Piero Benvenuti è Professore Ordinario presso il Dipartimento di Astronomia dell’Università di Padova, direttore del CISAS (Centro Interdipartimentale di Studi e Attività Spaziali) dell’Università di Padova e consigliere d’amministrazione dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana). È stato responsabile scientifico, per conto dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), dei progetti IUE (International Ultraviolet Explorer), Hubble Space Telescope, AstroVirTel (Telescopio Virtuale) e AVO (Astrophysical Virtual Telescope). È stato Presidente dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) dal 2004 al 2007. Collabora con la pagina scientifica del "Corriere della Sera" e con il telegiornale scientifico "Leonardo".
Domanda (Matteo Bonato). Ritiene che lo studio delle leggi fisiche dell'Universo tolga spazio alla fede in Dio creatore o, al contrario, possa mostrarcene la ragionevolezza?
Risposta (Piero Benvenuti). La Cosmologia moderna, che ha preso il via all’inizio del secolo scorso con la Teoria della Relatività Generale di Albert Einstein e le prime osservazioni della velocità di recessione delle galassie da parte di Edwin Hubble, è giunta oggi ad un modello standard di evoluzione dell’Universo che, se da un lato stabilisce delle evidenze sperimentali ormai inconfutabili (l’espansione e la geometria dell’Universo, la presenza di materia oscura), apre nuove, inattese prospettive di ricerca in terreni inesplorati (la natura e il ruolo dell’energia oscura). Sono convinto che l’evoluzione del modello cosmologico abbia contribuito ad inaugurare, in tempi recenti, una nuova, entusiasmante possibilità di dialogo fruttuoso tra la ricerca scientifica e la ricerca teologica, soprattutto se quest’ultima è intesa con Sant’Anselmo come Fides quaerens intellectum: fede alla ricerca della ragione.
I motivi principali di questa mia convinzione sono essenzialmente tre. Il primo (che in verità coinvolge tutta la Fisica e non solo la Cosmologia), discende dalla ormai consolidata consapevolezza che il metodo di ricerca scientifico moderno non potrà mai attingere direttamente alla “realtà”: esso si limita ad inquadrare e connettere i dati sperimentali (i fenomeni misurabili) all’interno di uno schema razionale (il modello geometrico-matematico astratto) basato sul principio di non contraddizione e sul principio di causalità. Ciò che si raggiunge quindi, non è tanto la “verità” dei fenomeni, ma piuttosto la “verosimiglianza” (invero sempre più precisa e soddisfacente) tra le predizioni teoriche del modello e i risultati (le misure) dell’esperimento o dei fenomeni. Come teorizzato da Karl Popper, il modello è per sua natura “provvisorio”: quando non è più in grado di predire accuratamente i risultati o di spiegare l’osservazione di fenomeni nuovi, il modello è “falsificato” (come direbbe Popper) e deve essere modificato. In generale, la modifica (che può anche essere una vera e propria rivoluzione, come nel caso della Relatività di Einstein) non rigetta in toto i modelli e le teorie precedenti, ma cerca di incorporarli come caso particolare in un modello più ampio. Questa autolimitazione della ricerca scientifica, che è anche motivo del suo successo incontestato ed universale, la rende molto più simile alla ricerca teologica: in entrambi i casi l’oggetto della ricerca è caratterizzabile come un “mistero” al quale l’uomo può avvicinarsi progressivamente con l’uso della ragione, ma che sempre interpone una distanza incommensurabile alla sua totale comprensione. Inteso in questo modo, la “studio delle leggi fisiche” non toglie affatto spazio ad una dimensione metafisica e quindi anche alla ricerca di Dio. Anzi, permette di affermare, preliminarmente e indipendentemente da ogni discorso religioso, che “al principio” c’è la razionalità e non il caso.
D. Dopo tante ore della sua vita dedicate a studiare il cielo, pensa che l'osservazione dell'Universo riveli la firma di un Dio creatore?
