapprima e per brevissimo tempo unicellulare (zigote) e successivamente pluricellulare. La prima cellula di ogni organismo umano è dotata di un nuovo genoma (struttura informazionale determinata dalle sequenze nucleotidiche del DNA), che caratterizza genotipicamente l'organismo con un'identità specifica (appartenenza alla specie umana) e individuale (singolarità rispetto agli organismi dei genitori, dei familiari e di altri individui della stessa specie umana). Se è vero che il genotipo individuale (individualità genetica) non gode di un'unicità sempre assoluta, come mostra il caso dei gemelli monozigoti (vedi infra , n. 5), i quali possono avere un genoma identico (cfr. Yukota et al., 1994), è altrettanto certo che il fenotipo - che costituisce l'identità organismica in ogni fase del ciclo vitale - è assolutamente unico e irripetibile. Esso è infatti determinato dall'interazione di due variabili tra loro indipendenti: il genotipo, espressione del genoma, e l'ambiente, somma di tutti i fattori estrinseci all'espressione del genoma ma che esercitano all'interno o all'esterno dell'organismo umano un'influenza fisica, chimica, biologica, psicologica o culturale. L'eventuale identità del primo fattore (genotipo), come nel caso dei gemelli monozigoti geneticamente identici, non annulla la variazioni ambientali interne ed esterne che sopravvengono nel corso dei distinti cicli vitali dei gemelli, rendendo così impossibile una completa uguaglianza fenotipica.

2. Identità specifica e natura dell'embrione. Il cariotipo umano, con il suo specifico genoma, sin dalla fusione dei pronuclei nel processo di fertilizzazione identifica biologicamente, cioè geneticamente, la "natura" dell'organismo umano dell'embrione, intesa come "capacità naturale" - intrinseca e informazionalmente autonoma - di sviluppare un essere che potrà manifestare solo ciò che naturalmente è. Tale successiva manifestazione, che permetterà di riconoscere la "natura" propriamente "razionale" e non solo "animale", dell'essere umano, dovrà passare attraverso la piena attuazione delle sue facoltà omeostatiche, somatosensoriali e mentali, cosa che normalmente avviene, in presenza di condizioni idonee, nel bambino dopo la nascita, e ancor più nell'uomo maturo.

La "capacità naturale" di attuare un ciclo vitale biologicamente specifico dell'uomo esclude, sin dallo stadio unicellulare, ogni indeterminatezza a proposito della natura dell'embrione umano. Scrive a questo proposito Lambertino (1993): «Benché non abbia ancora raggiunto il terminus ad quem del dinamismo intrinseco, è un terminus a quo già destinato ex natura sua a tradursi nel terminus ad quem ; e non in un qualsiasi terminus ad quem , ma soltanto in quello che corrisponde alle indicazioni ontologiche della sua natura» (p. 127). La "capacità naturale", in sé necessaria ma non sufficiente, potrà eventualmente - per cause intrinseche (genetiche) o estrinseche (ambientali) - non dare luogo a sviluppo completo (aborti cosiddetti spontanei), indurre uno sviluppo degenerativo (moli idatiformi, teratomi), oppure condurre ad uno sviluppo anomalo (patologie congenite) talora non in grado di manifestare pienamente la "natura razionale" del soggetto. Ma non potrà mai determinare lo sviluppo di un organismo naturalmente diverso da quelli della specie umana. La tesi che tale capacità naturale costituisca l'embrione umano nello status di "essere animato", ritenendo che già la fertilizzazione realizzi quella necessaria "disposizione" della "materia" biologica (organismo) a ricevere la forma corporis (anima), non sembra essere contraddetta da alcun elemento biologico, ed appare invero assai ragionevole e convincente (cfr. Ashley, 1976, pp. 121-126).

3. Lo sviluppo dell'organismo umano. Il processo di sviluppo inizia nella forma di rapido succedersi di cariocinesi mitotiche e segmentazioni cellulari, e prosegue poi nelle modalità della compattazione, della cavitazione, della differenziazione delle linee cellulari embrioblastica e trofoblastica, e della formazione dei tre foglietti cellulari dai quali si svolgeranno l'istogenesi e la morfogenesi che conducono, entro l'8ª e 9ª settimana, alla completa definizione delle strutture somatiche fondamentali del feto, pur avendo quest'ultimo dimensioni ancora molto piccole. Tale processo prende avvio, senza soluzione di continuità, dalla fertilizzazione (singamia), e non subisce - se non intervengono fattori negativi - alcun arresto lungo tutta la fase che precede, accompagna e segue l'impianto dell'embrione nell'endometrio dell'utero materno. Questo processo complesso, continuo, altamente coordinato e ordinato teleologicamente alla formazione di un individuo adulto è, sin dalla penetrazione dello spermatozoo nell'oocita (più precisamente dalla fusione della sua testa con l'oolemma) frutto dell'immediata attivazione biochimica dell'oocita da parte del gamete maschile e della successiva graduale attivazione genetica del nuovo corredo cromosomico diploide. Indicato con il termine «sviluppo» o «epigenesi», esso prevede la progressiva, graduale e completa espressione del piano morfofunzionale organismico già tutto "contenuto" (nel senso "informazionale" e non "materiale" o "preformistico" del termine) nel patrimonio genetico costituitosi con la singamia. L'espressione attiva di questo "contenuto" genetico-informazionale è mediata, cioè resa materialmente possibile, dall'interazione che avviene inizialmente con il materiale extranucleare dell'oocita e, successivamente, con le componenti dell'embrione (cellule, matrice extracellulare, tessuti, organi), nonché con l'ambiente ad esso esterno. Quest'ultimo potrà essere quello intracorporeo materno (biochimico prima dell'impianto e anche istologico-organico dopo l'impianto) e, dalla nascita, quello extracorporeo. In nessun caso, se si esclude una manipolazione genetica artificiale indotta, il contributo dell'ambiente è di tipo propriamente informazionale.

4. Cellularità e organismicità dei blastomeri. Secondo alcuni autori, una descrizione scientifica del concepito nei primissimi stadi del suo sviluppo (almeno, si dice, fino alla "compattazione" nella struttura morulare) vedrebbe nell'embrione un ammasso di cellule individuali distinte, ciascuna come un'entità a sé in semplice contatto con le altre, racchiuse nella zona pellucida. Tali cellule identiche e contigue non costituirebbero un solo individuo vivente, ma ognuna di esse si comporterebbe come un individuo, manifestando una certa autonomia ed organizzazione centrale (cfr. N.M. Ford, Quando ho cominciato ad esistere? , in "Quale statuto per l'embrione umano? Problemi e prospettive", Milano 1992, pp. 22-29). Dopo lo stadio di 8-16 cellule, la "fusione" intercellulare provvederebbe a porre fine a questa condizione: fino a quel momento, ogni cellula sarebbe, secondo tali autori, un'entità "totipotente", cioè capace di produrre un feto completo (cfr. M.J. Coughlan, The Vatican, the Law and the Human Embryo , Basingstoke 1990, pp. 69-70). Tale visione porta a negare la "natura biologica di organismo" all'embrione pre-morulare, per assegnargli quella di un "mero insieme di cellule".

In realtà, ciò non corrisponde a quanto oggi sappiamo sia dallo studio della morfologia strutturale e ultra-strutturale e delle interazioni tra le singole componenti cellulari ed extracellulari, sia dallo studio dello sviluppo in vitro degli embrioni precoci. Per quanto riguarda l'organismicità dell'embrione basterà ricordare che la sua struttura - come si rileva facilmente anche dalla sola osservazione in microscopia ottica - non è affatto quella, schematica e riduttiva, di un insieme di elementi sferici (blastomeri), tangenzialmente a contatto tra loro, sospesi in un contenitore (zona pellucida) la cui unica funzione sembra quella di impedirne la fuoriuscita dalla struttura embrionaria, supposta una loro naturale tendenza a separarsi. Questo modello interpretativo di tipo "geometrico-fisico" tradisce la reale complessità biologica dell'embrione pre-morulare, nel quale si evidenzia la presenza di una matrice extracellulare - tipica dei tessuti degli organismi pluricellulari - che avvolge i blastomeri già dotati di numerosi punti di adesione, e si va documentando un ruolo non solo contenitivo ma anche funzionale per la zona pellucida (cfr. Pereda et al., 1989; Dale et al. 1991; Gualtieri et al. 1992).

