Lei che ha volato nello spazio, come ha imparato a gestire la paura?
Direi che la parola paura non esiste in quanto momento irrazionale, ingestibile. È esorcizzata dall'addestramento e dall'esperienza. Durame la preparazione di una missione parliamo spesso di safety, di sicurezza, cioè di tutto ciò che anticipa e riduce il rischio fino ai livelli più bassi, accettabili. Ovviamente nelle selezioni, nelle interviste degli psicologi, nello stesso curriculum di una persona che aspira al mestiere di astronauta, si possono già leggere alcuni tratti essenziali; uno sportivo che fa scalate in roccia o immersioni subacquee o acrobazia aerea, giusto per fare qualche esempio, con tutta probabilità non è un soggetto che va in panico alla prima difficoltà. C'è poi l'addestramento. Si ipotizzano situazioni di emergenza e ci si confronta con le difficoltà che queste situazioni potrebbero comportare. Facciamo alcuni corsi di salvataggio "tipo marines": sopravvivenza in mare, elisoccorso, lancio con il paracadute, evacuazione in emergenza dalla rampa di lancio, spegnimento di un incendio, tecniche di rianimazione cardiopolmonare. Ci misuriamo con le situazioni di assenza di peso e di iper-gravità con i voli parabolici e la centrifuga. Seguiamo dei corsi per il funzionamento dei sistemi di bordo, studiamo gli esperimenti da realizzare in orbita e ripetiamo molte volte le azioni che saranno necessarie a bordo, uso del gabinetto spaziale compreso. Si procede poi a estenuanti simulazioni della missione: in buona sostanza si lavora a tre – il Mission Control, l'equipaggio in volo e gli istruttori – ipotizzando di eseguire ogni volta un segmento della missione. Gli istruttori, come diavoletti impenitenti, continuamente iniettano sui nostri display dei segnali di avaria, cui dobbiamo rispondere per rimettere la missione nelle condizioni nominali, se possibile, o in una qualche configurazione alternativa, sicura e funzionale. Ecco che appare sullo schermo un messaggio di errore, ora c'è una spia d'allarme che lampeggia, ronza un cicalino che esige attenzione; bisogna riconoscere la situazione e risolverla, facendo appello alle nostre conoscenze, ripescando e consultando rapidamente i nostri manuali di bordo, sempre in sintonia con il Mission Control che cercherà a sua volta la miglior soluzione del problema, senza ovviamente farsi aiutare dagli istruttori, senza barare insomma. Quando cominciamo a vincere sistematicamente il gioco delle simulazioni, giorno dopo giorno, ci convinciamo sempre più che, qualunque cosa accada, sapremo trovare la soluzione e con questa convinzione partiamo sereni.
C'è poi un ulteriore sentimento che non so esprimere compiutamente, ma faccio un esempio. Nei resoconti di episodi di guerra, di salvataggi rischiosi, di avventure straordinarie si legge spesso che gente normale, confrontata con situazioni drammatiche, che mettevano alla prova i loro valori fondamentali – l'amore della famiglia e della Bandiera, l'amicizia, la responsabilità del ruolo – anche di fronte al rischio della vita hanno saputo reagire con dignità, semplicemente da eroi. Credo che ci sia un po' di questo anche nel nostro mestiere. Colleghi, parenti, persone importanti ci offrono un riconoscimento speciale, un misto di apprezzamento e di ammirazione; evidentemente interpretiamo qualcosa di collettivamente prezioso, che dobbiamo portare con dignità, senza riserve. L’onore di vestire lo scafandro dell'astronauta diventa un'armatura che ci regala coraggio.
Vi capita di pregare?
La risposta non può essere che personale. Io credo che mi è capitato più spesso di quanto mi sarei immaginato, non tanto perché mi sentivo in pericolo, ma perché c'erano tante situazioni nuove in cui riuscire non era scontato. Tanti piccoli-grandi problemi tecnici e pratici in un ambiente così complicato, con il timore di fare inavvertitamente qualcosa di sbagliato, producono la stessa ansia della vigilia di un esame difficile; ritorna la paura dell'interrogazione a scuola. Pregare mentalmente, senza togliere attenzione al lavoro, diminuisce lo stress e aiuta a concentrarsi.
Immagino che ci siano diverse credenze religiose a bordo, come convivono?
