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I miei incontri con Albert Einstein

Georges Eduard Lemaître
1957

Revue de Questions Scientifiques. Actualité, histoire et philosophie des sciences

Ho incontrato Einstein per la prima volta ventinove anni fa. Era venuto a Bruxelles ad assistere al Congresso Solvay del 1927. Passeggiando per i viali del parco Leopoldo, mi parlò di un articolo riguardante l’espansione dell’universo, passato pressoché iosservato, che avevo scritto l’anno precedente e che un amico gli aveva fatto leggere. Dopo alcune osservazioni tecniche favorevoli, concluse dicendo che dal punto di vista della fisica gli sembrava assolutamente abominevole.

Nel tentativo di prolungare la conversazione, Auguste Piccard, che l’accompagnava, m’invito a salire sul taxi con Einstein, il quale doveva far visita al suo laboratorio all’università di Bruxelles. Sul taxi parlavo delle velocità di allontanamento delle nebulose [oggi sappiamo si trattava di galassie, ndt] ed ebbi l’impressione che Einstein non fosse molto informato circa i fenomeni astronomici. All’università l’incontro si svolse tutto in tedesco e fu con mia grande sorpresa che mi sentii presentare come “Herr Lemaître”; ammirai l’interferometro, appena rientrato da un’ascensione in mongolfiera, e firmai, dopo Einstein, il libro d’oro dell’università.

Rividi Einstein quattro anni più tardi in California, all’università di Pasadina. Parlandomi dei dubbi che gli venivano in mente circa l’inevitabilità, in determinate condizioni, dell’azzeramento del raggio dell'universo, Einstein mi propose un modello molto semplificato d’universo, per il quale non ebbi la minima difficoltà a calcolare il tensore energia. Quest’occasione mi insegnò molto del suo modo di pensare e del suo modo di troncare le indecisioni prendendo una decisione sulla base di una buona selezione di esempi. Concluse che la scappatoia a cui aveva pensato non funzionava.

Ebbi in quel periodo parecchie conversazioni con Einstein generalmente nel corso di passeggiate, e quasi sempre, allora come in seguito, sul tema della costante cosmologica “lambda”, che aveva introdotto in maniera geniale nelle sue equazioni, ma di cui non fu mai soddisfatto e che si sforzava di ritirare.

Alcuni giornalisti avevano captato che parlavamo della “little lambda” che si divertivano a trasformare in “little lamb”, l’agnellino, che, per così dire, ci seguiva sempre nelle nostre peregrinazioni.

Parlando, un giorno, di questa teoria unitaria che perseguiva incessantemente e per la quale provava allora uno scoraggiamento passeggero, mi diceva che si trattava di un problema difficile le cui probabilità di successo erano minime e che dunque era meglio che se ne occupasse qualcuno che non dovesse più pensare a far carriera.

Quando gli parlavo delle mie idee sull’origine dei raggi cosmici, reagiva vivacemente: “Ne avete parlato a Millikan?”, ma quando gli parlavo dell’atomo primitivo, mi fermava: “No, quello no, suggerisce troppo la creazione.”

L’anno seguente, ritrovai Einstein in Belgio e presi parte insieme con De Donder e Rosenfeld al ciclo di conferenze che egli tenne a Bruxelles. Gli feci una breve visita nella città di Le Coq. Amava parlare della propria attività in quel periodo e diceva: “L’ho scoperto sur le Coq [il gallo, in francese, ndt]”.

A quell’epoca fumavo ancora e un giorno gli offrii una sigaretta; rifiutò, ma poi, cambiando idea, prese la sigaretta e si mise a tagliarla per il lungo e a mettere il tabacco nella sua pipa. Mi spiegò che doveva diffidare del tabacco e quant’altro potesse fumare ogni giorno; gli detti l’opportunità di compiere una piccola infrazione al suo regime.

Non mancai naturalmente di ricominciare in altre occasioni.

È a quest’epoca che risale l’aneddoto del quadrupede. In una delle sue presentazioni, Einstein, il cui francese era più che accettabile, si trovò in imbarazzo nel tradurre il tedesco Vierbein, estensione a quattro del vocabolo consueto, triedro, treibein. Essendo impossibile dire ‘tetraedro’, il professor De Donder, uno dei pionieri della teoria della relatività, gli suggerì senza esitazioni la parola «quadrupede» che ci divertì molto in seguito. Più tardi, mentre Einstein parlava inglese, ebbi modo di sentirlo parlare di «quadrupede», non senza provocare qualche stupore.