Per quanto riguarda la totipotenzialità dei blastomeri occorre innanzitutto chiarire il significato citologico-embriologico dell'aggettivo «totipotenziale». Esso non denota alcuna propensione spontanea a separarsi dal resto dell'embrione per darne origine ad uno nuovo, evento questo possibile ma non normalmente determinato dal piano di sviluppo dell'embrione umano, e che richiede l'intervento di ulteriori fattori causali, intrinseci od estrinseci all'embrione stesso. Le qualifiche di «totipotente» o di «multipotente» si riferiscono anzitutto alla capacità dei primi blastomeri di "riorientarsi" rispetto all'iniziale indirizzo già acquisito, se cambiate di posizione all'interno dello stesso embrione o trapiantate in un altro embrione, e solo secondariamente (eventualmente) alla possibilità che essi hanno di percorrere l'intero successivo processo di sviluppo una volta che siano stati isolati (cfr. Slack, 1991, p. 19). Anche la lisi della zona pellucida, come dimostrano gli esperimenti in vitro , non è per se stessa sufficiente ad indurre un'immediata e spontanea disaggregazione dei blastomeri, i quali tendono ad aderire tra loro e a rimanere nella posizione originaria se non intervengono ulteriori fattori fisici o chimici (cfr. Suzuki et al., 1995).

5. Gemellazione monozigotica, determinazione epigenetica e individualità embrionale. Tra le eventualità dello sviluppo embrionale umano, il fenomeno della gemellanza monozigotica è il più controverso, sia sotto il profilo della spiegazione scientifica del processo ontogenetico (cfr. Serra, 1993, pp. 89-93) che dal punto di vista dell'interpretazione meta-biologica del fenomeno. Esso costituisce per alcuni filosofi e teologi un'obiezione apparentemente insormontabile all'individualità dell'embrione fino allo stadio di sviluppo in cui l'evento può ancora verificarsi, che viene fatto coincidere con la seconda settimana di vita. Secondo alcuni, lo zigote o l'embrione precoce non può essere ontologicamente un individuo umano perché «ha la capacità di diventare due individui umani» (cfr. N.M. Ford, When did I begin? , Cambridge 1988, p. XVI): l'assenza di individualità escluderebbe l'applicabilità della nozione boeziana di persona, che presuppone una individua substantia .

L'obiezione si fonda sull'asserto, di ordine filosofico, secondo cui l'individuazione di un vivente si dà solo in assenza della possibilità biologica di dividersi in due o più altri viventi. Nei confronti di questa posizione va innanzitutto rilevata un'applicazione semplicistica della logica matematica nei confronti di un ente biologico che non è definibile puntualmente e sincronicamente, bensì fisicamente (massa organica) e diacronicamente (ciclo vitale), ed anche nei confronti di un processo biologico complesso che non è riducibile ad una operazione algebrica, ma deve essere compreso secondo la modalità attraverso la quale realmente avviene. L'obiezione inoltre si basa sulla confusione tra unità aritmetica e unità metafisica, la cui distinzione veniva già posta convincentemente da Tommaso d'Aquino (cfr. Summa Theologiae , I, q. 11, a . 1, ad 2um ) e più recentemente ripresa da Henri Bergson (cfr. L'évolution créatrice , in Oeuvres , Paris 19844 , pp. 505-506).

Qualunque sia il processo che porta alla formazione dei gemelli monozigoti, non si tratta comunque della divisione di un organismo in due organismi identici, tale che il primo non sussista più e al suo posto ne esistano due, discontinui e indistinguibili per rapporto al primo. Al contrario, la separazione di un blastomero o di una massa cellulare da un embrione per dare origine ad un secondo embrione lascia l'embrione originario - fosse ora anche composto da un solo blastomero - nella propria identità fisica e spazio-temporale, anche se non nell'integrità morfologica cui lo sviluppo unitario lo aveva condotto. E si creano contemporaneamente le condizioni per la formazione di un nuovo embrione individuale, che inizi la propria esistenza biologica con il costituirsi di un secondo "piano di sviluppo".

Un altro difetto dell'obiezione della gemellanza monozigotica può essere rilevato considerando che la nozione di «individuo» viene analiticamente applicata al caso dell'embrione secondo la duplice connotazione formale dell'unità e della separazione. Ma in ragione della multilivellarità della sua struttura, un'unità di carattere organico è sempre relativa, e dunque non in grado di fondarne ontologicamente l'individualità; inoltre la separabilità di un vivente, a motivo delle sue interazioni con l'ambiente, non è una proprietà dell'ente biologico, ma piuttosto una rappresentazione di esso. L'unità non è predicabile della materia vivente come tale, ma dell'essere. Esso struttura l'ente in un aliquid e lo fa permanere tale, distinto dagli altri per singolare rapporto con se stesso lungo il suo svilupparsi nello spazio e nel tempo. Tutto l'embrione, "in quanto è", è immediatamente unum e aliquid , cioè un individuo. Qualunque sia lo stadio della sua organizzazione cellulare e molecolare, il vivente è in relazione con se stesso, e questa relazione è ontologicamente fondata nella sua unità, che attua la ricchezza originale dell'essere. Se nel corso del suo precoce sviluppo embrionale il distacco di uno o più blastomeri o successivamente, allo stadio di blastociste, la divisione ( splitting ) della massa cellulare interna dà luogo ad un altro vivente della stessa natura (embrione cogemello), anche questo è un essere, anch'esso è un unum e un aliquid , cioè un individuo.

6. Un'unica storia. Nel pensare l'individuazione a partire dalle proprietà trascendentali dell'essere, la ragione teoretica inscrive l'identità reale nella differenza più fondamentale, che gioca parimenti sul piano biologico e su quello ontologico. Il "luogo" proprio di questa differenza è la storia, attraverso la quale l'essere attua la sua essenza nel tempo con il divenire, così che l'embrione è istantaneamente e simultaneamente un individuo biologico e un individuo metafisico, e l'inizio nel tempo di un individuo biologico (organismo) coincide con l'inizio dell'individuo metafisico (persona). Quest'"unica storia" ha inizio, e continuerà ad essere descritta, nei capitoli della genetica e dell'embriologia, ma fu lucidamente intravista da s. Vincenzo di Lerins, che nel V secolo scriveva nel suo Commonitorium: «I corpi, pur crescendo e sviluppandosi con l'andare degli anni, rimangono i medesimi di prima. Vi è certamente molta differenza fra il fiore della giovinezza e la messe della vecchiaia, ma sono gli stessi adolescenti di una volta quelli che diventano vecchi. Si cambia quindi l'età e la condizione, ma resta sempre il solo medesimo individuo. Unica e identica resta la natura, unica e identica la persona. [.] Niente di nuovo si riscontra negli adulti che non sia già stato presente nei fanciulli, sia pure allo stato embrionale. Non vi è alcun dubbio in proposito. Questa è la vera e autentica legge del progresso organico. Questo è l'ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita. Nell'età matura si dispiega e si sviluppa in forme sempre più ampie tutto quello che la sapienza del Creatore aveva formato in antecedenza nel corpicciolo del piccolo» ( Commonitorium Primum , 33: PL 50, 668).

  

II. La questione dello statuto ontologico dell'embrione

1. Introduzione e posizione del problema. La questione dello «statuto ontologico» dell'embrione umano equivale a porre le domande: che "essere" sono l'embrione e il feto umano? Si tratta dello stesso "essere" che noi ordinariamente riconosciamo nel neonato, nel bambino e nell'adulto? Oppure abbiamo a che fare con un "essere" diverso, simile o non ancora uguale? Quando e come ha inizio la vita di un "essere umano" quale siamo noi?. La questione è oggi molto dibattuta, non tanto per il suo intrinseco interesse teorico, ma piuttosto per le implicazioni pratiche che ne deriverebbero circa il "rispetto" dovuto all'embrione e al feto umano, e in merito alla loro tutela giuridica. La domanda ontologica suppone dunque l'interesse pratico per un'altra domanda, quella etica: che tipo di "rispetto" - o, meglio, che "cura", che "amore", che "accoglienza" - dobbiamo avere nei confronti dell'embrione e del feto umano?. I soggetti coinvolti nella pratica da questa seconda questione sono diversi: la coppia generatrice, la gestante in particolare, i medici ed il personale ostetrico; inoltre, da alcuni anni a questa parte, i medici e i biologi impegnati nelle tecniche di procreazione assistita e i ricercatori che svolgono indagini sulla fertilizzazione e lo sviluppo umano prenatale; e infine anche il legislatore sanitario.