La NASA preferisce mantenere una posizione "laica", per non apparire schierata con alcuna religione in particolare. Nel nostro equipaggio c'erano tre cattolici, Nicollier, Allen ed io. Tutti e tre frequentavamo la chiesa Saint Thomas a Clearlake; il nostro parroco, Father Anton è pure venuto a Cape Canaveral a celebrare una messa per noi e per i nostri parenti sulla spiaggia accanto alla Beach House degli astronauti. C'era parecchio vento e l'altarino improvvisato rischiava di volar via. Il comandante Loren Shriver era protestante. Non saprei dire di Franklin e di Marsha. Jeff era ebreo; certamente fedele alla Torah, ma, uomo di cultura a 360 gradi, appassionato di musica d'opera, l'ho visto commosso dalla bellezza delle nostre cattedrali e gratificato dalle nostre delizie gastronomiche, buon vino e prosciutto San Daniele compresi.
Un astronauta sovietico disse: non ho incontrato Dio lassù. Cosa ne pensa?
Una frase povera, una povera frase, probabilmente suggerita dal consigliere politico di un'epoca passata. Mi risulta che oggi, nella Russia di Putin, c'è sempre un pope che benedice la Soyuz prima di ogni lancio con uomini a bordo.
Scienza e Fede, grande tema. Come vive lei credente questo dilemma?
[…] Il volo nello spazio ci mette più che mai a confronto con l'immensità dello spazio. Indubbiamente la scienza illuminista moderna ha spodestato la Terra della sua presunta centralità nel Cosmo immutabile; la Terra è un minuscolo pianeta che gira attorno al Sole, che è una stella qualsiasi della Via Lattea, una galassia che a sua volta vaga nel Cosmo. L’universo si espande, non è fisso e immutabile, ha una storia, un passato e un futuro. È stata la scoperta di Edwin Hubble a dare il colpo mortale alla convinzione secolare dell'immobilità del Cosmo: le galassie si allontanano a grande velocità e Il cielo di notte è nero perché la luce delle stelle non fa in tempo a raggiungerci. Il Cosmo ha una storia di circa quattordici miliardi di anni e dunque ci fu un istante in cui esso ebbe origine. Fino a vent'anni fa si pensava che le galassie protagoniste dell'espansione dell'Universo, sotto l'effetto della gravità, avrebbero rallentato la loro corsa financo a ritornare al punto di partenza, come una palla calciata in alto, ricade poi a terra. Vent'anni fa si è misurato che in realtà l'espansione dell'Universo non rallenta ma anzi accelera, un dato inaspettato dal mondo scientifico, che porta all'ipotesi ancora tutta da capire dell'energia "oscura", che ci obbliga ad ammettere che sappiamo abbastanza poco e che molto resta da scoprire.
D'altra parte la fisica ci mette in guardia che il suo metodo, basato sulla misura, aggiorna continuamente i modelli matematici che propone per includere un fenomeno osservato che discorda dalla previsione del modello precedente. È successo con la teoria della relatività che ha sconvolto il paradigma newtoniano della gravità, legando assieme spazio e tempo. Già il tempo. C'è un dato straordinario che l'astrofisica relativistica ci racconta: il tempo è nato con l'origine del cosmo. Se già è difficile immaginare un universo tridimensionale concentrato al tempo iniziale in un granello di densità e temperature mostruosamente alte, che contiene tutto l'Universo attuale, l'idea che anche il tempo sia una dimensione che comincia ad esistere in quell'istante, sconvolge. Forse che il vivere nel tempo – passato presente e futuro, una certezza del nostro vivere quotidiano – sono una caratteristica tutta nostra, peraltro così pervasiva che siamo portati a considerarla una regola assoluta, indiscutibile? Anche la nostra abitudine di convivere con la gravità terrestre, che in ogni istante ci dice dov'è il su e il giù, che ordina le cose, ci pare una regola indiscutibile; eppure, per gli astronauti nello spazio, in orbita attorno alla Terra o in viaggio verso altri mondi, non ha più alcun senso parlare di su e giù. Per aumentare il mistero della genesi del cosmo, la meccanica di Einstein, che funziona alla grande per ricostruire i tredici e passa miliardi di anni di storia del cosmo, nell'istante iniziale va in tilt. Entra in gioco la meccanica quantistica e c'è il cosiddetto "muro di Planck" che non ci lascia vedere l'inizio; la nostra descrizione matematica ci avvicina al tempo zero fin quasi a sfiorarlo, ma l'attimo iniziale rimane irraggiungibile e quindi incomprensibile. Per Dio, che è prima del tempo, un istante vale secoli o forse vale l'eternità, non possiamo sapere. Mi torna in mente la saggia frase di Socrate – so di non sapere – e credo che mi convenga fermarmi davanti al mistero.