R. L’elemento “rivelatore” che mi sembra più convincente (nel senso del Salmo 18) è il riconoscere come costruzioni razionali astratte come le geometrie non-euclidee, sviluppate dai matematici senza alcun supporto osservativo (come invece è il caso della geometria euclidea), sono risultate poi essere “la” geometria seguita dalla distribuzione di massa-energia dell’Universo: l’osservazione delle cosiddette “lenti gravitazionali”, cioè l’evidenza sperimentale della deformazione dello spazio-tempo ad opera della gravità, è per me l’esempio più chiaro dell’intrinseca razionalità che sottende ogni manifestazione fenomenologica (ogni “sensata esperienza”, come direbbe Galilei).
Potremmo dire che l’atto di fede del fisico e cosmologo moderno è quello di essere certi che una tale interpretazione razionale dei dati osservativi (anche di quelli a noi oggi ignoti) sia sempre possibile, altrimenti non potrebbe esserci scienza.
È chiaro che l’atto di fede cristiano in un Dio Creatore trascende quello del fisico, perché non si limita all’Universo dei fenomeni misurabili, ma include ogni cosa ed inoltre, grazie alla Rivelazione della Croce, interpreta l’atto creativo come espressione di Amore per cui Dio Creatore è anche Dio Padre.
In ogni caso, la riconosciuta razionalità intrinseca del Cosmo, senza la quale non esisterebbe Scienza, è una base importante – direi ineludibile – dalla quale, con libera scelta, spiccare il balzo verso l’unico spiraglio di uscita dal tunnel dello spazio-tempo: verso l’Amore, unica Entità completamente credibile.
D. Tra scienza e teologia potrebbe esserci secondo lei un confronto proficuo? Quali vantaggi ne trarrebbero l'una dall'altra?
R. Dopo quasi quattro secoli di diffidenza (se non di aperto contrasto), credo siano ormai evidenti i segni di un radicale cambiamento negli attuali rapporti tra ricerca teologica e ricerca scientifica. Il mio sogno è quello di vedere svilupparsi delle linee di ricerca teologica che “utilizzino” i risultati della ricerca scientifica (in particolare della Fisica fondamentale, della Cosmologia, della Biologia), come un punto di partenza per leggere con una luce nuova gli elementi del Simbolo della nostra Fede, non per modificarne il significato, ma per approfondirlo avvicinandoci sempre più, per via razionale “allargata”, al mistero che essi rappresentano. In questo modo si raggiungerebbero due obiettivi, entrambi “vantaggiosi” per la nostra salvezza: da un lato si eliminerebbe ab initio ogni possibile conflitto tra scienza e fede, facilitando a molti l’accoglienza del messaggio evangelico, dall’altro vi sarebbe uno stimolo continuo (la scienza è “costituzionalmente” evolutiva) a riscoprire nella parole della Scrittura e nei Dogmi della Tradizione l’ispirazione originale dello Spirito Santo.
Alcuni esempi possono aiutare a comprendere meglio il mio pensiero.
La Scienza attuale ha messo in luce, in modo inequivocabile ed irreversibile, il carattere intrinsecamente e globalmente “evolutivo” dell’Universo, dalla radiazione del fondo cosmico, proveniente da 13,7 miliardi di anni fa, ai sistemi planetari extrasolari, all’evoluzione biologica sul pianeta Terra, all’emergere della coscienza. Contemporaneamente, la fisica e la cosmologia hanno sgretolato gli antichi concetti di spazio e tempo assoluti, estranei ed impassibili – per così dire – al Cosmo, per riportarli al livello di entità empiriche, strettamente ed indissolubilmente unite all’evoluzione della materia e dell’energia del Cosmo stesso.