Affrontare la questione morale dei doveri verso l'embrione e il feto non sembra però dipendere, né logicamente né fondativamente, dalla preliminare e certa soluzione della questione ontologica, come hanno mostrato sia il recente Magistero cattolico (cfr. CDF, Quaestio de abortu procurato , EV 5, 674; Donum vitae , EV 10, 1174-1179; Evangelium vitae , 60), sia alcuni documenti "laici", come ad esempio il Rapporto Warnock (tr. it. in Quali frontiere per la vita? , a cura di D. Tettamanzi, Milano 1985). Il primo, adottando la via tuzioristica, giunge ad affermare con Giovanni Paolo II che «basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano» ( Evangelium vitae , 60). I secondi, scegliendo la via utilitaristica, accordano invece un grado di protezione diverso a seconda dei presunti interessi della coppia generatrice, del nascituro o della ricerca scientifica: alla vita dell'embrione e del feto non è riconosciuto un valore intrinseco, ma solo strumentale.

La rilevanza dello statuto ontologico in ordine allo "statuto morale" e a quello "giuridico", pur non essendo decisiva non può tuttavia essere facilmente sminuita: sapere che cosa o chi è un determinato essere non risulta indifferente per stabilire come trattarlo, anche se il nostro comportamento verso di esso richiede l'ulteriore riconoscimento di un "bene" e di un "male" nei suoi confronti (cfr. Angelini, 1991, pp. 152-157). Occorre però registrare che all'antico e forte rapporto tra esse e bonum , tra ontologia e morale, si è oggi frequentemente sostituita una nuova e debole relazione tra factum e bonum . Il sapere sperimentale delle scienze sembra avere requisito tutto il campo del sapere a proposito dell'uomo e della natura vivente, sostituendosi così al sapere metafisico. Ci si rivolge allora direttamente o esclusivamente alla biologia e alla medicina per cercare di conoscere che cosa o chi è l'embrione e il feto, e fondare di conseguenza un comportamento "buono" (in etica) o "giusto" (nel diritto) nei loro confronti.

Al sapere biologico sull'embrione e sul feto (vedi supra , I) fanno appello sia coloro che intendono affrontare teoreticamente la questione ontologica quale premessa di quella morale (cfr. Gilbert, 1991, pp. 33-74; Serra, 1993), che quanti, giudicando troppo pretenzioso il sapere "metafisico", si muovono direttamente sul piano etico o giuridico della ragione pratica. All'embriologia si interessa esplicitamente anche il Magistero della Chiesa, quando afferma che «sono le stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin dal primo comparire di una vita umana». Pur non essendosi «espressamente impegnato» all'interno dei dibattiti scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche, il Magistero ha sempre tenuto in grande considerazione le «preziose conferme» delle scienze biologiche (cfr. Evangelium vitae , 60). Tale posizione è coerente con una tradizione teologica di antica data, da Alberto Magno a Bonaventura, in particolare a Tommaso d'Aquino, una tradizione che si è sempre confrontata, a proposito della vita umana prenatale, con il sapere della medicina e dell'embriologia dell'epoca (cfr. Caspar, 1987; Caspar, 1991, pp. 43-93 e 105-123).

In merito ad una dipendenza fra "statuto ontologico" e "statuto biologico", occorre anzitutto riconoscere che essa si è già di fatto costituita, perché nessuno statuto ontologico prescinde da considerazioni fattuali di natura genetica, citologica, embriologica, neurologica od ostetrica. È sufficiente ricordare i concetti di «concepimento», «individualità», «epigenesi», «annidamento», «sensitività», «movimenti fetali», «vitalità», ecc. che fanno riferimento ad altrettanti fenomeni, proprietà o processi biologici. E, d'altra parte, ogni concezione empirica di un ente biologico implica una visione filosofica del vivente che lo rende intelligibile non solo analiticamente (scomposizione in tessuti, cellule, strutture subcellulari, biomolecole, genoma), ma anche sinteticamente, cioè, ad esempio, organicamente, sistematicamente ed organismicamente. Anche chi nega l'esistenza di un qualsiasi presupposto filosofico o "meta-biologico" nella propria interpretazione scientifica dei fatti fisici ottenuti attraverso ricerche sperimentali, per ciò stesso afferma una implicita opzione metafisica in favore di un radicale approccio riduzionistico-fisicalistico (statistico-matematico o chimico-fisico) allo studio della natura vivente.

Nella pluralità di orientamenti antropologici che caratterizza il panorama culturale contemporaneo, è possibile identificare diverse prospettive teoriche all'interno delle quali sono stati concepiti vari statuti ontologici dell'uomo, ed in certo modo anche dell'embrione e del feto umano. D'ora innanzi indicheremo tale status - propriamente e pienamente umano - con il termine tradizionale di «persona umana», senza con esso vincolarci a nessun particolare significato che il vocabolo «persona» ha assunto nel corso della sua lunga e travagliata storia o con il quale viene attualmente usato (cfr. Cotta, 1989, pp. 59-82; Novaes, 1991, pp. 27-85). A motivo dell'ambiguità di cui oggi è carica la parola «persona», non pochi autori suggeriscono termini alternativi, ma non sembra che sia stato raggiunto un accordo sufficiente: resta comunque il fatto che non è in questione la semantica, ma l'ontologia di ciò che nel linguaggio comune indichiamo con tale termine. Sacrificando necessariamente nello schema le sfumature concettuali e l'analisi esauriente di ciascuna posizione, è possibile tentare di ricondurre il complesso dibattito entro le seguenti concezioni di persona umana.

2. I concetti "forti" di persona. È anzitutto rinvenibile un concetto ontologico in senso stretto che si fonda su una ontologia sostanziale o su una ontologia relazionale. Appartiene alla prima fondazione il concetto di persona come  « rationalis naturae individua substantia » dovuto a Severino Boezio (480 ca.-524) ( De persona et duabus naturis , III, 4-5), poi ripreso da Tommaso d'Aquino come « Individuum subsistens in rationali natura » (cfr. Summa theologiae , I, q. 29, a . 3) e come « rationalis naturae individua existentia » da Riccardo di s. Vittore (m. 1173) (cfr. De Trinitate , IV). Poiché la «natura razionale» è, tra tutti gli organismi, propria solo dell'uomo, ogni membro della specie Homo sapiens sapiens è ontologicamente una persona sin dal suo costituirsi come "sostanza individuale". La "persona" risulta coestensiva con "l'uomo" - inteso come individuo umano - lungo tutto il suo ciclo vitale. Dato che il venire all'esistenza di un nuovo essere umano coincide normalmente con il processo biologico della fertilizzazione, nel quale si genera una nuova "sostanza individuale" umana, l'embrione è persona fin dallo stadio unicellulare (zigote). All'interno di un'interpretazione ilemorfica della realtà, la maggior parte dei fautori della concezione ontologica sostanziale ammette conseguentemente ed esplicitamente la tesi metafisica della infusione "immediata" dell'anima (conosciuta come tesi dell'«animazione immediata»), quale logica implicazione di una individuazione sostanziale "immediata". Non tutti coloro che adottano la definizione boeziana riconoscono che l'embrione umano è - sin dalla fertilizzazione - persona. E questo per due distinte obiezioni, la prima delle quali ha a che vedere con la natura razionale dell'essere umano e la seconda con la sua individualità sostanziale.