Lei pensa che ci sia vita nell'Universo oltre la Terra?
Sappiamo che Marte, molto tempo fa assomigliava alla Terra, la sua superficie era piena di mari, laghi e fiumi. Poi Marte ha perso l'atmosfera – forse a causa del vento solare non schermato da un campo magnetico come sulla Terra – e conseguentemente l'acqua sulla superficie è evaporata e s'è persa nello spazio. C'è però speranza che qualche forma di vita sia rimasta, magari sepolta sotto terra, laddove la radiazione ionizzante del Sole non arriva. A questa domanda potrebbe dare risposta la sonda-rover Exomars nel 2020 che proprio per questa ricerca ha a bordo una trivella , che mi piace sottolineare è made in Italy.
Sono affascinato dalle ultime osservazioni astronomiche della sonda Cassini su Encelado, il satellite di Saturno, che sembra nascondere un mare liquido sotterraneo, riscaldato forse dall'interazione gravitazionale con la grande massa del Pianeta degli Anelli. In quello strano mare liquido potrebbe esserci qualche forma di vita, vorremmo sapere. La vita biologica, intesa come capacità di riproduzione e di crescita utilizzando risorse dell'ambiente è in effetti un fenomeno piuttosto probabile e diffuso nell'Universo; la questione dell'esistenza di civiltà extraterrestri è tutta un'altra storia, che ci riporta alla singolarità dell'Uomo e a questioni tra fisica e metafisica.
E allora, chi siamo noi? Quale risposta si dà lei?
Guardando la Terra dallo spazio non è facile distinguere le opere dell'Uomo, a occhio nudo si distinguono le Piramidi e la Grande Muraglia, ma quando si osserva la Terra di notte si vedono le luci delle città; poiché le coste sono solitamente più densamente abitate dell'interno, l'intensità delle luci disegna per noi il profilo dei continenti. Se fossimo alieni in approccio verso un pianeta sconosciuto saremmo meravigliati da un simile fenomeno, che si sia riusciti a far sì che ci sia luce anche quando la luce del Sole non c'è. Quale nobile intelligenza anima l'Uomo! Viene spontaneo immaginare che quella geniale capacità sia qualcosa di più e di diverso che il frutto di una fortunata sequenza di casualità. Centocinquanta anni fa la teoria dell'evoluzione delle specie con la regola del miglior adattamento all'ambiente proposta da Charles Darwin ha detronizzato l'Uomo dalla sua singolarità nel creato, dal suo podio di padrone e signore insindacabile del regno vegetale e del regno animale. Dalle ricerche di Darwin, apparentemente confermate da alcune scoperte paleontologiche, parrebbe che tutti i primati, homo sapiens compreso, avrebbero una primogenitrice comune africana nella notte dei tempi, tre o quattro miliardi di anni fa. Perfino l'idea della diversità delle specie, così chiaramente enunciata nella Genesi vacilla.
Ma la ricerca genetica più recente sembra confermare invece che la vita non discende da un solo antenato comune, non esiste un solo albero genetico da cui tutte le specie si dipartono e l'analisi dei fossili indica che i principali gruppi di animali sono apparsi improvvisamente in un lasso di tempo relativamente breve; mi sembra che l'ipotesi evoluzionista più integrale sia oggi più debole.
La scienza ha aiutato l'uomo a liberarsi da molte paure, ha allungato la vita, ma non lo ha liberato dalla morte. Dobbiamo pur porci la questione del dopo. Prendo in prestito un pensiero del filosofo francese Jean D'Ormesson recentemente scomparso: nessuno pensa seriamente che non ci sia un abisso tra le meduse, gli scorpioni, le api, così abili, o le scimmie, per quanto perspicaci possano essere e ciò che noi chiamiamo gli uomini. Nonostante Darwin e il suo trasformismo, c’è una frontiera invalicabile di una chiarezza sorprendente tra le altre creature viventi e noi [Jean D'Ormesson, Comme un chant d'espérance, Gallimard 2014].