Infine, nel 1935, ritrovai, per l’ultima volta, Einstein a Princeton ed egli mi disse: “La Sua mobilità è notevole”. Ero troppo relativista per non trarre qualche conclusione in merito a quella di Einstein stesso, ma mi astenni da ogni commento.

Nello stesso periodo mi si presentò l’occasione di organizzare un incontro tra alcuni docenti dell’Istituto, al quale Einstein venne a presentare le ricerche che stava conducendo allora e di cui non aveva ancora parlato. La teoria era alquanto bizzarra e fu accolta con notevole freddezza. Ebbi l’impressione che si vociferasse di senilità.

In realtà, si trattava di un evento tra i più interessanti. Einstein aveva imboccato una strada senza uscita in seguito a una comunicazione ricevuta per lettera dal suo amico Silberstein, ben noto studioso della relatività. Costui gli scriveva di aver trovato una soluzione alle equazioni sulla gravitazione, dove due singolarità puntuali si armonizzavano l’una con l’altra. Secondo l’impostazione di Einstein, una tale situazione escludeva radicalmente il modo più naturale di condurre le sue ricerche e l’aveva condotto su strade fantasiose.

Poco tempo dopo, lasciò che Silberstein pubblicasse la propria soluzione e fu allora che si poté rivedere la zampata del vecchio leone nella maniera magistrale in cui smontò il sottile paradosso di Silberstein e mise in evidenza una linea di singolarità mobili, la quale svolgeva il ruolo di un’asticella che legava le due masse, impedendo loro in modo del tutto naturale di precipitare l’una verso l’altra.

Discorrendo un giorno dell’equazione di Dirac, che sta all’origine dei semiconduttori e degli spinori, mi diceva: «l’equazione di Dirac – è un autentico miracolo». Ripresi naturalmente la discussione concernente la costante cosmologica e per un istante ebbi l’impressione di essere riuscito a metterlo in difficoltà: “In ogni caso, – mi disse, – se giungesse a dimostrare che la costante cosmologica non è nulla, ciò costituirebbe un risultato importante”.

Riuscii altresì a fargli precisare che nell’articolo che aveva scritto nel 1932, in collaborazione con De Sitter e nel quale parlava di uno spazio euclideo, non aveva preso in considerazione che uno spazio di raggio molto grande, ma non veramente infinito. Ciò permette di distinguere Einstein da coloro che, come Milne, hanno ritenuto possibile conciliare una cosmologia omogenea con uno spazio infinito.

La discussione in merito alla costante cosmologica si chiuse pubblicamente con alcuni contributi al bel volume Albert Einstein philosopher and scientist, che gli fu presentato nel 1949 in occasione del suo settantesimo compleanno e nel quale aveva accettato di suscitare critiche e di rispondervi.

In egual misura, su argomenti a cui teneva molto di più (faccio riferimento a Born, Pauli, Heitler, Bohr) – non sono riuscito né a convincerlo, né, devo ammetterlo, a cogliere il suo pensiero in maniera più precisa.

Quel volume costituisce un documento importante per la storia delle scienze. Forse mostra che, persino in uno scienziato che mantenne fino alla fine un’attività prodigiosa, la vecchiaia aveva comunque alterato un pochino l’equilibrio meraviglioso della sua epoca d’oro. Può essere che alcune facoltà invecchino più rapidamente di altre, può essere che in Einstein, sia pure inasprendosi, sopravivesse lo spirito critico, nel momento stesso in cui il genio creatore cominciava a irrigidirsi? Divenne difficile per lui seguire esattamente, fino alla fine, la via stretta equidistante tra i due scogli in agguato in ogni tipo di ricerca scientifica: il positivismo miope, che non può andare oltre l’esperienza, e l’idealismo sognatore, che perde il contatto con essa.

Forse lo scoglio della vecchiaia di Einstein fu il sogno instancabilmente perseguito di una teoria perfetta, che gli faceva scartare tutto ciò che non quadrasse con l’ideale estetico che egli aveva concepito.

La costante cosmologica può essere paragonata a quelle aste di ferro che sfuggono in ogni direzione nelle costruzioni in cemento. Esse sono senza dubbio superflue e inammissibili in un edificio finito, ma sono indispensabili, se l’edificio si deve successivamente agganciare ad altri e diventare un elemento di una sintesi più vasta. 

   

(Traduzione dal francese di Paolo Zanna)

I miei incontri con Albert Einstein, di George Lemaître in Revue de Questions Scientifiques. Actualité, histoire et philosophie des sciences,  129 (1958) n.1, pp. 129-132, ripubblicata in ibidem 183 (2012), n. 4, pp. 541-545