Nel primo caso, in relazione cioè con la natura razionale, si parla della tesi della «animazione mediata» o «animazione successiva», che si rifà storicamente ad alcune affermazioni di Aristotele e di s. Tommaso (cfr. Di Giannatale, 1981; Caspar, 1991b, pp. 239-255; Seidl, 1992). In essa si afferma che l'infusione dell'anima razionale, forma corporis , avviene solo quando l'organismo è sufficientemente sviluppato e quindi in grado di riceverla (cfr. Zalba, 1972, pp. 35-57; Ashley, 1976, pp. 113-133; Cottier, 1995). A questa considerazione di ordine ilemorfico altri aggiungono o sostituiscono una considerazione ex parte Dei , che solleva il problema dell'elevatissima - si dice - frequenza degli aborti spontanei precoci (aborti preclinici), prima dell'impianto dell'embrione nell'endometrio materno. A questo fenomeno vengono sommati i processi degenerativi dello sviluppo che segue la fusione dei gameti, quali la formazione di moli idatiformi e le gravi malformazioni fetali, come l'anencefalia o altre forme di aplasia. A fronte di tutto questo, sarebbe inconcepibile che Dio potesse "sciupare" così tante anime, da Lui "immediatamente" infuse negli embrioni che moriranno precocemente. Nel secondo caso, che riguarda l'individualità sostanziale, abbiamo la tesi della «individuazione successiva» o «epigenetica». La tesi sostiene che l'embrione è da considerare "individuo" solo a partire da quando, nel corso del suo sviluppo, potrà formarsi un unico feto, da quando, cioè, non è più documentato che avvengano i fenomeni della gemellanza monozigotica e della cosiddetta «fusione embrionale» o «ricombinazione embrionale» (chimerismo). L'assenza di continuità e identità ontologica tra prima e dopo la formazione degli embrioni gemelli o chimerici deporrebbe a sfavore di una individualità sostanziale nelle prime fasi dello sviluppo (secondo diversi autori fino al 14°-15° giorno). Nell'uno e nell'altro caso si giunge ad ammettere che la vita umana personale non ha inizio con la formazione dell'organismo biologico, ma solo in un successivo periodo dell'epigenesi, negando così la coestensività della persona con l'intera fase di sviluppo prenatale dell'uomo, prima dell'impianto nell'endometrio (periodo endotubarico, in sede naturale, o extracorporeo, in vitro ) e successivamente all'impianto (periodo endouterino).

La seconda delle prospettive "forti", propriamente ontologiche, della persona, è quella che si fonda sulla concezione relazionale. La persona è qui intesa come "intersoggettività" o "consoggettività": secondo questa "filosofia del rapporto costitutivo" è la "relazione io-tu" che costituisce l'uomo in quanto persona. All'"io-in-sé", individualità sostanziale di natura razionale, si sostituisce l'"io-con-il-tu", soggettività di natura relazionale. La vita personale viene così a coincidere con la vita umana organismica solo quando quest'ultima entra in relazione con un'altra vita personale. La concezione ontologica relazionale ricerca allora nello sviluppo dell'embrione del feto quei "fatti" biologici o psicologici che segnerebbero l'inizio della relazione tra l'organismo embrionale o fetale e l'organismo materno, il più precoce dei quali viene dai sostenitori di questa tesi identificato nell'"annidamento" (impianto della blastociste nell'endometrio uterino), che si considera iniziare intorno al 6°-7° giorno dalla fertilizzazione. Se la vita organica dell'essere umano comincia con la fecondazione, allora la sua vita relazionale comincerebbe secondo alcuni con l'annidamento: è a partire da questo momento che si potrebbe parlare dell'embrione come di una persona umana in potenza (cfr. Malherbe, 1985 e 1988). Ma se è vero che il problema della fondazione ontologica della persona umana rimanda ad un "altro da sé", quest'ultimo deve essere ravvisato nel "totalmente Altro" metafisicamente parlando (cioè l'Essere, e teologicamente, Dio) quale Causa prima, e in due "altri da sé", i genitori biologici che hanno donato i gameti, quale causa seconda. La relazione costitutiva si inscrive così nell'ordine della causazione radicale ontologica o "creazione" e dalla causazione biologico-personale o "pro-creazione". Poiché la relazione "io-tu" non è sussistente in sé, essa stessa ha bisogno di essere fondata, rimandando al problema dell'ontologia sostanziale dell'"io".

Siamo così introdotti ad un ulteriore concetto metafisico di «persona umana», quello teologico. All'interno di una prospettiva trascendente aperta alla divina Rivelazione e all'Incarnazione - propria della teologia cristiana - la natura più profonda della persona umana viene compresa nel contesto del rapporto creaturale-soteriologico che definisce l'antropologia teologica. La vita umana personale è definita da Evangelium vitae , nella sua consistenza come «un riflesso della stessa realtà di Dio», e nella sua vocazione come «partecipazione alla stessa vita di Dio» (n. 34). Questa visione può ritrovarsi molto ben delineata e biblicamente documentata in tutto il documento (cfr. nn. 1-2, 34-38, 104), dove la "verità della vita" dell'uomo è compresa in un'antropologia che si dispiega dalla teologia dell' imago Dei a quella della caro Verbi , esplicitando esemplarmente la dimensione cristologica dell'"antropologia dell'immagine" che il Concilio Vaticano II aveva solo ripresa e rivalutata (cfr. Colombo, 1995).

Esiste poi una concezione di persona umana che la identifica essenzialmente come un «essere razionale», o un «soggetto etico»: è il concetto "morale", proposto da Kant nella Critica della Ragion Pura. «Persona» non indica qui un concetto d'ordine ontologico, sostanziale, ma d'ordine razionale, etico. Secondo l'originale approccio kantiano-trascendentale, con la rigorosa separazione del noumenico dal fenomenico, non esiste alcuna possibilità di relazione tra "statuto personale" e "statuto biologico" dell'uomo, né alcun criterio empirico che permetta di tracciare una linea di demarcazione tra "persona" e "non persona" o "cosa". Alcuni autori che si definiscono neokantiani, come ad esempio H.T. Engelhardt, hanno però trasgredito il veto metafisico posto dal filosofo di Königsberg alla relazione tra noumeno e fenomeno, cercando - a partire da fenomeni empirici e da dati biopsicologici - di stabilire nell'uomo in sviluppo la presenza della "coscienza", e dunque della "persona". Quest'ultima perde così il carattere esclusivamente morale che aveva in Kant, per divenire un fascio di "funzioni superiori" o "stati coscienziali" suscettibili di verifica, ma che rimandano ad un "nucleo ontologico" permanente che costituisca il soggetto antropologico di inerenza delle funzioni stesse.

3. I concetti "deboli" di persona. Un diverso approccio antropologico al concetto di persona, è quello definito come «funzionalista», «procedurale» od anche «operativo» (cfr. Botturi, 1992; Mordacci, 1992). Prima di delinearlo, occorre ricordare che abbiamo sin qui affrontato il campo dei concetti "forti" nel senso metafisico-fondativo e non in quello logico-veritativo del termine. Il termine "debole" è invece qui usato nell'ultimo senso appena indicato. Il campo logico appare oggi molto più visitato ed esplorato di quello ontologico, soprattutto da chi è alla ricerca di uno "statuto" dell'embrione e del feto meno impegnativo dal punto di vista filosofico: ma la domanda ontologica, per quanto frequentemente emarginata dalla discussione bioetica, non può facilmente essere rimossa.

L'approccio «funzionalista», che si precisa ulteriormente in diversi concetti operativi, considera la persona umana come un fascio di operazioni o un insieme di caratteristiche attualmente presenti e funzionali, anche se non continuamente attive. Un essere umano è una "persona" se si comporta o può immediatamente comportarsi come tale. Ove una simile capacità non fosse empiricamente constatabile ci si troverebbe di fronte a "non persone", sebbene si tratterebbe pur sempre di "esseri" (organismi) appartenenti alla specie umana. A seconda delle "operazioni" che vengono identificate come caratterizzanti la persona umana - i cosiddetti «indicatori di umanità» -, si può allora ottenere un concetto "sensoriale", "psicologico-coscienziale", "vitale-autonomistico", o "razionale-volitivo" di persona.