Per questo ci conforta l'idea che ci sia qualcosa che sopravvive dopo che la polvere di stelle di cui siamo fatti ritorna nel Cosmo; ne troviamo il riflesso nella dimensione spirituale della persona umana, che – unica specie nel mondo biologico – è capace di generare l'arte immortale, la musica, la conoscenza, la scrittura, l'ordine, l'amore, la bellezza.
Perché si continua ad andare nello spazio? Per la scienza o per trovarci qualche ricchezza, o per dominare il mondo?
Certamente la partecipazione diretta dell'uomo all'esplorazione dello spazio ha una giustificazione scientifica anche se i robot possono fare cose meravigliose e sempre più saranno capaci di farne, senza mettere a rischio la vita di essere umani; però credo che piloteremmo molto meglio un robot sul suolo marziano se fossimo presenti in una stazione in orbita attorno a Marte; da Terra ci vogliono venti minuti perché un segnale arrivi a Marte e altrettanti per ricevere un dato di risposta; se da una stazione orbitante attorno a Marte controllassimo un robot scientifico sulla superficie di Marte il dialogo sarebbe immediato, senza tempi morti, si potrebbe quindi fare del vero "tempo reale" anche senza prendere il rischio di atterrare noi stessi su Marte. Sappiamo che per atterrare su Marte, con un'atmosfera molto rarefatta, non bastano scudi termici e paracadute; ci vogliono razzi frenanti che richiedono il trasporto al seguito di combustibile e una notevole complessità di pilotaggio; la sonda Schiapparelli, schiantandosi nella fase finale sul suolo marziano, ce lo ha ricordato dolorosamente.
Si dice che ricuperare materiali sulla Luna comporterebbe un costo circa 150 volte il prezzo dell'oro, difficile dunque immaginarne un utilizzo economico sulla Terra. L’abbandono della Terra per colonizzare altri mondi mi sembra un'ipotesi velleitaria; meglio tener buon conto del pianeta che ci è stato affidato. Infine mi pare che il mondo militare sia molto interessato all'osservazione della Terra e alla navigazione satellitare stando in orbita attorno alla Terra, non ha bisogno di andare sulla Luna.
Ma allora perché?
Appartenere al club delle nazioni che sanno andare nello spazio rappresenta una promozione geopolitica di primaria importanza; ce lo dimostra la Cina, che in questi ultimi venti anni ha voluto costruire le sue capacità spaziali, senza chiedere collaborazione ad alcuno, per poter far parte del club delle superpotenze. Avendo lanciatori, satelliti, taikonauti (versione cinese dell'astronauta) e una stazione spaziale propria, possono ormai proporsi quale un partner internazionale credibile per qualunque impresa spaziale e non solo.
Ma la ragione filosofica profonda del volo umano nello spazio ci rimanda ancora alla nostra voglia, direi alla nostra necessità di conoscere . "Conoscere" è una sorta di curiosità, di imperativo fondamentale cui siamo chiamati, unici al mondo. Forse perché conoscere ci aiuta a proteggerci, a prolungare la nostra esistenza o a coltivare la nostra ansia di felicità. Ma la conoscenza non è fatta di soli dati, è anche fatta di esperienza. Tanto più davanti al mare di informazione che l'internet ci mette a portata di mano uno potrebbe pensare che quella è la conoscenza; in effetti invece il ruolo di chi ha l'esperienza, dell'insegnante per esempio, non è mai stato più utile di ora, per distinguere il reale dal virtuale, perché la dimensione fisica dell'esperienza rimane sempre cruciale. L’esperienza, via maestra alla conoscenza scientifica, è ciò che continua a esigere che si continui ad esplorare, in ambienti sempre più difficili ed ostili, nella profondità degli oceani, nella vastità dello spazio; solo così la nostra conoscenza è vera, nel senso più autentico ed umanistico della parola.
Tratto da F. Malerba, A. Lo Campo, Professione astronauta. La lunga strada per arrivare allo spazio, Sageb, Genova 2018, pp. 143-150.