Questo nuovo scenario, ignoto fino all’inizio del secolo scorso, permette, anzi impone, di ripensare e reinterpretare il racconto del primo capitolo della Genesi, il Prologo del Vangelo di Giovanni e il concetto stesso di “Creazione”: quest’ultima non può più essere pensata come un “evento”, ma piuttosto come un atto continuo, che trascende e comprende tutto il divenire dello spazio-tempo, nel passato e nel futuro. Questa interpretazione non riguarda solo il “Fiat lux”, ma anche l’antropogenesi che, come sottolineava acutamente l’allora Cardinale Josef Ratzinger, non è un evento che possa «essere dissotterrato con la vanga» al pari di un qualunque reperto archeologico “databile”. Il vantaggio di questa reinterpretazione è duplice: da un lato ci libera da ogni possibile malinteso o conflitto tra i risultati “scientifici” (non però dagli gli sconfinamenti ideologici!) dell’evoluzione e il concetto di Creazione, dall’altro ci fa riscoprire il significato profondo dell’atto creativo e comunicativo del Logos: atto d’amore globale che attende la nostra risposta. Un passo successivo, lungo questo cammino di rivisitazione, sarà forse quello di un necessario approfondimento teologico sul mistero del peccato alle origini dell’uomo.
Può sembrare più difficile indicare quali siano i possibili vantaggi del dialogo per la scienza, ma se quest’ultima riconosce onestamente (ovvero razionalmente) che il metodo scientifico non può, per sua stessa definizione e delimitazione, esprimere dal suo interno alcun giudizio etico, la scienza può trovare nel serrato dialogo con la teologia un aiuto per decidere un ambito di azione che non intacchi principi fondamentali e universalmente accettati come la dignità assoluta della persona e il rispetto e la cura dell’ambiente nel quale viviamo.
Per questo non è richiesto un atto di fede da parte della Scienza in Dio e in Gesù Cristo, ma semplicemente la buona volontà nell’accettare il dialogo, nel rispetto reciproco delle idee. Scienza e Teologia hanno in comune la passione per la ricerca – in ambiti e con metodi diversi – di una Realtà e Verità che in entrambi i casi hanno caratteristiche di universalità. Su questa base scienza e teologia, possono allearsi nel difendere la razionalità per il bene dell’uomo, non lasciandolo in balia del nichilismo e di un relativismo conoscitivo assoluto.
D. Di fronte alla possibilità di vita su altri pianeti qual è il suo pensiero? La scoperta di vita extraterrestre avrebbe qualcosa da dire anche alla religione?
R. La possibilità che forme di vita analoghe a quelle che conosciamo sulla Terra si siano sviluppate in altri pianeti extrasolari, è oggi un’ipotesi che, su basi scientifiche, non si può escludere, anzi appare ogni giorno più plausibile.
L’evoluzione unitaria del Cosmo – come oggi la conosciamo – l’evoluzione chimica del mezzo interstellare dal quale si sono formate stelle e pianeti, il numero continuamente crescente di sistemi planetari scoperti attorno a stelle di ogni tipo, sono tutti indizi che inducono a pensare l’evoluzione biologica e l’emergere della coscienza come caratteristiche proprie e globali dell’Universo stesso.
Contestualmente dobbiamo però riconoscere, sempre su base scientifica, che le distanze cosmiche che intercorrono tra i possibili siti “abitati” (i pianeti extrasolari), il limite fisico assoluto della velocità di propagazione di ogni tipo di informazione (la velocità della luce) e la durata effimera del “fenomeno umano” paragonata ai tempi scala dell’evoluzione cosmica, rendono praticamente nulla la possibilità di entrare in contatto, e quindi in dialogo, con le eventuali forme di vita cosciente presenti nell’Universo.
Queste considerazioni preliminari sono necessarie per porre correttamente la domanda sulle implicazioni teologiche della eventuale presenza di vita extraterrestre: è possibile (e probabile) che in futuro ne scopriamo segni sempre più convincenti, ma è estremamente improbabile (se non impossibile) che possiamo dialogare con i nostri fratelli remoti.