Il primo privilegia la capacità sensoriale esterocettiva e propriocettiva, ed in particolare la sensibilità algica: diventa allora decisivo sapere dalla neurobiologia se le vie nervose somatosensoriali e la regione somatosensoriale primaria della corteccia cerebrale dell'embrione e del feto sono sufficientemente sviluppate e funzionali da consentire una percezione degli stimoli, soprattutto quelli dolorosi, a livello periferico o anche centrale (encefalo). L'inizio della vita personale viene così fissato intorno alle 5-8 settimane dalla fertilizzazione. Il concetto "psicologico-coscienziale" o "psichico" definisce «persona» ogni essere umano capace di vari livelli di esperienza "cosciente", "subcosciente", "precosciente", e - secondo alcuni autori - anche "non cosciente" purché avente un effetto sui livelli coscienti che in seguito si manifesteranno. Con "esperienza", viene indicato ogni evento psicofisiologico in grado di «lasciare delle tracce che influenzeranno lo sviluppo psicologico e il carattere della vita mentale dell'individuo». Tali esperienze presuppongono una organizzazione morfofunzionale della corteccia cerebrale alquanto superiore a quella richiesta per la percezione degli stimoli a livello del sistema nervoso centrale, che verrebbe raggiunta non prima del secondo-terzo mese di gravidanza. Ci si rivolge quindi alla neuropsicologia prenatale e perinatale e alla neuropsichiatria per avere informazioni comportamentali e cognitive sulla vita endouterina, in grado di documentare tali esperienze. I due rimanenti concetti "funzionalistici" di persona si rifanno entrambi all'idea di autonomia dell'essere umano individuale: il primo intendendola in senso biologico come "vitalità autonoma", ovvero come capacità di vita separata dall'organismo materno, con o senza assistenza medica (attualmente considerata a partire dalla 22ª- 24ª settimana di gravidanza), il secondo concependola in senso mentale come autonomia "razionale-volitiva" (capacità di intendere, di volere e di percezione memorativa). È quest'ultima, la tesi più radicale, che comporta il rinvio ad una fase "superiore" dello sviluppo psicofisico per l'esplicarsi delle attività mentali in grado di soddisfare l'"alto" concetto funzionale proposto.

  

III. Confronto fra la prospettiva ontologica e quella biologica

Gli attuali orientamenti della ricerca biomedica in campo embrionale e alcuni tra i più recenti risultati scientifici cui essa è pervenuta, se rigorosamente interpretati secondo il metodo proprio delle scienze sperimentali della vita (cfr. Serra, 1993, pp. 56-58 e Serra, 1995), permettono di delineare uno statuto biologico dell'embrione e del feto umano compatibile o non contraddittorio con l'assegnazione ad entrambi dello statuto ontologico di persona - secondo l'accezione "sostanziale" del termine - sin dall'avvenuto processo di fertilizzazione. Ciò è possibile all'interno della moderna concezione genetico-molecolare (informazionale), organismico-fisiologica (omeostatica) e dinamico-epigenetica (diacronica) che caratterizza l'attuale intelligenza biologica dell'individuo vivente (vedi supra , I).

Qualora si riconosca al concetto di persona una valenza "forte" (statuto ontologico in senso stretto), per una fondamentale ragione epistemologica risulta ovvio che da nessun dato o concetto delle scienze biomediche si potrebbe direttamente inferire che un essere umano è una «persona». Come sinteticamente osserva Angelini (1991), «la biologia infatti nulla sa a proposito di persona. Questo è stato affermato da molti e in molti modi» (p. 152). Se si vuole però salvare il "realismo" delle scienze empiriche, si deve riconoscere la portata ontologica del sapere biologico a proposito della "persona umana" in quanto "organismo umano" e della sua formazione e costituzione organismica. L'argomentazione consisterà allora nella ricerca dei punti di coerenza (o non contraddizione) tra il biologico e l'ontologico dell'embrione e del feto, tra l'"essere in sviluppo" della specie umana, con le proprie caratteristiche genetiche, epigenetiche e morfofunzionali, e la "persona umana" agli inizi della sua vita, che ancora non manifesta attualmente e pienamente la propria "personalità".

1. Il confronto con i concetti "forti" di persona. Recependo in prima istanza la definizione boeziana di persona (vedi supra , II.1), si può documentare come nessuna delle conoscenze scientifiche in nostro possesso consenta di sostenere con ragionevole certezza le obiezioni di carattere biologico sollevate da diversi autori alla natura razionale dell'embrione e del feto umano o alla sostanziale individualità dell'embrione precoce, concedendo così il beneficio della non (ancora) "falsificazione" (che nella teoria epistemologica popperiana equivale alla "veridicità"; EPISTEMOLOGIA, II.1) alla tesi secondo la quale il concepito umano è « rationalis naturae individua substantia », cioè persona. Se si volesse assumere poi, in seconda istanza e quale diversa ipotesi di lavoro, la concezione relazionale di persona, non sarebbe difficile mostrare come le proprietà e i fenomeni biologici recentemente rinvenuti non autorizzino, neppure in questa ipotesi, la possibilità di escludere l'embrione e il feto dallo status di persona. Ammessa e non concessa la piena pertinenza della sola relazione intersoggettiva o consoggettiva a definire ontologicamente la persona umana, tale prospettiva non è in grado - sulla base delle attuali conoscenze ostetriche e di biologia dello sviluppo - di negare all'embrione prima dell'impianto nell'endometrio uterino lo "statuto personale" nel senso adottato dalla prospettiva medesima.

2. Un impossibile confronto con i concetti "deboli" di persona . L'approccio «funzionalista» al concetto di persona sfugge invece ad un reale e leale confronto tra l'empirico bio-psicologico e il filosofico antropologico, perché dissolve lo stesso rapporto tra i due accessi conoscitivi alla natura dell'uomo, attuando una riduzione del secondo al primo. Le "operazioni" che indicano la presenza della persona umana non postulano in questo caso, per la loro fondazione, un "nucleo ontologico" - luogo di consistenza e di inesione delle funzioni e degli atti stessi - , ma rinviano semplicemente alla manifestazione di "proprietà" o "facoltà" attuali che ultimamente coincidono col, o sono riducibili al, substrato biologico e psicologico dell'uomo. L'identificazione di quali operazioni in un essere umano siano propriamente "personali" risulta però indipendentemente da ogni interpretazione del vivente che possa fenomenologicamente emergere dall'analisi biologica dei processi riproduttivi, morfogenetici ed omeostatici, e che lo renda intelligibile nella sua natura specifica. Paradossalmente, la formalità di questa concezione della persona è in alcuni casi tale da rendere irrilevante la "natura biologica" dell'organismo (specie), o addirittura la presenza di uno stesso organismo biologico, per l'attribuzione dello status di persona: può essere "persona" anche un animale non umano, ma in grado di provare dolore, manifestare paura, esprimere desideri o interessi, oppure una entità fisica che non appartiene alla natura vivente, quale un computer capace di eseguire operazioni razionali, interagire con altri sistemi, comunicare con l'operatore. Il rimando al sapere biologico specifico finisce col risultare così superfluo o solo strumentale.

  

IV. Il dibattito contemporaneo circa l'utilizzo di cellule staminali da embrioni e da organismi adulti

1. Introduzione. Nel campo degli innesti di tessuto in pazienti affetti da gravi malattie metaboliche, neurologiche, muscolari, cardiovascolari, neoplastiche ed altre ancora, i ricercatori hanno la possibilità di far crescere in laboratorio il materiale biologico necessario (cellule differenziate e tessuti) a partire da linee isolate di cellule multipotenti (cellule staminali; vedi supra , I.4) coltivate su appositi substrati fisiologici. Tali cellule non specializzate hanno infatti la proprietà di autorinnovarsi in coltura (conservando la loro potenzialità replicativa ed epigenetica) e di differenziarsi a certe condizioni, dando origine ai tipi cellulari che compongono tessuti e organi. Si spera così di poter ottenere, ad esempio, dei neuroni (cellule del sistema nervoso) per sostituire o integrare quelli degenerati e non più funzionali nei pazienti colpiti da morbo di Parkinson, malattia di Alzheimer, sclerosi multipla, ischemia o lesione spinale; oppure le cellule b delle isole pancreatiche del Langherans, in grado di secernere insulina una volta innestate in pazienti affetti da diabete mellito di tipo I; ed ancora cellule ematiche, del muscolo, della cartilagine, del tessuto osseo e dell'epidermide, ma anche del fegato e della retina: in questi casi le applicazioni andrebbero dalle malattie del sangue alla osteoartrite, dalla osteoporosi alle ustioni, e potrebbero riguardare anche la cirrosi epatica e la degenerazione maculare dell'occhio. Questi ed altri affascinanti traguardi per la chirurgia dei trapianti alimentano nuove speranze per i pazienti ed i loro familiari, soprattutto nel caso di malattie che oggi non possono essere affrontate mediante una strategia terapeutica risolutiva.

