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L'importanza della storia naturale e della filosofia sperimentale

John Ray
1691

Invitando ad «accostarsi alla natura come ci si accosta ai libri», John Ray (1627-1705) autore di uno dei più noti trattati di teologia naturale dell’apologetica anglicana Sei e Settecentesca, spiega l’importanza della storia naturale per la formazione della persona colta e per chi si occupa di materie teologiche. La storia naturale, i cui tesori sono inesauribili, «tende alla soddisfazione della mente e alla rappresentazione della gloria di Dio».

Ci accontentiamo della conoscenza delle lingue, e di alcune nozioni di filologia, di storia, e dimentichiamo ciò che a me sembra più importante, cioè la storia naturale e le opere della creazione. Io non disapprovo gli altri campi di studio; se lo facessi tradirei solo la mia ignoranza e debolezza. Vorrei solamente che essi non escludessero la storia naturale, e che anzi la storia naturale fosse portata in auge fra di noi. Vorrei che gli uomini fossero così civili da non disprezzare, deridere e svilire questi studi solo per il fatto di non avere con essi una sufficiente dimestichezza. Nessuno studio può essere più piacevole di questo, nessuno come questo soddisfa e nutre lo spirito; in confronto, lo studio delle parole e delle frasi sembra insipido e sterile. Questa erudizione, che (come dice un prelato saggio e osservante) consiste unicamente nella forma e nella pedagogia delle arti, o nelle nozioni critiche sulle parole e sulle frasi, ha in sé una tale imperfezione che è difficile stimare come possa condurre alla conoscenza delle cose, non essendo altro che una sorta di pedanteria capace solo di infondere nell'uomo un eccesso di orgoglio, affettazione e curiosità, sì da renderlo inidoneo a grandi occupazioni. Le parole non sono che immagini della materia, abbandonate al loro studio. Pigmalione si innamorò di un'immagine. L'oratoria, che è l'arte del miglior uso delle parole, è stimata da alcuni uomini saggi come un'arte voluttuaria, come la cucina, che rovina i cibi e li rende insalubri con la varietà di salse che servono più al piacere della gola che la salute del corpo.

Potrebbe far parte (come ha pensato qualche teologo) delle nostre occupazioni contemplare in eterno le parole di Dio, glorificare la sua sapienza, potenza e bontà manifestate nella loro creazione. Sono certo che queste pratiche debbano far parte delle occupazioni della domenica, che è un simbolo dell'eterno riposo. La domenica pare sia stata istituita originariamente per commemorare le opere della creazione, poiché sta scritto che Dio si fermò il settimo giorno.

Non ci basti apprendere dai libri, né leggere ciò che altri hanno scritto, e non accordiamo più fiducia al falso che al vero. Esaminiamo noi stessi le cose che ci capita di incontrare e accostiamoci alla natura come ai libri. Cerchiamo di incrementare e promuovere questo sapere, di fare nuove scoperte, senza diffidare delle nostre membra e delle nostre abilità come faremmo se credessimo che il nostro industriarci non possa aggiungere nulla alle invenzioni degli antichi o non possa correggere i loro errori. Non pensiamo che i confini della scienza siano fissati come le colonne d'Ercole e che portino l'iscrizione Non plus ultra . Non pensiamo, una volta che li abbiamo conosciuti, di interrompere le nostre ricerche. I tesori della natura sono inesauribili. C'è lavoro sufficiente per tutti noi, per gli zelanti, infaticabili e per gli indolenti più indisturbati. Molto si potrebbe fare per tentativi e nulla resiste alla pazienza. Io so che di primo acchito un nuovo campo di studio appare sempre molto vasto, intricato e difficile; ma dopo un piccolo progresso, quando s'inizia ad averne qualche piccola conoscenza, l'intelletto viene meravigliosamente rischiarato, le difficoltà svaniscono e le cose divengono facili e familiari. Come incoraggiamento in questo studio si veda il Salmo 111, 2: «Grandiose sono le opere del Signore, degne d'esser meditate da quanti le amano». Queste parole, che si riferiscono alle opere della provvidenza, possono essere verificate anche rispetto alle opere della creazione. Mi dispiace che in questa università si dia così poca importanza alla filosofia sperimentale e che si neghino le ingegnose scienze matematiche. Esorto ardentemente i giovani, e specialmente i laureandi, a coltivare questi studi. Essi potrebbero inventare o scoprire qualcosa di molto utile e vantaggioso per il mondo. Una sola di queste scoperte giustificherebbe e ricompenserebbe il lavoro di tutta una vita. Comunque, sarebbe sufficiente conservare e continuare quello che già c'è; né vedo a quale migliore impiego si possa volgere l'ingegnosa attività umana; la storia naturale, infatti, tende alla soddisfazione della mente e alla rappresentazione della gloria di Dio, il quale è meraviglioso in tutte le sue opere.

Non c'è uomo che abbia scavalcato le sue inclinazioni o che abbia intrapreso un metodo di studio cui non era adatto, o contrastante con i fini che gli sono stati attribuiti dai suoi amici dopo matura riflessione. Ma chi ha agio e naturale disposizione per questi studi, sia questo dovuto alla forza o alla grandezza del suo corpo, sarà in grado di concepire e comprendere l'intera estensione del sapere.

Né coloro che sono designati per la teologia debbono temere questi studi o pensare che essi possano essere sterili se non vi si dedica un'attenzione esclusiva. La nostra vita è sufficientemente lunga e possiamo trovare in essa abbastanza tempo se lo amministriamo come si conviene: «non accipimus brevem vitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus» come ha detto Seneca [De brevitate vitae, I, 1: «Non riceviamo una vita breve ma l'abbiamo fatta tale e non ne siamo sprovvisti, ma spreconi». Se i giovani non trascorressero tutta la loro vita in questi studi, che incombono e gravano su di loro e li assillano sul modo del loro trapasso, si potrebbe fare molto. Non c'è niente di meglio dello studio della vera fisica come vera propaideia, o preparazione, alla teologia.

    

John Ray, La sapienza di Dio manifestata nelle opere della creazione, tr. it. a cura di Andrea Balzarini, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, pp. 146-148.