Domanda futile quindi? Esercizi di “fantateologia”? No: in linea con l’asserita fecondità del dialogo tra Scienza e Fede, credo che ogni possibilità scientificamente credibile debba essere presa in seria considerazione dalla Teologia per verificare, ancorché in una sorta di Gedanke Experiment, se le attuali interpretazioni dei dogmi di fede potrebbero sopravvivere senza contraddizioni all’annuncio dell’evidenza “cosmica” della vita cosciente.
Mi sembra che il concetto di Creazione, per così dire “a-temporale”, sopra enunciato, non verrebbe affatto intaccato da tale annuncio, anzi, credo che acquisterebbe ancor più forza: l’atto creatore globale coinvolge nella sua comunicazione d’amore tutto il Cosmo.
Merita invece attenzione (e per questo mi sembra che il nostro Gedanke Experiment sia molto utile), il dogma che caratterizza e distingue il Cristianesimo dalle altre grandi Religioni: la Rivelazione. Infatti noi crediamo che con la sola nostra capacità raziocinante (la ragione-coscienza che l’atto creativo ci ha donato) avremmo potuto solo riconoscere l’”esistenza” del Creatore, ma non avvicinarlo e chiamarlo per nome dandogli del Tu. È solo grazie all’amore del Logos che si è fatto carne e ha posto la sua tenda tra di noi, condividendo con noi l’evento drammatico e culminante della nostra esperienza umana, la morte (e la morte in croce!), che noi oggi conosciamo la Via che ci porta alla Verità e quindi alla Vita (con la V maiuscola). È questo evento storico che, all’interno dell’atto creativo che tutto abbraccia, stabilisce l’unico contatto, per così dire fenomenologico, tra il Logos e il tempo (Kronos) cosmico. È solo grazie a questo evento storico che noi possiamo pregare indirizzandoci a Dio non solo con lo Shema Israel, ma osando dire Padre Nostro. È solo grazie a questo evento storico che i Padri della Chiesa hanno potuto elaborare, non senza difficoltà e vero travaglio intellettuale, la teologia trinitaria che offre la chiave di comprensione dell’atto creativo. È evidente che per noi “esseri terrestri”, questo evento salvifico è unico ed irripetibile: sta a noi, che l’abbiamo ricevuto, andare e annunciarlo a tutti gli angoli della Terra.
Ma che ne sarà dei fratelli extraterrestri? Come possiamo “annunciare” anche a loro la Buona Novella? Non credo sia ammissibile, per un cristiano, pensare che l’amore di Dio escluda dalla salvezza una parte delle sue creature: sarebbe una inconcepibile contraddizione che vanificherebbe tutti gli sforzi di comprensione della Tradizione Apostolica. Non ho una sufficiente formazione teologica per procedere oltre, ma ricordo la risposta che anni fa diede Padre George Coyne, già Direttore della Specola Vaticana, ad una giornalista che gli chiedeva come avrebbe fatto a riconoscere che degli esseri extraterrestri (magari con tre occhi e una sola gamba!) fossero realmente “uomini”: “Chiederei loro – disse Padre Coyne– se fossero peccatori. Ad una risposta affermativa li abbraccerei come fratelli”. È significativo che, nella risposta qui riportata, la possibilità del peccato, venga misteriosamente associata alla situazione delle creature razionali, quasi una condizione affinché le creature possano decidere liberamente di ritornare a Dio. Comunque stiano le cose, credo tuttavia che l’atto salvifico da noi riconosciuto sulla Terra nel mistero pasquale di Gesù Cristo Salvatore, debba avere una valenza cosmica.
Forse non è futile ripensare la Salvezza in Cristo in questi termini. Forse ci potrebbe aiutare ad affrontare con inaspettate prospettive l’ormai ineludibile dialogo con le grandi Religioni non cristiane.