Compiuti gli studi preliminari sull'animale di laboratorio, la ricerca biomedica che persegue questi obiettivi necessita ora di disporre di adeguate quantità di cellule staminali umane da coltivare, analizzare sotto il profilo dell'espressione genica e della biochimica cellulare, e sottoporre a stimolazione da parte di condizioni ambientali, fattori di crescita e altre molecole in grado di orientarne la differenziazione nella direzione epigenetica prevista o desiderata; quel particolare fenotipo cellulare che servirà per l'innesto sul paziente e forse un giorno anche per l'organogenesi parziale o totale. Le sorgenti di cellule staminali umane sinora identificate sono; a) la massa cellulare interna dell'embrione allo stadio di blastocisti (circa 5 giorni dopo la fertilizzazione, quando il numero di cellule dell'embrione è pari a 150-200, e sono distinguibili in embrioblasto e trofoblasto); b) i tessuti embrionali (dopo l'impianto dell'endometrio, dalla quarta settimana di sviluppo; cellule germinali primordiali del sacco vitellino) e fetali, tra i quali quelli del fegato, del midollo osseo e del cervello, che sono ricchi di cellule staminali; c) il sangue contenuto nel cordone ombelicale, che ancora lega la circolazione portale del neonato alla placenta durante il parto; e d) alcuni tessuti presenti nel corpo dell'adulto, compreso lo stesso sangue periferico. Vediamo così recentemente arricchirsi la riflessione interdisciplinare sull'embrione umano di un nuovo dibattito, quello in merito all'utilizzo di cellule provenienti da embrioni a scopo terapeutico, eventualità rappresentata dai primi due dei quattro casi appena elencati.

Oltre alla possibilità di ottenere cellule staminali umane "naturali", cioè reperibili in organismi non geneticamente manipolati e neppure sottoposte esse stesse a modificazioni di tipo genomico, ma semplicemente prelevate e coltivate in vitro, un altro aspetto della stessa ricerca potrebbe invece riguardare l'ottenimento di cellule staminali aventi patrimonio genetico preordinato (ad esempio, identico a quello del paziente sul quale verrà effettuato l'innesto, nel caso tali cellule non fossero prelevabili dal suo corpo) o modificato (reprimendo così possibili reazioni di rigetto o il sorgere di proliferazione cellulare incontrollata di tipo neoplastico). Nel caso di un preordinamento del patrimonio genetico - ottenibile solo attraverso le cellule staminali embrionali - è stato ipotizzato il ricorso alla clonazione per sostituzione di nucleo (metodologia simile a quella dell'esperimento scozzese sulla pecora Dolly, già applicata anche a bovini, capre, maiali e topi), che potrebbero generare un embrione da un oocita enucleato di donatrice e dal nucleo di una cellula somatica del paziente stesso. Il secondo caso, quello di una sua modifica, può essere applicato anche a cellule staminali di origine non embrionale, come quelle ottenute dal sangue del cordone ombelicale o da tessuti di organismi adulti, in quanto non comporta la sostituzione dell'intero patrimonio genetico nucleare e la sua riprogrammazione epigenetica (che solo i fattori contenuti nell'oocita materno sembra siano in grado di far avvenire), ma si limita ad un intervento genomico assai contenuto e mirato, simile a quello della terapia genica somatica.

2. Aspetti scientifici e clinici. La tematica che qui ci occupa è stata oggetto di un discorso di Giovanni Paolo II rivolto nell'agosto del 2000 al XVIII International Congress of the Transplantation Society. In quell'occasione è stato affermato che «la scienza lascia intravedere altre vie di intervento terapeutico che non comportano né la clonazione né il prelievo di cellule embrionali, bastando a tale scopo l'utilizzazione di cellule staminali prelevabili in organismi adulti. Su queste vie dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale» (OR, 30.8.2000, p. 1). L'affermazione non ha solo la valenza di un richiamo antropologico all'alta dignità individuale di cui gode l'essere umano sin dal suo concepimento, e di una esplicitazione della conseguente esigenza morale di rispetto e cura premurosa della vita embrionale, evitando ogni sua strumentalizzazione. Oltre a questa valenza, e coerentemente ad essa, Giovanni Paolo II ha anche indicato con precisione una linea di ricerca positiva nel campo delle cellule staminali e del loro impiego nella terapia dei trapianti: la possibilità di «utilizzare cellule staminali prelevabili in organismi adulti» anziché ricorrere a quelle embrionali. La stessa prospettiva scientifica ed etica si trova enunciata nella dichiarazione della Pontificia Accademia per la Vita su La produzione e l'uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane (cfr. OR, 25.8.2000, p. 6).

La letteratura biologica più recente e il dibattito in corso tra gli addetti ai lavori di ricerca mettono in luce con sempre maggiore evidenza che alcune cellule staminali isolate da tessuti differenziati del feto e dell'adulto possono essere coltivate in vitro , espanse in una linea cellulare stabile e autorinnovantesi, e indotte a differenziarsi anche in fenotipi cellulari diversi da quello del tessuto di provenienza. La sorprendente flessibilità di cui queste cellule sono dotate conforta la ragionevolezza delle parole di Giovanni Paolo II prima riportate e rende la prospettiva in esse indicata non solo pienamente rispondente alle esigenze antropologiche e morali della ricerca biomedica sull'uomo, ma anche realmente percorribile in termini di procedura empirica di ricerca ed aperta a risultati equivalenti a quelli ipotizzati nella scelta alternativa, che vorrebbe ricorrere a cellule prelevate direttamente da embrioni.

In un rapporto noto come documento Donaldson, alcuni esperti britannici avevano già messo in luce la possibilità che, «a lungo termine, la prospettiva offerta dalle cellule staminali derivate da tessuti di adulti sia uguale o anche superiore a quella delle cellule staminali embrionali» ( Stem Cell Research: Medical Progress with responsability , London 2000, p. 19). Peraltro, già da diversi anni cellule multipotenti di tipo staminale, prelevate dal midollo osseo o dal sangue periferico di donatori adulti, trovano impiego clinico nel trattamento della leucemia acuta e cronica, linfomi, mielomi e mielodisplasie, e di alcune malattie metaboliche monogenetiche (emoglobinopatie, immunodeficienze congenite, malattie lisosomiali, anemia di Fanconi). Tuttavia - come si ricorda nella citata dichiarazione della Pontificia Accademia per la Vita e nello stesso documento Donaldson - sono le più recenti ricerche sull'animale di laboratorio a indicare che, ad esempio, «una cellula staminale neurale adulta possiede un'ampia capacità di sviluppo e può potenzialmente essere usata per generare una varietà di tipi cellulari adatti al trapianto in differenti malattie» (Clarke et al., 2000, p. 1660). Non solo «questi studi suggeriscono che le cellule staminali in differenti tessuti adulti possono essere molto più simili di quanto sinora pensato alle cellule staminali embrionali, e forse possiedono un repertorio epigenetico che si avvicina a quello delle embrionali» ( ibidem , p. 1663), ma aprono anche un varco in una concezione strettamente determinista della biologia dello sviluppo, che vorrebbe vedere in alcuni tessuti e organi (ad esempio quelli del sistema nervoso) l'esito di un processo di rigida e irreversibile segregazione di cellule embrionali multipotenti. Evan Y. Snyder e Angelo L. Vescovi hanno messo in evidenza che «la plasticità intra -germinale, attraverso la quale le cellule staminali danno origine a derivati dello stesso foglietto germinale (ad esempio, le cellule staminali mesenchimali generano la cartilagine, l'osso e gli adipociti; le cellule del midollo osseo vanno incontro a differenziazione miogenetica, e viceversa) è certamente importante. Ma ancora più impressionante è la possibilità di una transdifferenziazione inter -germinale (ad esempio, cellule staminali neurali, che derivano dall'ectoderma, a dare cellule ematopoietiche, le quali sono di origine mesodermica; cellule dello stroma del midollo osseo, di derivazione mesodermica, a produrre epatociti, di origine endodermica, e cellule gliali, di origine neuroectodermica)» ("Nature Biotechnology" agosto 2000, n. 18, p. 827). Queste preziose considerazioni in ordine alla filosofia della biologia dello sviluppo, che in apparenza possono sembrare di rilevanza solo teorica, «avranno una ricaduta pratica che riguarda l'ingegneria tessutale da cellule staminali, in quanto gli organi potrebbero essere "ri-creati" [in laboratorio] basandosi sui processi di sviluppo» ( ibidem) naturali. Sebbene i due autori non ritengano che al presente le cellule staminali adulte possano sostituire quelle embrionali nelle ricerche di base ed applicative, essi tuttavia riconoscono che «la recente ondata di studi suggerisce gradi insospettabili di plasticità, certamente in grado di stimolare esperimenti sino a tre anni fa inimmaginabili» (ibidem, p. 828).

Anche gli studiosi statunitensi chiamati ad elaborare il rapporto della National Bioethics Advisory Commission hanno sottolineato le potenzialità replicative e differenziative delle cellule staminali dell'adulto, se esposte a un ambiente esterno favorevole (cfr. Issues in Human Stem Cells , Rockville (MD) 1999, vol. I, p. 13). Le ricerche sono orientate a identificare le condizioni nelle quali le cellule staminali isolate da tessuti di adulto possono crescere numericamente e siano poi indotte a differenziarsi. Tra le condizioni in grado di indurre la differenziazione sembrano importanti: un ambiente subottimale di coltura in vitro , che limiti il rinnovamento delle cellule staminali (una volta raggiunta l'espansione desiderata della loro linea) senza però provocarne la morte; l'addizione di fattori di crescita, quali le proteine delle famiglie TGF- β e Wnt, le citochine e le chemochine; alcuni ormoni (ad esempio l'insulina) e altre sostanze, come il desametasone e l'indometacina; e l'espressione indotta di alcuni geni, come il c-myc.

In conclusione, si può ricordare il principale vantaggio che le cellule staminali adulte presentano sotto il profilo sperimentale e clinico. Come ha fatto notare l'ematologa Catherine Verfaillie, che ha recentemente isolato dal midollo osseo di bambini e adulti cellule staminali «quasi identiche a quelle embrionali» nella loro capacità di dare origine a differenti tipi cellulari, le cellule staminali provenienti da tessuti di adulti sono più facili e sicure da manipolare e innestare, poiché non tendono a differenziarsi spontaneamente e incontrollatamente come quelle embrionali, che potrebbero anche sviluppare in vivo dei teratomi (focolai tumorali costituiti da cellule eterogenee). Non così si comportano le cellule adulte, che si differenziano solo se indotte a farlo. D'altra parte, esse sembrano perdere la loro capacità di dividersi e differenziarsi dopo un certo periodo di tempo in coltura, e questo potrebbe rappresentare una limitazione alla produzione di linee cellulari staminali perenni, le sole adatte ad essere commercializzate su vasta scala per scopi di ricerca e applicativi. Inconveniente, questo, assai meno rilevante qualora si debba procedere a un trapianto autologico oppure da singolo a singolo, dovendosi in questo caso procedere di volta in volta ad un isolamento e ad una differenziazione in vitro delle cellule, mirati e contenuti.

3. Aspetti antropologici e morali. Sotto il profilo antropologico, tre paiono essere le questioni sottese al dibattito in corso sull'estensione all'uomo degli studi sulle cellule staminali e sulle loro potenzialità terapeutiche. La prima, e più radicale, riguarda la domanda sull'uomo in quanto soggetto (malato) da curare, ma anche e allo stesso tempo, oggetto (biologico) di ricerca scientifica, diagnosi e terapia. Essa rappresenta un caso particolare della domanda antropologica per eccellenza, che riecheggia sinteticamente e persuasivamente nelle parole del salmista: «Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi?» (Sal 8,5). Come ha richiamato lo stesso Giovanni Paolo II, per prendersi cura dell'uomo, «occorre anzitutto partire da una visione integrale del suo essere, cioè da una antropologia nella quale egli venga considerato per quello che egli è realmente, cioè come creatura di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza, come essere capace di conoscere l'invisibile, teso verso l'assoluto di Dio, fatto per amare, chiamato ad un destino eterno» (Ai partecipanti al Colloquio della Fondazione Internazionale "Nova Spes" , 9.11.1987, Insegnamenti , X,3 (1987), p. 1051). Nella drammatica tensione tra la propria finitudine - che nella malattia, e in particolare quella degenerativa e mortale, emerge in forma più pungente - e la propria costitutiva vocazione alla perfezione totale (cfr. Evangelium vitae , 34-37), si consuma l'esistenza terrena dell'uomo e sgorga il suo grido di salvezza, che in alcune circostanze della vita viene raccolto dalla medicina attraverso quello più palese di salute. La domanda di salute infatti non può mai essere disgiunta dalla invocazione della salvezza.

Sia nel caso si pervenga ad una risoluzione del quadro patologico che è alla base della sofferenza fisica e spirituale del paziente, sia quando ciò non sia tecnicamente possibile o moralmente ammissibile, la salvezza dell'uomo nella sua unitotalità ( corpore et anima unus ) non coincide con la ritrovata salute, né la sua eventuale perdizione con il persistere della malattia o con il sopraggiungere della morte. A fronte della prospettiva biologica di disporre di numerose linee cellulari cosiddette "immortali", che potrebbero un giorno rappresentare una fonte autologa o eterologa pressoché inesauribile di "tessuti di ricambio" per il corpo umano, occorre affermare con decisione la non riducibilità della dimensione di eternità dell'uomo alla possibilità di una autoreplicazione indefinita delle sue cellule (o di quelle di un donatore), e la non identificabilità della salvezza personale con il raggiungimento di tale obiettivo salutista. In questa luce appare ultimamente non contraddittoria con la verità dell'uomo ed il suo destino trascendente (cfr. Evangelium vitae, 38) anche l'eventuale prospettiva di una limitazione della disponibilità di cellule staminali umane in conseguenza del rispetto dovuto alla vita e alla dignità dell'embrione umano, o, più verosimilmente, quella di un'attesa maggiore per la conquista dello stesso obiettivo terapeutico attraverso vie alternative che coinvolgono le cellule staminali adulte. Liberando medici e pazienti dalla deriva utopica di una perfezione biologica che elimini la finitezza dell'uomo, e quindi la malattia e la morte, la concezione sopra evocata incoraggia i primi nella ricerca di strategie terapeutiche più adeguate e corrispondenti al bene integrale della persona del paziente, e consente a quest'ultimo, nella sua lotta contro la malattia, di cercare un senso anche per la sofferenza presente e di sostenere una speranza per la propria vita che non censuri la domanda di salvezza contenuta in quella di salute.

I passi della scienza, ed in modo emblematico quelli della biologia e della medicina, che più direttamente concernono la vita umana, sono guidati da uno scopo e mossi secondo un metodo che richiedono di essere attentamente considerati e valutati. La rivendicazione di una libertà senza limiti per gli obiettivi della ricerca e i mezzi adottati per conseguirli lascia trasparire un'idea di scienza fine a sé stessa, esercizio ideale di conoscenza teorica (o pratica) autoreferenziale o strumento di un avanzamento tecnologico indipendente dalla esigenza di un autentico progresso umano. Al contrario, «la scienza in generale, e la scienza medica in particolare, è giustificata e diventa uno strumento di progresso, liberazione e felicità solo nella misura in cui serve il benessere integrale dell'uomo» (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso di Neuropsichiatria, 12.4.1986; Insegnamenti , IX,1 (1986), p. 995). La coscienza di questo compito, che rende nobile la scienza e grande la statura umana dei suoi cultori, implica la consapevolezza di un limite non certo alla creatività del lavoro o all'orizzonte dell'indagine, ma agli strumenti empirici adottabili in ciascuna ricerca nonché alla scelta del metodo da seguire nelle indagini. Il bene integrale dell'uomo richiede, infatti, il riconoscimento di una "umanità" che non può essere ferita o calpestata nel percorso stesso di una ricerca, e non solo nelle successive eventuali applicazioni dei risultati conseguiti. Nella conoscenza scientifica, non meno che in quella ordinaria, il metodo è dettato dall'oggetto dell'indagine, sicché non è corretto usare lo stesso metodo per ogni caso. Questo limite "oggettivo" del percorso conoscitivo impone che lo studio delle cellule staminali umane non possa essere condotto con gli stessi procedimenti adottati per le cellule staminali di altri animali, ad esempio isolandole da embrioni viventi sviluppati in laboratorio. La specifica di "umano" è sostanziale e non accidentale, ed impone un mutamento irrinunciabile di metodo nell'approccio scientifico all'oggetto/soggetto "uomo", ad ogni singolo uomo e a tutti gli uomini sin dal loro venire all'esistenza.

Come per altre questioni di etica della ricerca scientifica e della clinica medica, anche nel caso dello studio delle cellule staminali e delle loro applicazioni alla terapia dei trapianti «il criterio fondamentale di valutazione risiede nella difesa e promozione del bene integrale della persona umana , secondo la sua peculiare dignità. A tal proposito vale la pena di ricordare che ogni intervento medico sulla persona umana è sottoposto a dei limiti che non si riducono all'eventuale impossibilità tecnica di realizzazione, ma sono legati al rispetto della stessa natura umana intesa nel suo significato integrale: ciò che è tecnicamente possibile, non è perciò stesso moralmente ammissibile» (Giovanni Paolo II, Discorso al XVIII International Congress of the Transplantation Society , 29.8.2000). Tra i sentieri che non rispettano la dignità ed il valore della persona umana, vi sono le procedure che implicano la manipolazione e la distribuzione dell'embrione umano a fini di ricerca o di innesto di tessuti su pazienti, e che «non sono moralmente accettabili, neanche se finalizzate ad uno scopo in sé buono» (ibidem). L'affermazione di questo principio, che equipara il concepito al già nato sotto il profilo della tutela della sua vita, si pone in continuità con il Magistero ordinario della Chiesa e la tradizione della teologia morale cattolica. Esso può essere sinteticamente formulato ricordando che, anche nel caso della sperimentazione sugli embrioni umani, in crescente espansione nel campo della ricerca biomedica (e legalmente ammessa in alcuni Stati), vale il principio generale che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale e, seppure fosse compiuta al fine di portare un vantaggio ad altre creature umane, costituisce un atto sempre moralmente inaccettabile (cfr. Evangelium vitae, 57, 63).

Di fronte alla prospettiva di una applicazione terapeutica delle cellule staminali prelevate da embrioni umani, generati in laboratorio per fecondazione artificiale e non più destinati allo sviluppo endouterino perché ormai da tempo crio-conservati nei centri per la cura della sterilità coniugale, alcuni autori di ispirazione cristiana ritengono che non si possa formulare una proibizione assoluta di tali esperimenti. Alcuni di essi, in accordo con teorie etiche teleologiche quali il proporzionalismo e il consequenzialismo, e non riconoscendo nel rispetto della vita dell'embrione umano - almeno fino ad un certo stadio di sviluppo - un valore morale fondamentale, vedono nella ricerca sulle cellule staminali embrionali una mescolanza di effetti buoni e cattivi, tali da richiedere di giudicare la moralità di questa azione in modo differenziato: la sua "bontà" morale sulla base della positiva intenzione del ricercatore riferita alla possibile terapia di determinate malattie, e la sua "ingiustezza" in considerazione degli effetti negativi sulla vita dell'embrione (considerata un valore di ordine "pre-morale", fisico oppure ontico). Di conseguenza, pur ammettendo che la fecondazione in vitro o la clonazione, se eseguita per generare un essere umano, siano "sbagliate", essi non giungono a valutare come moralmente "cattiva" la volontà che consente, progetta o esegue il prelievo delle cellule staminali da embrioni umani conservati a lungo sotto azoto liquido o "donati" di recente, a questo scopo, dalle coppie che si sono sottoposte a tecniche di procreazione artificiale. E questo in considerazione sia del destino altrimenti riservato a questi embrioni (deperimento progressivo o distruzione), sia dell'intenzione del biologo e del medico - ed eventualmente della coppia donatrice - che si volgerebbe ad un alto valore di ordine morale (la ricerca di una terapia per i pazienti) giudicato decisivo in quella circostanza.

È comprensibile che siffatto ragionamento possa trovare una forza persuasiva, a motivo dell'immediata sintonia con la mentalità scientifica e tecnica, proprio tra i ricercatori e medici, abituati a valutare operativamente le loro attività scientifiche, diagnostiche e terapeutiche, sulla base del rapporto tra risultati e risorse e tra benefici ed eventi diversi; mentalità che talora si trasmette inavvertitamente anche in coloro che si rivolgono ai centri per il trattamento della sterilità di coppia, indotti come sono a considerare il frutto della procreazione umana più il "prodotto" di un efficace intervento biomedico che non «il termine personalissimo dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio» (Evangelium vitae, 61). Tuttavia, anche la più scrupolosa ponderazione degli effetti buoni o cattivi prevedibili in conseguenza di un'azione non è un metodo adeguato per giudicare la qualità morale di una scelta eticamente rilevante quale è quella di intervenire su una vita umana. Né basta la buona intenzione, in quanto «la moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata» (Veritatis splendor,  78), ossia se questo è ordinabile al bene e al fine ultimo di Dio. La stessa ragione attesta che tra gli oggetti delle azioni umane che «si configurano come "non ordinabili" a Dio perché contraddicono radicalmente il bene della persona fatta a Sua immagine» (ibidem, 80) vi è tutto ciò che è contro la vita umana stessa, come la soppressione, la violazione dell'integrità e l'offesa della dignità di un essere umano dal suo concepimento alla morte naturale.

Infine, la generazione per clonazione di un embrione umano al fine di utilizzarlo come fonte di cellule staminali da destinarsi alla coltura e alla differenziazione, e successivamente all'innesto nel corpo dei pazienti che hanno fornito il nucleo delle loro cellule somatiche per la clonazione medesima resta un'azione contraria alla dignità della persona umana perché si oppone al suo bene, e nessuna intenzione buona o circostanza particolare è capace di cancellarne la malizia. Non può dunque essere oggetto di un atto positivo di volontà anche se nell'intento di salvaguardare o promuovere un importante bene individuale quale è la salute.

L'impresa umana, affascinante e provvidenziale, della ricerca biomedica sulle malattie metaboliche, ereditarie, degenerative e oncologiche - per le quali si apre la prospettiva dei trapianti di tessuto da cellule staminali - non viene penalizzata dalle puntualizzazioni e chiarificazioni che il Magistero della Chiesa cattolica ha offerto in proposito. Non vengono censurati né il legittimo desiderio dello studioso di conoscere la realtà, né quello del medico di scoprire e combattere la malattia, né quello del paziente di aspirare ad una migliore qualità della vita. La prescrizione di non utilizzare cellule staminali da embrioni ma dirigersi a quelle ottenibili da tessuti diversi, orienta le energie verso soluzioni pienamente corrispondenti al bene integrale dell'uomo e, allo stesso tempo, scientificamente e clinicamente convenienti. Da parte di molti studiosi e medici, ciò è stato percepito come una naturale corrispondenza alle esigenze della coscienza e della professionalità, nella piena convinzione che «il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti. La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità» (Evangelium vitae, 101).

  

Documenti della Chiesa Cattolica correlati: 
Innocenzo XI, DH 2135; Mater et magistra, EE 7, 413-414; Gaudium et spes, 51; Humanae vitae, 14; CDF, Quaestio de abortu procurato, 18.11.1974, EV 5, 673-674; CDF, Donum vitae, EV 10, 1173-1196Evangelium vitae, 13-14, 43-45, 63; Giovanni Paolo II : Discorso ai partecipanti ad un Convegno della Pontificia Accademia delle Scienze sulla sperimentazione in biologia, 23.10.1982, Insegnamenti V,3 (1982), pp. 889-898; Discorso ai partecipanti al Convegno del "Movimento per la vita", 3.12.1982, Insegnamenti V,3 (1982), pp. 1509-1513; Discorso al XVIII International Congress of the Transplantation Society, Roma 29.8.2000, OR 30.8.2000, pp. 4-5.

  

Bibliografia: 

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